L’ appello interposto dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Foggia è fondato e deve trovare accoglimento per le ragioni che si andranno di seguito ad esporre.
In via preliminare, appare opportuno riportare la vicenda fattuale che si colloca alla base del presente gravame cautelare. Si passeranno, di seguito, in rassegna le motivazioni poste a fondamento del provvedimento reiettivo da parte del G.I.P. del Tribunale di Foggia ed i motivi di doglianza dell’organo inquirente per poi procedere alle statuizioni involgenti il merito.
È dato evincere dagli atti, e, in particolare, dalla prima informativa redatta dagli operatori del Commissariato di P.S. di Manfredonia nell’immediatezza dei fatti, che, nella serata del 6.12.2023, V.M.T.F. tentava il suicidio all’interno della cucina del proprio appartamento, sito al secondo piano del condominio di largo (omissis) in Manfredonia, composto da sei piani e 12 appartamenti, di cui 10 abitati, lasciando fluire il gas metano attraverso tre fornelli privi di termocoppia del piano cottura della propria cucina, della quale aveva precedentemente chiuso la porta e l’unica finestra.
Dalla relazione di intervento dei Vigili del Fuoco si apprendeva che:
– all’interno della cucina era accesa la luce elettrica;
– la V.M.T.F. non rispondeva nonostante i soccorritori avessero bussato numerose volte alla porta d’ingresso dell’abitazione e, dopo l’irruzione degli operanti, veniva rinvenuta seduta su una sedia in evidente stato confusionale;
– all’interno dell’intera abitazione vi era “un forte odore di gas, rilevato dal nostro strumento in dotazione, che ci segnalava una notevole presenza di gas, andando in allarme”;
– la porta del vano cucina era chiusa, così come la porta di accesso al balcone.
Tali circostanze consentivano agli inquirenti dì ritenere che, in assenza di un intervento esterno, la fuoriuscita di gas metano non sarebbe stata arrestabile, in particolare da parte della donna, la quale – oltre a non aver dato alcun segno di volerlo fare difficilmente avrebbe potuto provvedervi, essendo già stata stordita dal gas inalato. Il gas, quindi, avrebbe proseguito a fuoriuscire, saturando completamente la cucina, che aveva porta e finestra chiuse, e – dopo aver soppiantato l’ossigeno presente in tale ambiente confinato – avrebbe provocato la morte per asfissia della V.M.T.F.
Lo stesso gas, inoltre, saturando l’ambiente della cucina (e potenzialmente l’intero appartamento, tramite i piccoli spiragli della porta stessa) generava poi un concreto pericolo per l’incolumità dei vari abitanti del condominio e potenzialmente dei vicini e dei passanti, derivante dal rischio di esplosione (spesso verificatasi in casi di fughe accidentali) dell’appartamento: tale esplosione ben poteva essere determinata dall’avviamento del compressore del frigorifero ovvero da oscillazioni della corrente elettrica, posto che l’interruttore della luce della cucina era già in posizione di accensione.
D’altronde, che il metano fosse già fuoriuscito in quantitativi allarmanti si evinceva – oltre che dalla perdita di sensi dell’indagata anche dalla circostanza per cui il suo odore era stato avvertito dai condomini sin dalla base delle scale condominiali. Sulla base di detti presupposti, infatti, erano stati allertati i Vigili del Fuoco e gli organi della Polizia di Stato.
Nella prosecuzione delle indagini emergeva come la V.M.T.F. non fosse nuova a gesti autolesionistici, mentre dalla documentazione sanitaria acquisita dal P.M. e proveniente dalle strutture ospedaliere in cui la giovane era stata ricoverata subito dopo i fatti in esame, si leggeva che la medesima è affetta da “disturbo di personalità borderline; abuso di alcol, abuso di cocaina”. Nella rilevazione del 9.12.2023, i sanitari davano atto, inoltre, che la paziente aveva riferito di episodi di autolesionismo (culling) già all’età di 17 anni e che l’esordio psicopatologico risalirebbe al 2016 in una situazione di contrasto familiare e di uso di stupefacenti (cocaina, alcol, cannabinoidi e saltuariamente metadone), per ripetersi, nel corso degli ultimi anni, gli agiti anticonservativi (tentativi di strozzamento, ingestione di caustici e sedativi). L’indagata, una volta dimessa dalla struttura sanitaria, non seguiva la terapia propostale da uno specialista e non si recava presso il SerD di competenza, né disponeva di un’adeguata rete familiare o amicale di sostegno.
Il consulente tecnico del P.M., la psichiatra dott.ssa A.Z., poi, con elaborato del 31.3.2025, accertava: il vizio parziale di mente dell’indagata al momento del fatto; la sua capacità di partecipare scientemente al processo; la sua pericolosità sociale “attenuata”, arginabile con la libertà vigilata ed affidamento ai servizi sanitari competenti.
Sulla scorta degli elementi che precedono, il P.M. presso il Tribunale di Foggia, ritenuta la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto ex art. 422, co. I e II, c.p., e la pericolosità sociale della prevenuta, richiedeva al G.I.P. l’applicazione, nei confronti di V.M.T.F., della misura di sicurezza provvisoria della libertà vigilata con obbligo di cura presso il SerD e il CSM territorialmente competenti, secondo i tempi e le modalità stabilite dagli stessi servizi.
Con ordinanza del 22.4.2025, che seguiva precedente provvedimento reiettivo emesso quando la documentazione del P.M. era stata ritenuta ancora incompleta, il G.I.P. del Tribunale dì Foggia rigettava la richiesta dell’organo inquirente, ritenendo, a fronte della pericolosità sociale della predetta accertata dal consulente tecnico del P.M., non sussistente il fatto previsto dalla legge come reato, giacché la prevenuta, al momento del fatto, era risultata animata esclusivamente da intendimenti suicidiari e, dunque, autolesionistici, laddove non si era verificata la morte di almeno una persona.
Avverso detta ordinanza, che censurava per travisamento dei fatti ed erronea applicazione di legge, interponeva appello ex art. 310 c.p.p. il P.M. dauno, sostenendo la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in relazione al delitto ex art. 422, co. I e II, c.p., alla luce della sicura esistenza della volontà omicidiaria – nella specie della volontà suicidiaria, come ammesso dalla stessa V.M.T.F. dinanzi agli operatori di P.G. intervenuti – e della sicura esposizione a pericolo di una serie indeterminata di persone – vale a dire i condomini, i vicini ed eventuali passanti -, laddove l’art. 422, co. Il, c.p., contestato nei confronti della prevenuta, prevede solo come circostanza aggravante la morte di una sola persona. Instava, pertanto, per l’applicazione della misura di sicurezza predetta.
L’esposizione che precede induce il Collegio ad una rapida ricognizione degli elementi costitutivi del delitto di strage, ex art. 422 c.p. e dei relativi arresti giurisprudenziali.
Il delitto di strage, di cui all’art. 422 c.p., sanziona la condotta di chiunque, fuori dei casi previsti dall’art. 285 c.p. (cd. “strage politica”), al fine di uccidere, compie atti tali da esporre a pericolo la pubblica incolumità, prevedendo la pena dell’ergastolo se dal fatto derivi la morte di una o più persone; il successivo co. II della stessa nonna prevede una pena meno severa in “ogni altro caso”, ossia quando non si verifichi la morte di una sola persona.
Trattasi, quindi, di condotta a forma libera.
Oggetto giuridico della fattispecie incriminatrice è la tutela della pubblica incolumità, con riferimento alla vita e alla salute di un numero indeterminato di persone, notoriamente identificabile nel complesso delle condizioni garantite dall’ordinamento giuridico per cui è assicurata la comune sicurezza delle persone, ossia la vita e l’integrità di un numero indeterminato di esseri umani o nella sicurezza della vita della comunità, ritenendosi l’incolumità pubblica non già un bene qualitativamente diverso dalla vita e dall’integrità dei singoli individui, giacché trattasi di un’astrazione concettuale direttamente comprensiva dei beni in questione riferiti a soggetti concreti.
II pericolo, pertanto, è l’elemento che caratterizza le fattispecie poste a tutela della pubblica incolumità: esso segna la soglia dell’offesa penalmente rilevante e, in talune fattispecie, costituisce un elemento tipico del fatto. Nondimeno, il pericolo deve essere comune: deve cioè riferirsi non ad un singolo individuo, ma ad una cerchia di persone. Nell’ipotesi di cui all’art. 422 c.p., il pericolo compare come elemento costitutivo del fatto di strage: si è, cioè, in presenza di una fattispecie di pericolo concreto (o effettivo) e compete giudice accertare se, quale conseguenza di atti idonei a causare l’uccisione, anche di una sola persona, sia effettivamente sorto il pericolo della morte o delle lesioni di un numero indeterminato di persone, mentre non sussiste il delitto di strage se gli atti sono limitati ad offendere la vita di una singola persona (in termini Cass., sez. I, n. 33459/2001, in CED, Rv. 219845).
Sotto il profilo soggettivo, è necessario che l’agente sia consapevole di porre in essere atti idonei a porre in pericolo la pubblica incolumità; è necessaria, inoltre, la volontà di provocare la morte delle persone colpite dagli effetti della condotta (cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, n. 43681/2015; nonché Cass., sez. VI, n. 25770/2023, alla cui stregua si configura il delitto di strage allorché siano compiuti atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità e non limitati ad offendere la vita di persone determinate: in applicazione del principio, la Suprema Corte ha annullato con rinvio la decisione di merito che aveva qualificato come strage la condotta dell’imputato, il quale aveva intenzionalmente lanciato la propria automobile in corsa in direzione di una tavolata cui partecipavano i propri vicini, allestita all’interno di un vicolo cieco e senza uscita, provocando la morte di uno di essi e il ferimento di altri tre). Ne consegue che il pericolo per la pubblica incolumità rappresenta l’evento del delitto di strage e, in quanto tale, deve essere previsto e voluto dall’agente, come conseguenza degli atti – commissivi od omissivi – posti in essere, quindi è elemento essenziale del reato e non condizione oggettiva di punibilità (in termini Cass., sez. I, n. I 13 94/’ 91, in CED, Rv. 188639- 01).
La norma prevede, inoltre, il dolo specifico, consistente nel “fine di uccidere”.
In considerazione della genericità della formula normativa, è da ritenersi irrilevante il numero di coloro verso cui è diretta l’azione delittuosa, essendo sufficiente che l’agente abbia di mira la morte anche di una persona soltanto, a condizione che sia attuata con mezzi tali da provocare il pericolo per la pubblica incolumità (in termini Cass., sez. I, n. 4683/’83, in CED, Rv. 159147). L’ipotesi base, considerata dal secondo comma, ultima parte, dell’art. 422 c.p., si consuma, secondo l’ imposta zione tradizionale, con il sorgere del pericolo per l’incolumità pubblica, quale conseguenza della condotta realizzata dall’agente (cfr. Cass., sez. I, n. l1394/’91 cit.). Si è, quindi, sostenuto che la morte di una o più persone è una circostanza aggravante del delitto di strage ed influisce esclusivamente sul quantum di pena (cfr., ex plurimis , Cass., sez. I, n. 43681/2015).
Sulla base del dolo specifico richiesto dalla nonna, in giurisprudenza si sostiene che il fine di uccidere risulta incompatibile con il dolo eventuale (cfr., ex multiis, Cass., sez. I, n. 5914/’90, in CED. Rv. 184126 Cass., sez. I. n. 11074/’ 88, in CED, Rv. 179714; Cass., sez. I, n. 7489/’84, in CED, Rv. 165722). Tale affermazione, peraltro corretta, necessita, tuttavia, di una precisazione: si è, in fatti, affermato , nella più autorevole dottrina, che può ravvisarsi il dolo eventuale in relazione alla creazione della situazione pericolosa per la pubblica incolumità. In altri termini , sussiste il dolo di strage anche nel caso in cui l’agente, pur avendo di mira la morte di una o più persone determinate, accetti il rischio che, quale conseguenza della propria condotta, insorga un pericolo per l’incolumità di un numero indeterminato di persone (si pensi , ad esempio, al caso di un attentato dinamitardo, in cui l’agente, pur volendo la morte della vittima designata, accetta il rischio che, per la potenzialità lesiva dei mezzi impiegati, possa verificarsi una situazione pericolosa per la collettività).
La configurabilità del tentativo nel reato di strage è generalmente esclusa, sul presupposto che la fattispecie vada annoverata nella categoria dei delitti di attentato (cfr. Cass., sez. I, n. 11394/’91 cit., in cui si precisa che l’art. 422 c.p. prevede un delitto a consumazione anticipata; cfr. altresì, Cass., sez. I, n. 7835/20 I 8 che parla di reato istantaneo per la cui consumazione è sufficiente che l’agente abbia esposto a concreto pericolo l’incolumità di più persone, a prescindere dalla verificazione di uno o più eventi letali: in applicazione del principio, la Corte ha escluso che potesse qualificarsi come desistenza volontaria la condotta del ricorrente che, due ore dopo aver volontariamente determinato una fuoriuscita di gas nel proprio appartamento e averne chiuso le finestre, aveva allertato un amico). Conseguentemente o l’insorgere del pericolo si è verificato – e allora il delitto è consumato – oppure, in caso contrario, il fatto può, al più, integrare gli estremi di un altro titolo di reato, consumato o tentato.
Tanto premesso occorre valutare la declinabilità nel caso concreto dei principi appena esposti.
Con riferimento alla vicenda che vede indagata V.M.T.F. deve evidenziarsi come venga in rilievo, in primo luogo, la volontà omicidiaria animante la condotta della prevenuta. La finalità di uccidere di cui al dato testuale della norma incriminatrice non consente, infatti, di interpretare la norma come finalità di uccidere esclusivamente un soggetto diverso dall’agente: pertanto la volontà suicidiaria, intesa come volontà di atto lesivo della vita umana, deve essere interpretata come una species della volontà omicidiaria. L’esistenza di detta determinazione autolesionistica in capo all’agente appare, peraltro, pacificamente evincibile, oltre che dalle rilevazioni oggettive, dall’annotazione di servizio di P.G. del 6.12.2023 dove testualmente si legge che “in merito all’accaduto, la donna dichiarava di essere stanca dello stile di vita da lei condotto, e si lamentava della propria situazione familiare ormai alla deriva. Di fatti la V.M.T.F., sconfortata, asseriva di non avere nessun legame con alcun familiare o amico dichiarando altresì di vivere sola oramai da tempo. Questa condizione di smarrimento, e profondo turbamento avrebbe portato la donna e compiere in data odierno il gesto estremo”. Né, come visto, la norma incriminatrice richiede necessariamente la causazione della morte anche di una sola persona, venendo in luce, in tal caso, solo una circostanza aggravante. Non a caso, infatti, il P.M. contesta in rubrica anche l’ipotesi di cui all’art. 422, co. II, c.p.
A tanto si aggiunga che la condotta in esame – posta in essere mediante saturazione della cucina ad opera del gas metano la cui fuoriuscita era stata attivata dall’indagata, con frigorifero e luce accesi, porte e finestre chiuse ed incapacità dell’agente di porvi rimedio, in quanto già priva di sensi – ha sicuramente generato l’esposizione a pericolo della pubblica incolumità e, cioè, di una serie indeterminata di persone, quali sicuramente sono non soltanto i numerosi condomini della V.M.T.F., ma anche i vicini di casa ed eventuali passanti che sarebbero stati spazzati via in caso di sicura esplosione generata da una banale oscillazione della corrente elettrica o dall’avviamento del compressore del frigorifero, giacché luce e frigorifero erano regolarmente accesi in cucina. Trattasi di esplosione che appare connotata senza ombra di dubbio, alla luce delle circostanze rappresentate, da straordinaria potenzialità offensiva.
La concretezza del pericolo per la pubblica incolumità viene data, dunque, dall’utilizzo, da parte dell’agente, di mezzi idonei e univocamente diretti verso la generazione della deflagrazione che non avrebbe certo coinvolto solo l’abitazione della prevenuta.
In terzo luogo, appare evidente come, nelle descritte condizioni, l’agente era sicuramente nelle condizioni, al momento dell’azione, di prefigurarsi a causa delle modalità adottate per condurre in porto la condotta e dello stato dei luoghi – le conseguenze micidiali della propria azione che non si sarebbero certo arrestate ad un attentato alla sua incolumità fisica ma avrebbero travolto con certezza l’incolumità di una cerchia indeterminata di persone. Né la volontà dell’agente può dirsi realisticamente limitata ad aggredire intenzionalmente la sola struttura muraria della propria abitazione o del proprio palazzo. Il che non consente di ritenere configurabili altre ipotesi di reato come quella ex art. 434 c.p. (“crollo di costruzioni o altri disastri dolosi”), che si alimenta sulla natura intenzionale del dolo rispetto all’evento di disastro (cfr., ex multiis, Cass., sez. IV, n. 36626 /2011; Cass., Cass., sez. I, n. 1332/2011). D’altronde, la giurisprudenza di legittimità non dubita sulla possibile configurabilità del concorso formale tra il delitto di devastazione di cui all’art. 419 c.p. e quello di strage di cui all’art. 422 c.p., non sussistendo tra i due alcun rapporto di specialità, giacché diversi sono i beni giuridici protetti dalle rispettive norme incriminatrici, le condotte di aggressione agli stessi e l’elemento soggettivo, in quanto, con riferimento alla devastazione, il bene giuridico si identifica con l’ordine pubblico, la condotta consiste in atti di violenza contro beni patrimoniali e l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, mentre, con riferimento alla strage, il bene giuridico si identifica con l’incolumità pubblica, la condotta consiste in atti di violenza contro la persona e l’elemento soggettivo è integrato dal dolo specifico di uccidere (in termini Cass., sez. I, n. 9520/2020, in CED, Rv. 278502-02; cfr., altresì, Cass., sez. IV, n. 4675/2007, in CED, Rv. 235666-01).
Ne consegue che la condotta della prevenuta, quale sin qui descritta, vale ad integrare i gravi indizi di colpevolezza in ordine alla commissione del delitto ex art. 422 c.p.
Ricorrono, conclusivamente, a carico di V.M.T.F. elementi di fatto che, allo stato degli atti, fanno ritenere quasi con certezza che il reato di cui in imputazione sia stato effettivamente commesso e che di esso si sia resa responsabile la persona indagata, tali da fondare, in capo al Collegio giudicante, una prognosi di alta, elevata o qualificata probabilità di condanna del reo agli esiti del giudizio di merito. Nel che si risolve la nozione giurisprudenziale della gravità degli indizi di colpevolezza la cui sussistenza, a norma dell’art. 273 c.p.p., appare indispensabile per l’emanazione di misure restrittive (cfr., ex plurimis, Cass., sez. VI, n. 26115/2020; Cass., sez. V, n. 53203/2017; Cass., sez. I, n. 32038/20 I 3; Cass., sez. II, n. 18103/2003; Cass., sez. VI, n. 1460/’95).
Non possono, pertanto, condividersi le conclusioni cui è pervenuto, sul punto, il primo giudice.
Sussiste, quindi, il primo presupposto legittimante, a norma dell’art. 202 c.p., la applicazione di misure di sicurezza: la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato – vale a dire quello ex art. 422 c.p. , sia pure ritenuto a livello gravemente indiziario.
In secondo luogo, viene in luce il vizio parziale di mente dell’agente al momento del fatto quale riconosciuto dal consulente tecnico del P.M . all’interno di un elaborato che si apprezza per coerenza, linearità e solidità delle argomentazioni scientifiche, dalle cui conclusioni non vi è ragione per discostarsi.
Infine, viene in rilievo la pericolosità sociale – quantunque di grado “attenuato” di V.M.T.F., quale affermata dal consulente tecnico del P.M., nel predetto elaborato del 31. 3.2025.
Lo stesso elaborato, inoltre, dava atto dell’esistenza di condotte autolesionistiche già da età adolescenziale in capo alla donna, riportando come, in data 6.12.2023, dopo i fatti in esame, la giovane venisse ricoverata presso adeguata struttura sanitaria di Manfredonia, per essere poi dimessa, in data 18.12.2023, con diagnosi di “disturbo di personalità borderline; abuso di alcol, abuso di cocaina” e specifica prescrizione terapeutica immediatamente disattesa.
Come annotato anche dal P.M. nell’atto di appello ex art. 310 c.p.p. – che riprendeva, sul punto, le emergenze della documentazione sanitaria e dell’elaborato del proprio consulente tecnico , la V.M.T.F. non seguiva la terapia propostale da uno specialista e non si recava presso il SerD di competenza, né risultava disporre di un’adeguata rete familiare o amicale di sostegno. Tanto induce a ritenere connotato in termini di sicura attualità il rilevato grado di pericolosità sociale di V.M.T.F., risultando, allo stato, solo asserito, in memoria, da parte del suo difensore, l’intervenuto mutamento nello stile di vita della donna. D’altra parte, patologie psichiatriche come quelle descritte non possono certo regredire senza adeguato trattamento sanitario.
Alla luce delle considerazioni che precedono deve, dunque, accogliersi la richiesta del P.M. di applicazione, nei confronti della prevenuta, della misura di sicurezza provvisoria della libertà vigilata con obbligo di cura presso il SerD e il CSM territorialmente competenti, secondo i tempi e le modalità stabilite dagli stessi servizi, misura sicuramente idonea ad arginare il rilevato grado di pericolosità sociale della V.M.T.F. Dovrà conseguentemente disporsi il riesame della situazione di pericolosità della medesima allo scadere del semestre dall’applicazione della misura di sicurezza.
A nonna dell’art. 310, co. III, c.p.p., l’esecuzione della presente ordinanza rimarrà sospesa fino al suo passaggio in giudicato.
La oggettiva complessità tecnica della vicenda in esame e il carico di lavoro gravante su questo Ufficio giudiziario impongono la fissazione del termine di giorni 45 per il deposito della motivazione.
Trib. Bari, III, ord., 30.06.2025, n. 360