Con il presente gravame immobiliare di Gorini Roberto e C. s.a.s. (già SAP immobiliare di Baciocchi Sandro C. s.a.s.) ha impugnato il provvedimento in epigrafe, di rigetto dell’istanza di condono edilizio da costei avanzata il 26 aprile 2004 (numero progressivo 510753), evidenziando come la domanda disattesa riguardasse “l’ampliamento di un edificio commerciale sito in Roma-Acilia, via di Acilia 71, angolo via di valle Porcina, immobile distinto al NCEU al foglio 1110, part. 1524, sub 515, (eseguito) mediante chiusura con pareti in muratura di una tettoia, precedentemente realizzata, posta sul lato destro dell’edificio, guardando la facciata”, sicché “In tal modo all’edificio preesistente si aggiungeva un annesso di mq 50 (con un’iniziale erronea indicazione di mq 52,50) che estendeva la metratura dell’immobile ad uso commerciale preesistente”.
Roma Capitale respingeva la domanda della ricorrente sul presupposto (in tesi errato) della “realizzazione di abusi edilizi … consistenti nella realizzazione ex novo di un manufatto a destinazione d’uso commerciale”, nella considerazione che la relativa unità immobiliare “non risulta ampliamento né pertinenza di altro immobile commerciale, confermandosi viceversa ancora oggi separata ed autonomamente utilizzabile”, atteso che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), della l.r. n. 12/2004, le uniche opere di nuova costruzione suscettibili di essere condonate sono quelle con destinazione residenziale, nella specie mancante.
Parte ricorrente ha chiesto, dunque, l’annullamento di tale diniego, assumendone l’illegittimità per “VIOLAZIONE DI LEGGE (artt. 31 D.P.R. n. 380 del 2001; art. 32 L. n. 326 del 2003, art. 2 LR 12 del 2004). VIOLAZIONE ARTT. 97, 24, 42 COST. OMESSA ED INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DI LEGGE. ERRONEITA’ DEL PRESUPPOSTO. ECCESSO DI POTERE. SVIAMENTO DI POTERE PER TRAVISAMENTO DEI FATTI DIFETTO DI ISTRUTTORIA”, in relazione all’aver l’amministrazione erroneamente ritenuto che la richiesta di condono riguardasse un immobile costruito separatamente da quello principale, mentre si tratterebbe dell’ampliamento di precedente immobile, come chiarito dall’istante in sede di osservazioni al relativo preavviso di diniego.
Parte ricorrente evidenzia, altresì, in ricorso, a sostegno della propria tesi, “come la Regione Lazio, al fine di fornire chiarimenti interpretativi sulla propria Legge regionale attuativa, la N. 12 del 2004, con comunicato del 1 dicembre 2004 ebbe a dichiarare che “l’ampliamento può anche non essere in aderenza purchè realizzato nella stessa area di pertinenza del fabbricato principale e ad esso legato pertinenzialmente”.
Roma Capitale si è costituita in giudizio instando per la reiezione del gravame, ribadendo la natura di nuova costruzione del manufatto per il quale è causa.
A seguito di comunicazione, in data 11 gennaio 2024, del Fallimento della società ricorrente, con decreto presidenziale n. 367 del 23 gennaio 2024, è stata dichiarata l’interruzione del giudizio, poi riassunto dal Fallimento medesimo con atto notificato il 19 aprile 2024 e depositato il 22 dello stesso mese.
La Sezione, all’esito dell’udienza di smaltimento del 13 dicembre 2024, con ordinanza n. 3896/2025 – premesso che “La questione dirimente, ai fini della decisione sul ricorso in epigrafe, è la qualificazione dell’intervento edilizio oggetto di domanda di condono edilizio – nuova costruzione o ampliamento” e che “Il diniego di rilascio di condono edilizio si fonda sulla qualificazione dell’opera come nuova costruzione, e non come ampliamento” – ha ritenuto “necessario, pertanto, acquisire dall’Amministrazione resistente tutta la documentazione afferente l’istruttoria che ha preceduto l’adozione del gravato provvedimento e disporre un sopralluogo … che detta Amministrazione dovrà eseguire in contraddittorio con la parte ricorrente – la quale potrà farsi assistere da propri tecnici di fiducia, all’esito del quale dovrà essere depositata … una relazione dettagliata sullo stato dei luoghi e, in particolare, sull’opera qui in rilievo e su quelle nelle immediate vicinanze corredata di documentazione fotografica”.
Roma Capitale assolveva all’incombente istruttorio, versando “Relazione tecnica” del proprio Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica, Direzione Edilizia, U.O. Condono, completa di relativa documentazione fotografica, in cui si attesa quanto segue:
“L’ immobile oggetto di accertamento riguarda un’unità immobiliare facente parte di un piccolo centro commerciale contraddistinto da due coperture adiacenti, l’unità oggetto del condono si trova sotto una distinta copertura, successiva a quella già esistente di un’altra costruzione, come si evince dall’estratto di Maps Google.
L’unità immobiliare oggetto di reiezione della domanda di condono edilizio … contraddistinta al catasto urbano con il foglio n. 1110, particella n. 1254 e sub 515 – categoria catastale C/1 classe … è confinante su un lato con un’unità immobiliare (sub 501), lato ingresso su corte comune prospiciente su via di Acilia, altro lato con unità immobiliare (sub 516) e, l’ultimo lato, con altre unità immobiliari.
Sull’unità di cui all’oggetto (sub 515) è presente un’insegna dell’attività commerciale Pizzeria Alice, vedasi foto allegate.
Dal sopralluogo effettuato è emerso quanto segue: accesso autonomo su corte comune, dispone di un servizio igienico e destinato ad uso commerciale.
Per quanto sopra esposto, si ritiene che l’unità immobiliare (sub 515) non è a servizio di altre unità immobiliari, ha una propria autonomia funzionale e commerciale, possiede un proprio valore di mercanto e implica un aumento del carico urbanistico e non può essere definita pertinenziale ad altre unità immobiliari, pertanto trattasi di nuova costruzione”.
Anche parte ricorrente depositava, propria relazione in cui si legge che “Il sopralluogo effettuato ha messo in evidenza la situazione che la SAP Immobiliare ha più volte ribadito e cioè che l’unità immobiliare oggetto di domanda di condono non possa essere considerata come una nuova costruzione ma che essa è, e non può essere considerata diversamente, parte di un unico nucleo edilizio, realizzato in fasi successive, che nasce da una prima unità ad uso commerciale, regolarmente condonata.
L’ampliamento costituito da un unico ambiente è stato realizzato in perfetta aderenza alla costruzione originaria con la quale si condivide la stessa muratura di separazione.
Considerarla pertanto una nuova costruzione avulsa dall’esistente appare realisticamente poco sostenibile”.
All’udienza pubblica del 4 luglio 2025 la causa veniva, quindi, trattenuta in decisione.
Come premesso nella parte in fatto, avverso il provvedimento impugnato la difesa della ricorrente ha dedotto, con unico articolato motivo di ricorso, vizi di violazione di legge ed eccesso di potere, contestando i presupposti posti a fondamento dell’avversata determinazione di diniego, su mero assunto che il manufatto in questione integrerebbe non già nuova edificazione di un fabbricato ad uso commerciale, preclusa dalla l. n. 326 del 2003, bensì un ampliamento dell’immobile preesistente, poi depositando propria apposita relazione tecnica in tesi idonea ad evidenziare come si tratterebbe di una struttura unica con l’immobile preesistente, integrante un mero ampliamento di quest’ultimo sia sotto il profilo strutturale che funzionale.
Il ricorso deve, tuttavia, essere disatteso.
Giova premettere che quella sul condono edilizio è una normativa eccezionale, come tale di stretta interpretazione.
Sul punto, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire, in più occasioni, che il condono edilizio:
– rappresenta “un provvedimento normativo senza dubbio eccezionale e straordinario”, che trova la propria ratio sia nella “persistenza del fenomeno dell’abusivismo, con conseguente esigenza di recupero della legalità”, sia nella imputabilità di tale fenomeno di abusivismo “almeno in parte, proprio alla scarsa incisività e tempestività dell’azione di controllo del territorio da parte degli enti locali e delle Regioni” (in tal senso, le sentenze n. 196 del 2004 e n. 256 del 1996);
– costituisce, dunque, un istituto “a carattere contingente e del tutto eccezionale” (in tal senso sentenze n. 427 del 1995 e n. 416 del 1995), ammissibile solo “negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale” (in tal senso, la sentenza n. 369 del 1988), dovendo in altre parole “trovare giustificazione in un principio di ragionevolezza” (in tal senso, la sentenza n. 427 del 1995, già cit.).
Il carattere di straordinarietà e di eccezionalità anche del condono del 2003, del resto, è confermato dal comma 2 dell’art. 32 del relativo decreto legge, secondo il quale la nuova normativa è stata disposta “nelle more dell’adeguamento della disciplina regionale ai princìpi contenuti nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”.
Ne discende, invero, come necessario corollario dalle caratteristiche di eccezionalità e straordinarietà del condono edilizio che la relativa normativa deve essere interpretata in modo rigoroso e il più possibile aderente alla lettera della legge, in modo da evitare surrettizi ampliamenti dell’area della sanatoria, i quali si tradurrebbero in inammissibili estensioni del vulnus che – mediante il varo di tale intervento “eccezionale” – viene arrecato ai valori del paesaggio e dell’equilibrato sviluppo del territorio.
In altre parole, principio cardine in materia di condono edilizio è, dunque, il carattere straordinario ed eccezionale della normativa che, nella contingenza del momento in cui interviene, l’ha previsto, con conseguente necessità di una stretta interpretazione, di stampo letterale, delle norme di sanatoria, al fine di non alterare ulteriormente il già intaccato equilibrio dei valori costituzionali sottesi mediante la surrettizia introduzione di ulteriori deroghe non espressamente consentite dalla legge.
Ciò posto, la disposizione chiave, la cui interpretazione è rilevante per il presente giudizio, è quella del comma 25 dell’art. 32 del decreto legge n. 269 del 2003, convertito in legge n. 326 del 2003, ai sensi del quale “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi. Le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri cubi”.
In tal modo il legislatore del 2003 ha espressamente individuato, ai fini dell’ammissibilità al nuovo condono edilizio, la categoria degli “ampliamenti” dei manufatti già esistenti e quella delle “nuove costruzioni residenziali”, ponendo quali condizioni per la loro sanatoria:
i) nel primo caso, l’avvenuta ultimazione delle opere entro il 31 marzo 2003 e l’ampliamento di volumetria contenuto nel limite del 30% della volumetria originaria oppure nel limite di 750 mc.;
ii) nel secondo caso, l’ultimazione della nuova costruzione entro il 31 marzo 2003, il limite di volumetria dei 750 mc. per singola richiesta di titolo abilitativo ed il rispetto del tetto massimo complessivo di 3000 mc..
Se con riferimento agli “ampliamenti” consentiti la norma non distingue la natura residenziale o meno dei manufatti cui essi accedono – sicché è da ritenere, evidentemente, che sono ammissibili in sanatoria tutti gli ampliamenti, indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto (così come, peraltro, si ricava dalla sentenza n. 49 del 2006 della Corte Costituzionale) – con riferimento invece alla categoria delle “nuove costruzioni” la norma si riferisce espressamente solo a quelle “residenziali”, peraltro assoggettandole a limiti di volumetria.
Ebbene, quanto fin qui detto basta, allora, per escludere che la legge sul condono edilizio del 2003 – in quanto, come detto, legge eccezionale di sanatoria, ossia applicabile entro i limiti espressamente previsti senza inammissibili interpretazioni estensive – possa riferirsi anche alle nuove costruzioni non residenziali.
Il punto, del resto, trova un’importante conferma anche alla luce dei lavori preparatori della legge n. 326 del 2003 di conversione del decreto legge che ha introdotto il nuovo condono edilizio: il relatore della VIII Commissione permanente della Camera dei Deputati, nella seduta del 5 novembre 2003, illustrava, infatti, l’emendamento governativo “limitativo” su cui il Governo ha poi posto la questione di fiducia, proprio osservando che tra “le opere ammesse al condono” rientrano quelle di “nuova costruzione, ma limitatamente agli edifici residenziali, anche in questo caso nel limite dei 750 mc per singola richiesta” (sul punto, Consiglio di Stato, n. 6237 del 2008).
Deve, poi, rilevarsi che anche la legge regionale del Lazio in materia – la n. 12 del 2004 – all’art. 2, rubricato “opere abusive suscettibili di sanatoria”, limita la condonabilità di opere di nuova costruzione a quelle aventi destinazione esclusivamente residenziale, in ciò confermando la norma statale sopra richiamata.
Ciò posto, osserva il Collegio come, nella fattispecie, non è in contestazione che venga in rilievo un’opera abusiva, peraltro di non esigua consistenza, avente una destinazione non residenziale ma commerciale.
La difesa della ricorrente ha, infatti, incentrato le proprie deduzioni sulla sostenuta erroneità della qualificazione operata dall’amministrazione, dovendo l’istanza di condono essere riferita non già ad una nuova edificazione bensì ad un ampliamento del precedente fabbricato, pure avente destinazione commerciale, con conseguente ammissibilità della sanatoria straordinaria.
La tesi di parte ricorrente, come ribadita nella relazione tecnica di parte – oltre a non trovare, tuttavia, alcun riscontro nella documentazione versata in atti dalla stessa ricorrente, come da onere su essa gravante – trova espressa ed evidente smentita nei contenuti di cui alla Relazione e relativi allegati, invece, depositati da Roma Capitale il 5 maggio 2025, idonei a contraddire l’esistenza di un collegamento strutturale e funzionale tra il fabbricato oggetto della domanda di condono rigettata con il provvedimento gravato e gli immobili adiacenti.
Né soccorre, al fine di addivenire a diverse conclusioni, il contenuto della circolare della Regione Lazio richiamata da parte ricorrente, condividendo il Collegio quel consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato che riconduce la natura pertinenziale di un manufatto ad opere di minimo impatto sotto il profilo urbanistico, chiarendo come la qualifica di pertinenza urbanistica non sia riconducibile a quella civilistica (come definita dall’articolo 817 del codice civile), sicché, ai fini della pertinenza urbanistica, non si deve considerare solo il rapporto funzionale di accessorietà con la cosa principale, ma si devono valutare le caratteristiche dell’opera in se’ sotto il profilo dell’autonomo impatto urbanistico sul territorio.
La nozione di pertinenza urbanistica è, dunque, riferibile solo ad opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un’opera principale, con la conseguenza che “il manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale ed è funzionalmente inserito al suo servizio, ma anche quando trattandosi di opere di modestissima entità e accessorie rispetto a un’opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, sia privo di un autonomo valore di mercato e non comporti carico urbanistico, proprio in quanto esaurisce la sua finalità nel rapporto funzionale con l’edificio principale” (Consiglio di Stato, Sezione VI, 13 gennaio 2020, n. 309; Sezione II, 22 luglio 2019, n. 5130).
La qualifica di pertinenza urbanistica non è, dunque, applicabile a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all’opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
Ebbene, applicando tali consolidati principi giurisprudenziali, è evidente come, nel caso di specie, non si possa ravvisare alcuna pertinenza urbanistica.
Proprio dalla relazione tecnica prodotta da parte ricorrente emerge, infatti, lo svolgimento nel complesso edificatorio in questione di diverse attività commerciali, elemento che si associa alla già rilevata non esigua consistenza del fabbricato oggetto della domanda di condono, con conseguente esclusione dei presupposti per accedere alla qualificazione in termini di ampliamento sostenuta da parte ricorrente (in senso conforme, questo T.A.R. Lazio, Roma, sentenza n. 7459/2020, confermata da Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 5517/2024).
In conclusione, per quanto sin qui detto, il ricorso deve dunque essere respinto, perché infondato.
Le spese seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo ponendole a carico di parte ricorrente.
TAR LAZIO – ROMA, IV TER – sentenza 09.09.2025 n. 16105