1. Gli odierni appellanti-OMISSIS- e-OMISSIS-, in proprio e (già) nella loro qualità di esercenti la potestà genitoriale sull’allora minore -OMISSIS-, hanno impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – di qui in avanti, per brevità, il Tribunale – la determinazione dirigenziale n. 1810 del 13 agosto 2012, notificata in data 13 novembre 2012, con cui Roma Capitale ha disposto la demolizione di alcuni interventi abusivi di ristrutturazione edilizia – eseguiti in assenza di permesso di costruire ed in area vincolata – su un villino sito in Roma, via-OMISSIS- (villino originariamente assentito al momento della sua iniziale edificazione).
1.1. I rilievi censori articolati in prime cure si sono appuntati, sinteticamente, sui seguenti profili:
a) l’ascrivibilità materiale degli interventi contestati al costruttore originario del villino (e non agli odierni appellanti, i quali avrebbero acquistato il villino soltanto dopo che detti interventi erano già stati realizzati);
b) la scomponibilità degli interventi complessivamente realizzati in singoli segmenti di interventi che, atomisticamente considerati, non soggiacerebbero all’obbligo del permesso di costruire;
c) l’assenza di qualsiasi vincolo paesaggistico sull’area in contestazione;
d) il difetto di motivazione della determinazione dirigenziale impugnata;
e) l’assoluzione in sede penale dal reato di abuso edilizio.
1.2. Roma Capitale si è ritualmente costituita nel primo grado del giudizio, instando per la reiezione del gravame.
2. Il Tribunale, con la sentenza n. -OMISSIS- del 4 aprile 2023, ha respinto il ricorso.
2.1. Ad avviso del primo giudice, in sintesi, i ricorrenti hanno contestato l’applicabilità in loro danno dei vincoli indicati nel provvedimento impugnato, essendo gli stessi indicati in maniera del tutto generica, asserendo essere intervenuta l’esclusione dell’area ove ha sede la propria abitazione dal perimetro del vincolo paesaggistico e, comunque, consistendo le opere contestate in interventi riconducibili all’ambito dell’attività edilizia libera o, al più, della manutenzione ordinaria soggetta semplicemente a d.i.a.
2.2. Orbene, il Tribunale ha ricordato che, per pacifico orientamento giurisprudenziale, al fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprenderne in modo adeguato l’impatto effettivo complessivo.
2.3. I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati, dunque, in maniera “frazionata” sicché, nel verificare l’unitarietà o la pluralità degli interventi edilizi, non può tenersi conto del mero profilo strutturale, afferente alle tecniche costruttive del singolo manufatto, ma deve prendersi in esame anche l’elemento funzionale, al fine di verificare se le varie opere, pur strutturalmente separate, siano, tuttavia, strumentali al perseguimento del medesimo scopo pratico, consentendo la realizzazione dell’interesse sostanziale sotteso alla loro realizzazione.
2.4. Ciò premesso, ha rilevato il Tribunale, sarebbe nel caso di specie indubitabile che le opere la cui legittimità è stata contestata col provvedimento gravato, considerate in maniera unitaria e non frazionata, hanno determinato un complessivo incremento di volumetria e una modifica del prospetto esterno dell’immobile, con la conseguenza che, anche a prescindere dall’effettiva sussistenza dei vincoli paesaggistici indicati nel provvedimento, l’intervento edilizio in questione, lungi dall’afferire all’ambito dell’attività libera o ad una manutenzione ordinaria eseguibile semplicemente sulla scorta di d.i.a., costituirebbe a tutti gli effetti una ristrutturazione edilizia che ha portato ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente e che ha comportato modifiche del volume e dei prospetti, in quanto tale eseguibile solo previo rilascio di permesso di costruire o di d.i.a. alternativa (ai sensi degli artt. 10 e 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 nel testo ratione temporis vigente).
2.5. A conferma di ciò il Tribunale ha peraltro evidenziato che sono stati gli stessi appellanti ad aver richiesto, ex post, un permesso in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (c.d. accertamento di doppia conformità), che è stato però negato con provvedimento di reiezione, peraltro mai impugnato.
2.6. Ne deriverebbe, ad avviso del Tribunale, l’infondatezza delle censure relative all’insufficienza della motivazione del provvedimento demolitorio impugnato, quest’ultima essendo pienamente assolta dalla esatta identificazione delle opere realizzate e con l’indicazione delle norme di legge violate.
2.7. La sentenza qui gravata, nella parte in cui ha rilevato la legittimità dell’ordine di demolizione e della qualificazione degli abusi operata anche a prescindere dall’effettiva sussistenza dei vincoli paesaggistici indicati nel provvedimento, ha inteso affermare che, anche se fosse vero quanto asserito dall’appellante e, dunque, non sussistessero vincoli sull’immobile de quo, nondimeno le opere contestate rimarrebbero abusive secondo la normativa generale correttamente applicata dall’amministrazione.
2.8. Da ultimo, la sentenza impugnata ha ritenuto legittimo il provvedimento ingiuntivo non viziato, ove assegna il termine di trenta giorni per il ripristino.
2.9. Tale termine infatti, sebbene inferiore a quello indicato dalla normativa applicata, è tuttavia inidoneo a determinare la illegittimità dell’ordine stesso, risolvendosi in una violazione meramente formale, non lesiva per l’interessato.
3. Avverso tale sentenza hanno proposto appello gli interessati, lamentandone l’erroneità per le ragioni che di seguito saranno esaminate, espresse in cinque motivi di censura, e ne hanno chiesto la riforma, con il conseguente annullamento dell’ordinanza gravata.
3.1. Si è costituita Roma Capitale, per chiedere la reiezione dell’appello.
3.2. Le parti hanno depositato le rispettive memorie nei termini di cui all’art. 73 c.p.a.
3.3. Infine, nella pubblica udienza del 23 settembre 2025, non essendo comparso alcuno per le parti e sulle conclusioni come rassegnate in atti, il Collegio ha trattenuto la causa in decisione.
4. L’appello è infondato.
5. Con il primo motivo (pp. 6-8 del ricorso), anzitutto, gli odierni appellanti lamentano che la sentenza impugnata, limitandosi ad affermazioni apodittiche, non sarebbe minimamente entrata nel merito delle singole opere contestate e, dunque, non si sarebbe confrontata con la censura inerente al difetto di motivazione e difetto di istruttoria, erroneamente rigettata dalla sentenza stessa, rispetto al provvedimento demolitorio, in relazione alla mancata corretta qualificazione dei singoli interventi edilizi e all’individuazione del corretto regime sanzionatorio, incorrendo così nella violazione della normativa di cui all’art. 3 della l. n. 241 del 1990, agli artt. 27, 31, 32, 33, 34 e 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed all’art. 16 della L.R. n. 15 del 2008.
5.1. Non a caso il provvedimento impugnato non identifica né quantifica alcuno specifico incremento di volumetria.
5.2. Il riferimento al presunto “incremento di volumetria” è assolutamente generico perché, come noto, non ogni incremento di superficie determina la violazione di cui agli artt. 31 e 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 (artt. 15 e 16 della L.R. n. 15 del 2008).
5.3. E nel caso di specie di 11 interventi contestati soltanto 3 individuano un aumento di s.u.l., cui non necessariamente corrisponde un aumento di volumetria
5.4. Ma, anche a voler ritenere che i 3 interventi individuati abbiano effettivamente determinato aumenti volumetrici rilevanti, la presunta assoggettabilità del relativo regime sanzionatorio anche agli altri interventi (che non hanno certamente determinato alcun incremento di volume) costituisce una mera petizione di principio, assolutamente indimostrata.
5.5. Basterebbe pensare che il provvedimento impugnato irroga la sanzione della demolizione rispetto ad interventi sicuramente legittimi e non soggetti a permesso di costruire (quali la diversa sistemazione delle tramezzature interne, aumento della superficie pavimentata esterna scoperta, realizzazione di un collegamento tra corte anteriore e corte posteriore, realizzazione di un soppalco non abitabile).
5.6. Il motivo è privo di fondamento.
5.7. Correttamente, invero, il primo giudice ha richiamato il consolidato orientamento (v., per tutte, Cons. St., sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4569), secondo cui, in presenza di una pluralità di opere abusivamente realizzate, la valutazione dell’abuso edilizio presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, dovendosi valutare l’insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio e non il singolo intervento (Cons. St., sez. VI, 26 luglio 2018, n. 4568).
5.8. Non è dato, infatti, scomporne una parte per negare l’assoggettabilità ad una determinata sanzione demolitoria, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante, bensì dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni.
5.9. L’opera edilizia abusiva «va infatti identificata con riferimento all’immobile o al complesso immobiliare, essendo irrilevante il frazionamento dei singoli interventi avulsi dalla loro incidenza sul contesto immobiliare unitariamente considerato (Cons. Stato, Sez. VI, 15.2.2021, n. 1350; Cons. Stato, Sez. II, 27.4.2020, n. 2670)» (Cons. St., sez. II, 14 ottobre 2022, n. 8778).
5.10. Se così è, dunque, non può che derivarne l’infondatezza della censura qui in esame, posto che gli stessi appellanti non negano che almeno 3 degli 11 interventi hanno determinato aumenti volumetrici rilevanti che, unitariamente considerati insieme con gli altri, hanno determinato un impatto edilizio certo non trascurabile, diversamente da quanto essi assumono nel propugnare una non condivisibile, perché atomistica e riduttiva, visione dei singoli interventi.
5.11. Ne segue la reiezione della censura.
6. Ancora, con il secondo motivo (pp. 8-11 del ricorso), gli odierni appellanti, conformemente alla appena cennata impostazione, passano in rassegna partitamente i singoli interventi, assumendo che essi, esaminati singulatim, non andrebbero inquadrati nella previsione dell’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 o dell’art. 16 della L.R. n. 15 del 2008 e, come tali, subordinati a permesso di costruire (sotto comminatoria di demolizione ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 o dell’art. 16 della L.R. n. 15 del 2008), bensì come interventi assoggettati a mera d.i.a., come disciplinata dall’art. 22 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001.
6.1. Anche questa censura, tuttavia, è da respingersi perché, come detto, essa soffre del medesimo vizio che inficia l’impostazione della precedente censura, laddove pretende di scindere i singoli interventi, senza esaminarli nel loro complessivo impatto edilizio che, come pure si è detto, non è affatto trascurabile, come gli appellanti assumono.
6.2. Basti qui rilevare, come del resto ha fatto la sentenza impugnata, che il 18 luglio 2011 gli odierni appellanti, consapevoli di tale impatto, hanno presentato una istanza di permesso in sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, nel corpo della quale, tuttavia, non venivano specificate chiaramente le opere oggetto della stessa.
6.3. Con la D.D. n. 294 del 4 aprile 2012, mai impugnata, la suddetta istanza è stata rigettata, poiché in contrasto con le norme previste dalla L.R. n. 21 del 2009, con la convenzione urbanistica stipulata con il Comune di Roma per eccesso di cubatura, nonché con l’art. 3, comma 12, delle N.T.A.
6.4. Pertanto, le opere de quibus sono rimaste assoggettate alla normativa repressiva prevista dal d.P.R. n. 380 del 2001.
6.5. Del resto vi è un aspetto, che parimenti non deve essere trascurato, e cioè quello relativo alla sussistenza di vincoli sull’immobile de quo, come evidenziato nelle premesse del provvedimento impugnato nonché negli atti ad esso presupposti ed allegati in sede di deposito documentale.
6.6. Sul punto, diversamente da quanto assumono gli appellanti, a nulla può rilevare che in sede di processo penale, terminato con una pronuncia di proscioglimento a favore degli stessi, il giudice abbia ritenuto di assolvere gli stessi dai reati previsti dalla normativa in materia di tutela paesaggistica.
6.7. E ciò perché:
– da un lato, la sentenza penale si basa sulla meramente “ipotizzata” declassificazione della zona (pag. 3 del provvedimento), senza che sul punto si approfondisca alcunché;
– al fine di ritenere sottoposta a vincoli o meno un’area non può certo ritenersi determinante l’esito di un processo penale, chiaramente avulso dal procedimento amministrativo, unico strumento tramite il quale l’amministrazione può ritenere, nell’esercizio dei poteri attribuitigli dalla legge, di “svincolare” eventualmente la zona.
6.8. Gli interventi realizzati, ed oggetto del provvedimento impugnato, sono stati quindi stati correttamente sottoposti al più rigido regime previsto nel caso di realizzazione degli stessi in area vincolata.
6.9. Ne segue l’infondatezza, dunque, della censura in esame.
7. Con il terzo motivo (p. 11 del ricorso), ancora, gli appellanti deducono che la sentenza impugnata avrebbe completamente omesso di considerare la sussistenza dell’originario permesso di costruire (n. 304/2008), in base alla quale il costruttore aveva edificato l’immobile pur apportando le modifiche poi contestate, aventi peraltro carattere di modifica non essenziale.
7.1. La sentenza impugnata, nell’omettere la considerazione di quanto precede, avrebbe altresì omesso di valutare il disposto degli artt. 33 e 4 del d.P.R. n. 380 del 2001 e degli artt. 16 e 18 della L.R. n. 15 del 2008, i quali prevedono sempre che la sanzione demolitoria venga irrogata soltanto a seguito di “motivato accertamento tecnico”, volto a verificare se la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi sia effettivamente possibile «senza pregiudizio della parte dell’immobile eseguita in conformità».
7.2. Anche questo motivo, tuttavia, va respinto.
7.3. La censura, per quanto non esaminata dal primo giudice, deve essere respinta, dovendosi rammentare che, come chiarito di recente dalla giurisprudenza amministrativa, l’applicabilità, o meno, della sanzione pecuniaria, può essere decisa dall’amministrazione solo nella fase esecutiva dell’ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico.
7.4. La valutazione, cioè, circa la possibilità di dare corso all’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire, con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva «non può costituire un vizio dell’ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l’accertamento delle conseguenze derivanti dall’omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell’incidenza della demolizione sulle opere non abusive» sicché «in sintesi, la verifica ex art. 33, comma 2, va compiuta su segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva, e non dall’Amministrazione procedente all’atto dell’adozione del provvedimento sanzionatorio” (Cons. St., sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 254).
7.5. Il motivo, pertanto, va respinto.
8. Con il quarto motivo (p. 11 del ricorso), ancora, gli appellanti deducono che la sentenza impugnata ha ritenuto congruo il termine di 30 giorni irrogato dal provvedimento impugnato ritenendo che si tratti di «una violazione meramente formale», mentre si tratterebbe di un termine ictu oculi incongruo e ben inferiore a quello previsto dalle disposizioni di legge.
8.1. Anche questo motivo è privo di fondamento.
8.2. Bene il primo giudice ha fatto applicazione del consolidato orientamento secondo cui l’assegnazione di un termine inferiore a quello stabilito ex lege per l’ottemperanza all’ordine di demolizione è inidonea a determinare la illegittimità dell’ordine stesso, risolvendosi in una violazione meramente formale, non lesiva per l’interessato, il quale conserva comunque un termine non inferiore a quello di legge per ottemperare all’ingiunzione (cfr. Cons. St., sez. VI, 7 gennaio 2021, n. 179).
8.3. Del resto, il termine di 90 giorni è ampiamente decorso, a distanza ormai di anni dall’ingiunzione, senza che le opere siano state demolite, il che dimostra, ancor più, la natura formalistica della censura, che va respinta, non essendo stato dimostrato che il termine di 30 giorni abbia determinato l’impossibilità o una grave difficoltà di eseguire la demolizione, rimasta non a caso inattuata dopo il moltissimo tempo ormai decorso.
9. Infine, con il quinto motivo (p. 12 del ricorso), gli appellanti lamentano che la sentenza impugnata avrebbe omesso di valutare il motivo di impugnazione relativo all’assenza di interesse pubblico rispetto alla rimozione di interventi di natura marginale rispetto all’intervento autorizzato con permesso di costruire n. 304/2008 e risalenti nel tempo.
Anche quest’ultimo motivo va disatteso.
9.1. Il primo giudice, lungi dal non avere esaminato la censura, ha anche in questo caso, nel respingerla, fatto corretta applicazione del principio, ormai cristallizzato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo consiste in un provvedimento vincolato, tale da non richiedere una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, tantomeno una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
9.2. Anche questo motivo, dunque, va respinto.
10. In conclusione, per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere respinto, con la conferma conseguente della sentenza impugnata, anche ai sensi di cui sopra.
11. Le spese del presente grado del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza degli appellanti.
11.1. Rimane definitivamente a loro carico per la soccombenza anche il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello.
CONSIGLIO DI STATO, VII – sentenza 06.10.2025 n. 7785