Urbanistica e edilizia – Area sottoposta a vincolo paesistico, inerzia della P.A. nel reprimere l’abuso e affidamento tutelabile

Urbanistica e edilizia – Area sottoposta a vincolo paesistico, inerzia della P.A. nel reprimere l’abuso e affidamento tutelabile

1. Con ricorso notificato il 31 dicembre 2021 e depositato l’11 gennaio 2022, il ricorrente impugna due ordinanze del Comune di Brescia, entrambe di data 12 ottobre 2021 e notificategli in data 2 novembre 2021, con le quali, rigettate le relative domande di condono avanzate ai sensi dell’art. 32 D.L. 269 del 2003 conv. con modifiche in L. n. 326 del 2003, è stata ordinata la demolizione, rispettivamente, “delle opere abusive consistenti nell’ampliamento del fabbricato, individuabili nel locale soggiorno di mq. 37,84, nel vano scale, centrale termica e wc, ripristinando la consistenza edilizia esistente” (ordinanza di rigetto della domanda p.g. 49999/04) e “delle opere abusive consistenti nel portico di m. 3,15 x m. 5,20 impostato ad una altezza di m. 2,50 in aderenza all’ex stalla, ripristinando la stato dei luoghi preesistente anche per quanto riguarda il corpo di fabbrica sottostante” (ordinanza di rigetto della domanda p.g. 50004/04).

2. Il ricorrente espone di essere imprenditore agricolo e di esercitare la relativa attività nei terreni di proprietà collocati in area sottoposta a vincolo paesistico ai sensi dell’art. 136 D. Lgs. 42 del 2004 e del D.M. 30 ottobre 1961, nonché classificata nel P.G.T. 2002/2004 in zona E3 V1 e nel P.G.T. vigente in “Ambito di salvaguardia ambientale”.

3. Con lavori terminati il 7 febbraio 2003, aveva costruito la propria abitazione rurale, strumentale allo svolgimento dell’attività agricola, intervenendo su un manufatto già esistente, originariamente adibito a ricovero animali, ma senza dotarsi preventivamente del necessario titolo abilitativo.

4. In data 3 dicembre 2004 aveva presentato una “domanda relativa alla definizione degli illeciti edilizi”. In precedenza, in data 9 marzo 2004, nel corso di sopralluogo dell’Ufficio Vigilanza del Comune di Brescia, era stata accertata la realizzazione delle opere prive di titolo abilitativo come da relativo verbale del 19 marzo 2004.

5. Con le domande presentate in data 3 dicembre 2004 era stata richiesta la regolarizzazione di un intervento di “manutenzione di copertura in aderenza in lato ovest edificio esistente – copertura portico su lato ovest sul giardino – formazione c.t. sotto il portico – demolizione muratura” nonché di un intervento di “ampliamento corpo est in profondità, ottenuto prolungando la falda esistente e tamponando la facciata sud con vetrate, mentre lateralmente sono stati prolungati i muri esistenti. Il locale ottenuto è destinato a zona soggiorno”.

Entrambe le domande avevano ad oggetto i mappali Fg. 141 nn. 23, 24, 25 e 26 e, contestualmente, erano state presentate due distinte richieste di autorizzazione paesaggistica.

6. In data 7 gennaio 2015 il Comune aveva rigettato le domande di condono trattandosi di opere abusive insistenti su area sottoposta a vincolo ambientale e tali da configurare un illecito permanente insanabile.

I mappali indicati nelle comunicazioni di avvio del procedimento erano in parte diversi da quelli indicati nella domanda di sanatoria.

Dopo 7 anni dall’avvio del procedimento, e 18 anni dopo la presentazione della domanda di regolarizzazione edilizia e 19 anni dopo la fine dei lavori, il Comune, con una tempistica irrispettosa del principio di leale collaborazione, ha emesso le citate ordinanze di data 12 ottobre 2021, ingiungendo la demolizione delle opere abusive, senza restituire le somme incamerate “per la regolarizzazione della domanda”.

7. Le censure proposte contro le suddette ordinanze, articolate in quattro motivi di ricorso, possono essere così sintetizzate:

a) il Comune ha applicato alla fattispecie l’art. 136 D. Lgs. 42 del 2004, in combinato disposto con l’art. 33 della L. 47 del 1985, senza considerare che la prima delle due disposizioni al tempo delle opere abusive non esisteva, e che la seconda non sarebbe comunque applicabile, poiché si riferirebbe ad ipotesi di vincoli comportanti inedificabilità assoluta, mentre il vincolo apposto con il D.M. 30 ottobre 1961 non stabilisce affatto un divieto assoluto di edificare.

Per parte sua, il PGT vigente all’epoca, all’art. 82, ammetteva espressamente l’ampliamento di edifici esistenti o nuova edificazione per attrezzature agricole, oltre a prevedere che “i cambi di destinazione sono ammessi unicamente per gli edifici non specificamente vincolati alla destinazione agricola ai sensi dell’art. 3 della l.r. n. 93/1980”, disponendo altresì che “in tutte le aree previste dagli strumenti urbanistici generali come zone agricole, la concessione edilizia può essere rilasciata esclusivamente all’imprenditore agricolo”.

La norma, inoltre, prevedeva indici di densità fondiaria che, considerata l’ampiezza dell’area agricola del ricorrente e l’ampliamento realizzato, ben avrebbero potuto garantire l’originaria conformità urbanistica delle opere abusive.

Vi sarebbe anche il rispetto del principio della doppia conformità di cui all’art. 36 del T.U. 380 del 2001, poiché il PGT vigente al momento della presentazione della domanda di condono era lo stesso di quello vigente all’epoca dei lavori;

b) se è indubitabile che l’abuso edilizio, in quanto illecito permanente, consente all’Amministrazione di esercitare in ogni tempo i propri poteri repressivi, diverso è il caso degli abusi edilizi per i quali sia stata chiesta la sanatoria.

In questa ipotesi, tra il cittadino e l’Amministrazione verrebbe ad instaurarsi una relazione giuridica rafforzata, nell’ambito della quale dovrebbero assumere rilievo i principi di non aggravamento e di leale collaborazione.

A fronte di un’istanza presentata molti anni prima si imponeva, quindi, in ossequio ai principi di cui agli artt. 1 e 2 L. 241 del 1990, almeno una motivazione adeguata, considerato il ragionevole affidamento ingenerato dal lungo lasso di tempo trascorso.

Nel caso di una prolungata inerzia dell’Amministrazione a fronte della commissione dell’abuso, sarebbe richiesto un interesse pubblico ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità, essendo necessario giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato anche in relazione all’affidamento ingenerato dal tempo trascorso.

Sarebbe poi necessario che l’ordine di demolizione fosse comunque preceduto da un provvedimento esplicito di autotutela, corredato delle garanzie, anche motivazionali, di cui all’art. 21 nonies L. 241 del 1990.

c) vi sarebbero anche travisamento e difetto di istruttoria, in quanto nelle comunicazioni di avvio del procedimento, poi sfociato nelle ordinanze impugnate, veniva specificato che gli abusi riguardavano i beni di cui al mappale 25 del Fg. 141 NTC del Comune di Brescia, nonostante nelle domande di condono i mappali interessati dagli abusi (23, 24, 25 e 26 del Fg. 141) fossero indicati con maggiore dettaglio.

Il fraintendimento sarebbe rimasto irrisolto per tutta la durata della procedura, in quanto nei provvedimenti impugnati le opere da demolire venivano identificate con i mappali n. 25 e n. 23.

d) sotto il profilo paesistico, il ricorrente evidenzia di aver allegato alle domande di condono le relative istanze di autorizzazione paesistica.

Il silenzio serbato per oltre 30 giorni dal Comune, quale soggetto competente al rilascio dell’autorizzazione paesistica in forza della subdelega disposta dalla L.R. n. 18 del 1997, costituirebbe un provvedimento di accoglimento tacito ai sensi dell’art. 17 bis L. 241 del 1990.

I provvedimenti impugnati, pertanto, avrebbero ordinato la demolizione di beni che, in quanto destinatari di autorizzazione ambientale, potevano essere sanati in ogni momento.

In via subordinata, il ricorrente chiede che sia valutata “la compatibilità comunitaria dell’art. 31 del T.U. n. 380 del 2001 con l’art. 8 della C.E.D.U.”.

Alla luce della norma C.E.D.U. sopra richiamata, l’ordine di demolizione dovrebbe armonizzarsi con la situazione di fatto rappresentata dall’aver il ricorrente “istituito presso il bene oggetto di causa la sede della propria vita famigliare” nelle more del silenzio serbato dal Comune sull’istanza di sanatoria.

L’unico modo per addivenire all’armonizzazione consisterebbe in un’adeguata motivazione in grado di spiegare la ragione per la quale l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi sarebbe divenuto improvvisamente attuale.

8. Il Comune di Brescia si costituiva con atto meramente formale. Con successiva memoria depositata in data 21 marzo 2025 veniva dato atto della cessazione dal servizio dell’avvocato Andrea Orlandi e della conseguente costituzione, quale nuovo difensore in aggiunta alle avvocate Francesca Moniga e Gisella Donati, dell’avvocato Francesco Valente, sempre con domicilio digitale come da pec da Registri di Giustizia.

9. In vista dell’udienza pubblica del 21 maggio 2025 il Comune depositava documenti e memoria ai sensi dell’art. 73 cpa.

Nella stessa veniva evidenziato come il tempo trascorso tra le domande di condono e i provvedimenti conclusivi dovesse ricondursi ai contrastanti indirizzi giurisprudenziali poi superati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 2006 e dalla sopravvenuta giurisprudenza del Consiglio di Stato.

Successivamente, il responsabile del SUE aveva comunicato il preavviso di rigetto, esponendo con chiarezza le motivazioni sottese al diniego. A propria volta, l’istante non aveva presentato memorie o documenti integrativi nei termini e il responsabile del SUE aveva adottato e notificato i provvedimenti impugnati.

Sempre nella memoria veniva contestata la fondatezza dei motivi di ricorso, chiedendone il rigetto.

Con specifico riferimento alla richiesta, in via subordinata, di valutare la compatibilità dell’art. 31 T.U. edilizia con l’art. 8 C.E.D.U. il Comune rileva la non appartenenza delle disposizioni della C.E.D.U. all’ordinamento europeo, non avendo l’Unione Europea, ad oggi, aderito alla stessa. Pertanto, la normativa in oggetto non sarebbe suscettibile di essere oggetto di rinvio pregiudiziale.

In ogni caso, la questione non sarebbe indispensabile per la soluzione della controversia, poiché i provvedimenti impugnati non comportano la demolizione dell’intera abitazione del ricorrente, e comunque, in via di esecuzione, quale fase autonoma e successiva rispetto all’ordine di demolizione, si potrà valutare la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria.

10. A propria volta il ricorrente, sempre in vista dell’udienza pubblica del 21 maggio 2025, depositava documenti e memoria ai sensi dell’art. 73 cpa.

Entrambe le parti depositavano memorie di replica.

11. All’udienza pubblica del 21 maggio 2025 la causa veniva discussa e trattenuta in decisione.

Oggetto del ricorso

12. Oggetto del presente ricorso sono due distinte ordinanze del Comune di Brescia con le quali sono state rigettate le domande di condono, presentate ai sensi dell’art. 32 D.L. n. 269 del 2003, conv. con modifiche in L. n. 326 del 2003, ed è stata conseguentemente ordinata la demolizione delle opere abusive.

Queste nelle domande di condono sono indicate come consistenti in un “ampliamento corpo est in profondità, ottenuto prolungando la falda esistente e tamponando la facciata sud con vetrate, mentre lateralmente sono stati prolungati i muri esistenti. Il locale ottenuto è destinato a zona soggiorno” (pratica p.g. 49999/2004) e “manutenzione straordinaria di: – copertura in aderenza in lato ovest all’edificio esistente – copertura portico in lato ovest aperto sul giardino formazione c.t. sotto il portico – demolizione muratura per ampliamento apertura nell’edificio esistente in lato ovest” (pratica p.g. 50004/2004).

Le opere abusive sono state accertate in seguito ad un sopralluogo, intervenuto in data 9 marzo 2004, nel corso del quale “si è constatato che: nel fabbricato principale è stato demolito un tratto di muratura perimetrale al piano terra di dimensioni pari a mt (3,00 x 2,50) circa ed è stata realizzata una copertura di mt 3,15 x 5,20 impostata ad altezza di mt 2,50 che coincide con la stessa quota del primo solaio del fabbricato esistente che si trova in aderenza alla nuova copertura realizzata. La nuova copertura determina un aumento di superficie coperta di mq 16,38 circa e la struttura della copertura è ancorata al fabbricato principale tramite una trave in ferro e dall’altra poggia sulla muratura di un manufatto esistente, che è stata sovralzata di circa mt 0,30 per rendere orizzontale la nuova copertura”.

Il merito

13. Il ricorso deve ritenersi infondato e conseguentemente deve essere respinto.

Il primo motivo di ricorso

14. Come in precedenza ricordato, parte ricorrente afferma che il Comune avrebbe errato nell’interpretazione del vincolo paesaggistico. Più precisamente, il Comune avrebbe ritenuto che dal D.M. 30 ottobre 1961 derivasse l’inedificabilità assoluta dell’area dove insistono le opere abusive, mentre si tratterebbe in realtà di un divieto relativo, che impone soltanto l’obbligo di presentare all’autorità competente “per la preventiva approvazione qualsiasi progetto di costruzione che si intenda erigere in quella zona”.

Questa tesi non può essere condivisa, perché l’elemento che ostacola la sanatoria di cui al D.L. n. 269 del 2003 è la stessa presenza del vincolo paesistico, indipendentemente dalla natura assoluta o relativa del divieto di edificazione.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato, formatasi in casi del tutto analoghi a quello del presente giudizio, esclude in modo netto la sanabilità delle “opere abusive di cui ai numeri 1, 2 e 3 dell’allegato 1 (cd. abusi maggiori), realizzate su immobili soggetti a vincoli, a prescindere dal fatto che (ed anche se) si tratti di interventi conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e al fatto che il vincolo non comporti l’inedificabilità assoluta dell’area” (cfr. in termini ex multis, C. Stato, Sez. VII, 28 aprile 2025 n. 3593; o ancora più chiaramente C. Stato, Sez. VII, 6 maggio 2025 n. 3861 secondo la quale “La giurisprudenza (cfr. Cons. St. n. 1664 del 02 maggio 2016; Cons. St. n. 735 del 23 febbraio 2016, Cons. St. n. 2518 del 18 maggio 2015) ha costantemente affermato che, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d) del D.L. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito nella L. n. 326 del 24 novembre 2003, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli sono sanabili solo se, oltre al ricorrere delle ulteriori condizioni, siano opere minori senza aumento di superficie e volume. Pertanto, un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo, indipendentemente dal fatto che il vincolo non sia di carattere assoluto, non può essere sanato. La Suprema Corte ha confermato tale impostazione, chiarendo come non siano in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive non “minori” del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (Corte Cass. n.40676 del 2016)”).

In altri termini, nel caso dei c.d. abusi maggiori, tali da aver comportato un aumento di superficie e di volume, non ha alcun rilievo, ai fini della relativa sanabilità, né il carattere relativo del vincolo, né l’eventuale conformitàalle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.

15. Nel caso di specie vi è stato, certamente, un aumento di volume, come ammesso dallo stesso ricorrente (cfr. pag. 6 del ricorso), il quale ricorda di aver realizzato un aumento di copertura di 16,30 mq e un aumento di area residenziale di mq 45,23.

16. Passando poi al profilo urbanistico, con specifico riferimento alla tesi secondo la quale le opere sarebbero conformi agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione sia al momento della domanda di condono, va ricordato come l’art. 89 delle NTA al PRG 2002-2004, espressamente disciplinante la zona E3 V1, preveda che siano “consentite nuove edificazioni esclusivamente alle seguenti condizioni: ampliamento di edifici esistenti o nuova edificazione solo per attrezzature agricole, con un indice di edificabilità di 0,001 mq/mq”.

Nel caso delle opere contestate, pertanto, non può parlarsi di conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento della realizzazione degli interventi e al momento della presentazione della domanda.

A questo proposito, è il ricorrente stesso ad affermare di aver posto in essere “un aumento di area residenziale”, ricordando altresì di aver “allargato” la condivisione dell’abitazione ai propri figli.

L’art. 89 appena ricordato dispone invece, almeno secondo un’interpretazione letterale, che l’ampliamento degli edifici esistenti o le nuove edificazioni avvengano “solo per attrezzature agricole”.

Con riferimento poi all’altro intervento (pratica p.g. 50004/2004), non vi è prova che il portico sia effettivamente adibito al parcheggio di macchine agricole, dato emerso per la prima volta in sede di ricorso.

17. A questo punto, occorre chiarire il riferimento alla L.R. n. 93 del 1980 contenuto nelle NTA (v. ora gli art. 59-62 della LR 11 marzo 2005 n. 12). La disciplina regionale ammette la realizzazione di opere in zona agricola, purché in funzione della conduzione del fondo o destinate alle residenze dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’azienda, secondo un indice di edificabilità nel quale rientrerebbe pacificamente l’ampliamento realizzato.

Tuttavia, pur non essendo condivisibile la tesi del Comune di Brescia secondo cui il richiamo alla L.R. n. 93 del 1980 riguarderebbe esclusivamente le modalità di rilascio della concessione edilizia, deve rilevarsi come l’art. 5 della legge in questione, per gli interventi di manutenzione straordinaria, restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione e, appunto, ampliamento rimandi alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali.

Pertanto, la conformità urbanistica degli interventi sopra menzionati deve essere valutata anche alla luce degli strumenti urbanistici comunali, e nel caso in esame alla luce dell’art. 89 NTA. Quanto più un intervento edificatorio si stacca dalle esigenze produttive aziendali per configurarsi come normale edificazione residenziale per l’imprenditore agricolo e i suoi familiari, tanto minore è il collegamento con la disciplina regionale di favore, e dunque diventa prevalente la necessità di garantire l’omogeneità con la regolamentazione generale dei diritti edificatori.

18. Infine, per completezza, deve rilevarsi come non via sia neppure la prova che le opere siano state realizzate entro il 7 febbraio 2003.

A questo proposito, è sufficiente ricordare che, secondo la consolidata giurisprudenza sul punto, “l’onere della prova in ordine all’ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere la sanatoria grava sul richiedente in quanto, mentre l’amministrazione non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, l’interessato può fornire atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza in ordine all’epoca di realizzazione dell’abuso. Tale orientamento è basato sul principio di vicinanza della prova, che colloca nella sfera del privato la possibilità di dimostrare l’epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza. In particolare, l’applicazione alla materia degli abusi edilizi del generale principio processuale per cui la ripartizione dell’onere della prova va effettuata secondo il principio della sua vicinanza si spiega considerando che solo l’interessato può fornire elementi che siano in grado di radicare la ragionevole certezza della loro sanabilità in ragione della preesistenza rispetto all’epoca dell’introduzione di un determinato regime normativo dello ius aedificandi (Cons. Stato, sez. VI, n. 3304/2020). Al riguardo non può ritenersi sufficiente la sola allegazione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, la quale deve essere supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente indiziari, purché altamente probanti quali, ad esempio, le fatture, le ricevute relative all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali, i rilievi aereo fotogrammetrici (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3414/2014; T.A.R. Pescara, n. 124/2015; T.A.R. Genova, n. 903/2015; T.A.R. Bologna, n. 308/2015)” (cfr. ex multis T.A.R. Campania, Sez. VII, 7 gennaio 2025, n. 102)” (cfr. in termini TAR Lazio, Sez. II Quater, 15 maggio 2025 n. 9309).

Il secondo motivo di ricorso

19. Anche il secondo motivo di ricorso deve essere respinto.

Come chiarito a suo tempo dalla stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (AP n. 9 del 2017) che ha superato il diverso orientamento richiamato dal ricorrente, in nessun caso, a fronte di un abuso edilizio, può configurarsi un qualsivoglia affidamento ingenerato dall’inerzia dell’Amministrazione nel reprimere l’abuso stesso.

Neppure la pendenza del procedimento di sanatoria, instaurato a istanza del privato, può ingenerare un affidamento tutelabile, ossia diverso dalle mere aspettative di fatto, non trattandosi di una situazione assimilabile a “una posizione favorevole all’intervento riconosciuta da un atto in tesi illegittimo poi successivamente oggetto di un provvedimento di autotutela” (cfr. in termini AP, 17 ottobre 2017 n.9).

In altri termini, l’ipotesi in cui l’intervento edilizio sia stato assentito da un titolo poi annullato deve essere tenuta ben distinta dalla fattispecie in cui lo stesso sia ab origine abusivo, a nulla rilevando che sia intervenuta un’istanza di condono, oltretutto successiva al sopralluogo dell’Amministrazione e alla contestazione dell’abuso.

La giurisprudenza richiamata dalla parte ricorrente (C. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2018 n. 6422), secondo la quale l’ordine di demolizione avrebbe dovuto essere preceduto da un provvedimento in autotutela, si riferisce appunto una fattispecie in cui le opere di cui veniva ordinata la demolizione erano state assentite con titoli in relazione ai quali il giudice di primo grado aveva ritenuto potersi configurare un annullamento implicito in autotutela. Tesi smentita dal giudice di appello, che ha ritenuto doversi adottare un provvedimento esplicito nel rispetto dell’art. 21 nonies L. 241 del 1990.

20. Il tempo trascorso è stato giustificato in giudizio dal Comune di Brescia con la necessità di attendere “il consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali”.

Questa tesi non appare convincente, perché potrebbe consentire la dilatazione senza limiti ragionevoli di un numero indeterminato, e potenzialmente amplissimo, di procedimenti amministrativi, ma è bene ribadire come non possa comunque accogliersi, per le ragioni sopra illustrate, neppure la contrapposta tesi di un affidamento tutelabile circa l’esito favorevole della sanatoria.

21. Anche in punto di motivazione esigibile, per quanto concerne il provvedimento di rigetto, è sufficiente richiamare, ancora una volta, le statuizioni dell’Adunanza Plenaria sul punto (AP, 17 ottobre 2017 n.9).

Secondo quest’ultima “E’ stato, ancora, affermato che non occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo neppure quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione. Ed infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, IV, 28 febbraio 2017, n. 908; id., VI, 13 dicembre 2016, n. 5256).

Si è altresì osservato – e in modo parimenti condivisibile – che l’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile. Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, 28 febbraio 2017, n. 908; id., IV, 12 ottobre 2016, n. 4205; id., IV, 31 agosto 2016, n. 3750)”.

Il terzo motivo di ricorso

22. Il terzo motivo di ricorso, al pari dei motivi in precedenza scrutinati, non è meritevole di favorevole considerazione.

Il ricorrente lamenta un difetto di istruttoria che sarebbe palesato dalla errata indicazione dei mappali interessati dagli abusi.

Nei preavvisi di rigetto veniva fatto riferimento esclusivamente al mappale 25 del Fg. 141, mentre gli ordini di demolizione riguardano i mappali n. 25 e n. 23.

In tal modo, secondo il ricorrente, vi potrebbe essere il rischio di demolire beni del tutto estranei agli abusi edilizi.

23. A questo proposito, è sufficiente rilevare come, al di là dell’imprecisa indicazione dei mappali interessati, le opere oggetto degli ordini di demolizione siano ben individuate e descritte negli stessi, senza alcun rischio di equivoci.

L’identificazione degli immobili attraverso i mappali si configura quindi come del tutto secondaria, e non può avere alcuna rilevanza sotto il profilo della legittimità, essendo inidonea a creare dubbi interpretativi o difficoltà di esecuzione.

Del resto, la stessa giurisprudenza ha plurime volte chiarito che “la mancata o inesatta indicazione degli estremi catastali dell’immobile nell’ordinanza di demolizione non costituisce vizio di legittimità in quanto è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, atteso che ogni altra indicazione esula dal contenuto tipico del provvedimento, mentre è l’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire che necessita di individuare specificatamente la costruzione abusiva con l’indicazione dei dati catastali e di quelli presenti nella conservatoria dei registri immobiliari, anche con riferimento agli effetti sull’acquisizione delle aree (Cons. Stato, Sez. II, 21 ottobre 2019, n. 7103)” (cfr. in termini ex multis TAR Lazio, Sez. IV 20 maggio 2024 n. 10125).

Il quarto motivo di ricorso

24. Non può essere accolto neppure il quarto motivo di ricorso.

Secondo il ricorrente il silenzio serbato dal Comune sulle due richieste di autorizzazione paesistica configurerebbe un provvedimento di accoglimento. Conseguentemente, le opere sarebbero state autorizzate “dal punto di vista ambientale e paesaggistico” e sanabili in ogni momento.

25. La tesi sopra richiamata non può essere favorevolmente considerata.

L’art. 17 bis L. 241 del 1990 è applicabile alle decisioni c.d. pluristrutturate, ovvero nelle ipotesi in cui si configuri una co-decisione che veda coinvolte più Amministrazioni, quando sia prevista “l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni pubbliche e di gestori di beni o servizi pubblici, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di altre amministrazioni pubbliche”.

Non può, pertanto, venire in considerazione nel caso in cui il rapporto amministrativo instaurato sia di natura verticale, ovvero tra privato e Amministrazione, neppure quando vengano in considerazione più uffici della medesima Amministrazione per distinte autorizzazioni (cfr. TAR Lazio, Sez. II Ter, 30 aprile 2025 n. 8440).

26. Nel caso di specie, è chiara la natura verticale del rapporto, instaurato con il solo Comune, da un lato per le valutazioni urbanistiche e dall’altro per le valutazioni paesistiche in virtù della subdelega disposta dalla L.R. n. 18/1997.

27. In ogni caso, il meccanismo del silenzio-assenso è incompatibile con la disciplina del condono edilizio. Come evidenziato dalla giurisprudenza, “la specialità del procedimento di condono (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, II, 14 gennaio 2020, n. 359; Consiglio di Stato, VI, 5 agosto 2019, nr. 5537; Consiglio di Stato, IV, 25 maggio 2011, n. 3134 e 31 marzo 2009, n. 1998; Consiglio di Stato, VI, 30 giugno 2022, n. 7979; Consiglio di Stato, VI, 21 febbraio 2023, n. 1787; VI, 8 febbraio 2023, n. 1412; 16 settembre 2022. n. 8043) e la relativa disciplina che contempla il cosiddetto silenzio-inadempimento, ai sensi dell’art. 32, comma 27, del decreto-legge n. 269/2003, convertito in legge n. 326/2003, il quale, nell’indicare le opere non suscettibili di sanatoria, richiama quanto previsto dagli artt. 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (e il citato art. 32 della legge n. 47/1985 afferma che, salve le fattispecie previste dall’art. 33 – opere non suscettibili di sanatoria, per le quali è ovviamente esclusa ogni ipotesi di silenzio-assenso – qualora l’Amministrazione non esprima il parere nel termine di centottanta giorni, si forma il silenzio-rifiuto).” (cfr. in termini TAR Catania, Sez. II, 23 gennaio 2025 n. 256).

28. Infine, non deve trascurarsi come l’art. 17 bis L. 241 del 1990 preveda che il termine per la formazione del silenzio assenso decorra dal momento in cui l’Amministrazione coinvolta nella co-decisione riceva lo schema di provvedimento e la relativa documentazione dall’Amministrazione procedente.

Nel caso di specie, non potrebbe neppure configurarsi questo ulteriore presupposto, non risultando in atti e non essendo neppure dichiarato da parte ricorrente.

La compatibilità dell’art. 31 DPR 380 del 2001 con l’art. 8 C.E.D.U.

29. La richiesta di valutare se vi sia violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare è stata formulata dalla parte ricorrente in via espressamente subordinata.

Pertanto, può essere trattata nella parte conclusiva della sentenza e non in via preliminare.

In ogni caso, la stessa non può essere accolta.

30. Sul piano formale, deve evidenziarsi come la disposizione richiamata non possa dirsi parte integrante del diritto eurounitario, come correttamente ricordato dallo stesso Comune di Brescia, non essendo al momento ancora giunto a compimento il complesso procedimento di adesione alla CEDU da parte dell’Unione Europea.

Sarebbe, pertanto, più corretto configurare la disposizione richiamata quale norma interposta, in virtù dell’art. 117 comma 1 Cost., al fine di valutare la possibile illegittimità costituzionale dell’art. 31 DPR 380 del 2001 in relazione alla stessa.

31. Sotto un profilo più squisitamente sostanziale, non deve trascurarsi come la disposizione invocata sia diretta essenzialmente a garantire il diritto al rispetto della vita privata e famigliare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza, come recita il testo della norma, preservando questi beni da indebite ingerenze da parte dei pubblici poteri.

Si tratta di una disposizione non perfettamente sovrapponibile alla presente fattispecie, poiché tutela aspetti non direttamente coinvolti dall’art. 31 DPR 380 del 2001.

In ogni caso, è comunque ben difficile identificare un’indebita ingerenza, nel senso prospettato dalla norma CEDU, in parte speculare agli artt. 13, 14 e 14 Cost., nella sfera del privato quando l’esercizio di pubblici poteri sia giustificato dalla superiore finalità di garantire una corretta gestione del territorio, evitando che possano realizzarsi e stabilizzarsi delle opere abusive.

Del resto, l’art. 8 non tutela in assoluto e senza limiti il diritto al rispetto della vita privata e familiare, ma consente quegli interventi che siano giustificati da interessi generali e superiori come quelli di cui è espressione l’art. 31 DPR 380 del 2001.

Lo stesso art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, specificamente dettato alla tutela della proprietà, prevede, al comma 2, che “Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

Infine, non si deve trascurare quanto evidenziato dal Comune di Brescia in ordine sia al fatto che i provvedimenti non comportano la demolizione dell’intera abitazione del ricorrente, ma solo di alcune limitate porzioni, sia al fatto che, in fase esecutiva, potrà essere valutata la possibilità di sostituire la sanzione della demolizione con una sanzione pecuniaria.

Conclusioni

32. Conclusivamente, il ricorso è infondato e deve essere respinto.

33. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

TAR LOMBARDIA – BRESCIA, II – sentenza 25.08.2025 n. 773

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