1. Il ricorso è parzialmente fondato.
2. Quanto al primo motivo lo stesso è generico per aspecificità.
Infatti, la censura non si confronta con la sentenza, che esclude del tutto la sussistenza di un sistema di sorveglianza con operatore addetto e pronto a impedire la commissione del furto (cfr. fol. 4 della sentenza impugnata), né la ricorrente deduce a riguardo travisamento della prova. Per il costante insegnamento di questa Corte, ben governato da parte della sentenza impugnata, sussiste l’aggravante di cui all’art. 625, primo comma, n. 7, cod. pen. qualora il furto della cosa esposta alla pubblica fede sia commesso in un luogo avente un sistema di videosorveglianza, il quale, ancorché consenta la conoscenza postuma delle immagini registrate dalla telecamera, non costituisce di per sé una difesa idonea a impedire la consumazione dell’illecito attraverso un immediato intervento ostativo, né garantisce in maniera continuativa la custodia del bene da parte del proprietario o di altra persona addetta alla sua sorveglianza (ex multis Sez. 5, n. 1509 del 26/10/2020, dep. 2021, Saja, Rv. 280157; Sez. 5, n. 6682 del 8/11/2007, dep. 2008, Manno, Rv. 239095; Sez. 5, n. 35473 del 20/05/2010, Canonica, Rv. 248168). La ricorrente non prende atto di tale orientamento, anzi pone a base della doglianza una alternativa ricostruzione dei fatti, non confrontandosi con l’approdo ricostruttivo della sentenza impugnata che ha escluso l’esistenza di un sistema di sorveglianza come anche la sorveglianza diretta da parte della vigilanza, tanto che la Corte territoriale rileva come l’azione criminosa fu arrestata in modo accidentale. La censura, come anticipato, è generica in quanto non si confronta in modo specifico con tali argomentazioni decisive.
3. Quanto al secondo motivo di ricorso – che lamenta l’omesso riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. – anch’esso è aspecifico. La sentenza impugnata richiama i precedenti penali, non solo risalenti ma anche relativi a tempi recenti, ai fini della prova della abitualità del reato.
La doglianza sul punto è aspecifica in quanto avrebbe dovuto essere formulata con una analisi specifica dei precedenti penali, tratti e comprovati dal certificato penale. Ma anche volendo superare il deficit di specificità, non emerge comunque alcun travisamento in cui sia incorsa la Corte territoriale, in quanto fra le condanne patite dalla imputata – quelle più recenti – si rinviene anche la sentenza del 5 gennaio 2023 della Corte di appello di Torino, che confermava la condanna per furto commesso il 14 gennaio 2021, dunque successivo a quello per cui si procede. In tal senso, assolutamente corretta e non manifestamente illogica è l’assorbente affermazione che sussista l’abitualità, in sintonia con il principio per cui, ai fini di tale presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591). Nel caso in esame l’abitualità era attestata dai reati precedenti come anche da quello successivo al furto per il quale si procede.
Ogni ulteriore doglianza formulata con il presente motivo è, poi, assorbita dalla preliminare valutazione di sussistenza della abitualità, in quanto la stessa è causa ostativa al riconoscimento dell’esimente anche in presenza di un fatto di lieve entità.
4. In ordine al terzo motivo, lo stesso è fondato.
4.1 A ben vedere la Corte di appello rileva come le pene sostitutive per la M.F. non siano idonee alla rieducazione e, soprattutto, non assicurerebbero la prevenzione del pericolo di commissione dei reati, tenuti in conto i numerosi e altamente specifici precedenti, che non risultano avere costituito una remora per l’imputata.
La richiesta avanzata per conto dell’imputata, in sede di conclusioni, era quella della sostituzione della pena detentiva con quella dei lavori di pubblica utilità.
4.2 Va evidenziato come sia fondata la censura per contraddittorietà della motivazione, fra la mitezza della pena – quantificata in mesi due di reclusione – e il diniego della pena sostitutiva.
A riguardo, infatti, condivide questa Corte il principio per cui, in tema di sanzioni sostitutive, il giudice della cognizione in sede di condanna dell’imputato è tenuto a valutare i criteri direttivi di cui all’art. 133 cod. pen. sia ai fini della determinazione della pena da infliggere sia, subito dopo, ai fini dell’individuazione della pena sostitutiva ex art. 58 legge 24 novembre 1981, n. 689, come riformato dal d.lgs. n. 150 del 2022, dovendo esservi tra i due giudizi continuità e non contraddittorietà e favorendosi l’applicazione di una delle sanzioni previste dall’art. 20-bis cod. pen. quanto minore risulti la pena in concreto inflitta rispetto ai limiti edittali (Sez. 2, n. 8794 del 14/02/2024, Pesce, Rv. 286006 – 01).
A ben vedere l’art. 58, primo comma, l. 689 del 1981 prevede che il giudice «può applicare le pene sostitutive della pena detentiva quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando, anche attraverso opportune prescrizioni, assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati. La pena detentiva non può essere sostituita quando sussistono fondati motivi per ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato».
In sostanza, l’esistenza di precedenti penali – la cui esecuzione della pena non ha avuto efficacia dissuasiva rispetto alla reiterazione di condotte di reato successive – in sé non determina automaticamente l’inadeguatezza della pena sostitutiva, che va valutata anche nella sua concretezza. La pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, richiesta dall’imputata, corredata dalle prescrizioni – richieste e consentite – al fine di evitare la recidiva, potrebbe assicurare una specifica efficacia rieducativa, essendo in astratto la peculiarità della pena sostitutiva in sé più idonea a sollecitare un iter di reinserimento sociale, tanto più che dalla sentenza impugnata emerge che il movente del delitto sia da rinvenirsi in esigenze di sostentamento.
A ben vedere se viene valorizzato tale ultimo profilo – quale movente delle abituali condotte delittuose – quale fattore ostativo alla tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., non di meno occorre una motivazione specifica in ordine alla inadeguatezza delle prescrizioni a contenere il pericolo di recidiva, prescrizioni che vanno valutate in uno al percorso di reinserimento delineato con la specifica pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità.
Tale pena sostitutiva, in particolare, potrebbe recare potenzialità di reinserimento attivo in un contesto latamente lavorativo e, quindi, risultare ben più efficace della pena detentiva, già scontata dall’imputata nel passato, senza alcun efficace risultato specialpreventivo.
L’affidamento al giudice della cognizione del potere discrezionale di sostituzione della pena detentiva per un verso tende a valorizzare da subito, e non a ridosso dell’esecuzione, la conoscenza ‘diretta’ dell’imputato e della sua personalità per individuare un trattamento sanzionatorio appropriato; per altro verso, assicura al giudice della cognizione una gamma di pene qualitativamente diverse, che possano consentire l’individuazione – con il consenso dell’imputato e nei limiti della discrezionalità attribuita dall’ordinamento – di quella più idonea al percorso di effettivo reinserimento della persona dell’imputato.
4.3 In tal senso, va richiamato quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 139 del 2025 che – riconoscendo al legislatore la discrezionalità nella individuazione delle cause soggettive ostative all’applicazione delle pene sostitutive ex art. 59 l. 689 del 1981 e succ. mod. – afferma che la riforma – d.lgs. n. 150 del 2022 – ha con nettezza «inteso configurare le pene sostitutive come autentiche pene, destinate come tali ad arricchire gli strumenti sanzionatori a disposizione del giudice della cognizione per realizzare le funzioni proprie della sanzione penale. Ciò si desume anzitutto dall’introduzione, nel Libro I del codice penale, del nuovo art. 20-bis, che espressamente le elenca, così completando il novero delle pene principali e accessorie già indicate negli articoli precedenti del Capo I del Titolo II (dedicato, appunto, alle pene) del Libro I del codice penale».
Prosegue la Corte costituzionale affermando che «[u]na simile scelta è del resto esplicitata dalla relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 del 2022, in cui si chiarisce che le pene sostitutive riformate debbono intendersi, appunto, come ‘vere e proprie pene […] diverse da quelle edittali (detentive e pecuniarie), irrogabili dal giudice penale in sostituzione di pene detentive, funzionali alla rieducazione del condannato, così come a obiettivi di prevenzione generale e speciale’. Tutto ciò» – prosegue la Corte costituzionale – «in coerenza con la preziosa indicazione dello stesso art. 27, terzo comma, Cost., che ragiona di ‘pene’ al plurale: stimolando così il legislatore a sperimentare forme di reazione sanzionatoria diverse – e in ipotesi più conformi tanto al senso di umanità, quanto alla funzione rieducativa – rispetto alla tradizionale pena carceraria».
Se il principio di proporzione ha la sua applicazione – oltre che nell’ambito della offensività e colpevolezza – anche in relazione al trattamento sanzionatorio, spetta al giudice della cognizione valutare anche qualitativamente la pena più proporzionata al delitto e alla persona del reo e più idonea al suo reinserimento e al contenimento del pericolo di recidiva.
È ben chiara a questa Corte la sussistenza di una pluralità di funzioni della pena, espresse dallo stesso legislatore nella necessità special-preventiva di evitare la reiterazione di ulteriori reati ex art. 58, primo comma, l. 689 del 1981. Si verte della necessità di coniugare le plurime finalità della pena. Quella rieducativa è «coessenziale al volto costituzionale della pena, nell’ordinamento italiano; tanto da non poter essere sacrificata ‘sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena (sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990)’, qualunque sia la gravità del reato commesso dal condannato (sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto). Conseguentemente, non solo le autorità preposte all’esecuzione della pena, ma – ancor prima – il legislatore nella fase di comminatoria edittale, e poi il giudice in sede di irrogazione della pena, sono costituzionalmente vincolati a orientare la propria discrezionalità in maniera tale da favorire – e certamente da non ostacolare – quel ‘cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale’, nel quale si declina la funzione rieducativa della pena (sentenza n. 179 del 2017, punto 4.4. del Considerato in diritto)» (così Corte cost., sentenza n. 139 del 2025, par. 9.1.).
Tuttavia la stessa Corte costituzionale esclude che la finalità rieducativa debba essere considerata, per vincolo costituzionale, come l’unica finalità legittima della pena: «Il legislatore ben può, dunque, assegnare anche altre finalità alla pena – come il contenimento della pericolosità sociale del condannato e la deterrenza nei confronti della generalità dei consociati – a condizione appunto di non sacrificare, in nome di queste pur legittime finalità, la sola funzione della pena espressamente indicata quale costituzionalmente necessaria, la rieducazione del reo; e a condizione di assicurare – assieme – il rispetto di tutti gli altri principi costituzionali che limitano la potestà punitiva statale» (par. 9.2).
4.4 A questa valutazione complessa è chiamato, allora, il giudice della cognizione: nel formulare la prognosi di efficacia – o meno – della pena sostitutiva e delle prescrizioni correlate in funzione special-preventiva deve valutare, evidentemente i precedenti penali. D’altro canto, anche l’orientamento sostenuto da questa Sezione, che pure consente di rifarsi esclusivamente ai precedenti penali per delibare l’istanza di pena sostitutiva, afferma che in tema di pene sostitutive di pene detentive brevi il giudice può respingere la richiesta anche facendo esclusivo riferimento ai soli precedenti penali dell’imputato purché dalla loro valutazione, che deve essere oggetto di specifica, puntuale e concreta motivazione, emergano elementi indiscutibilmente negativi in ordine alla prognosi della finalità rieducativa della pena sostitutiva, del contenimento del rischio di recidiva e dell’adempimento delle prescrizioni imposte (Sez. 5, n. 24093 del 13/05/2025, Gambina, Rv. 288210 – 01; in senso contrario, Sez. 2, n. 8794 del 14/02/2024, Pesce, Rv. 286006 – 02, per la quale in tema di pena sostitutive di pene detentive brevi, il giudice di merito non può respingere la richiesta di applicazione in ragione della sola sussistenza di precedenti condanne, in quanto il rinvio all’art. 133 cod. pen. contenuto dall’art. 58 legge 24 novembre 1981, n. 689, come riformato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, deve essere letto in combinato disposto con l’art. 59 della stessa legge, che prevede, quali condizioni ostative, solo circostanze relative al reato oggetto di giudizio, non comprensive dei precedenti penali).
Pertanto, anche a tale parametro dovrà attenersi il Giudice del rinvio, oltre che al principio di sostanziale coerenza fra la pena minima e il diniego della pena sostitutiva, che pur se non si risolve in alcun automatismo (quale sarebbe l’equazione: pena minima = pena sostitutiva) comunque implica un supplemento argomentativo che giustifichi il diniego della pena ex art. 20-bis cod. pen., a fronte della pena detentiva minima – o prossima al minimo edittale – determinata ex art. 133 cod. pen.
4.5 Ne consegue che in tema di applicazione delle pene sostitutive ex art. 20-bis cod. pen., spetta al giudice della cognizione una valutazione prognostica complessa – funzionale a garantire la finalità rieducativa sancita dall’art. 27 Cost. e quella specialpreventiva prevista dall’art. 58, primo comma, l. 689 del 1981 e succ. mod. – che tenga in conto anche le potenzialità di reinserimento attivo intrinseche nelle modalità di esecuzione delle singole pene sostitutive diverse da quelle carcerarie, così da procedere all’individuazione, anche qualitativa, della pena più rispettosa del principio di proporzione rispetto al delitto, al reinserimento effettivo della persona del reo, al pericolo di reiterazione di reati a tutela dei consociati.
5. Ne consegue l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, dovendosi dichiarare inammissibile il ricorso nel resto.
Cass. pen., V, ud. dep. 20.10.2025, n. 34243