1. Il ricorso è fondato.
2. Il primo motivo di ricorso pone la questione della corretta qualificazione giuridica della condotta che, in punto di fatto, è stata compiutamente accertata.
Risulta che l’imputato, durante lo svolgimento di una lezione di educazione fisica, si rivolgeva al proprio insegnante pronunciando la seguente frase «(OMISSIS)».
Il senso della frase può essere compiutamente colto solo premettendo che l’imputato era stato sottoposto alla sanzione disciplinare della sospensione e, quindi, la frase si poneva chiaramente quale una forma di indebita rimostranza avverso un provvedimento già in precedenza adottato.
2.1. Sostiene la difesa che, nella condotta sopra descritta, non è ravvisabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale, posto che la condotta minatoria non era posta in essere “per opporsi” al compimento di un atto da parte del pubblico ufficiale, bensì era manifestazione di una personale avversione indotta da fatti precedenti.
2.2. La tesi difensiva è fondata.
Il reato di resistenza a pubblico ufficiale presuppone espressamente che la condotta illecita sia finalisticamente diretta ad impedire il compimento di un atto d’ufficio, tant’è che è richiesto il dolo specifico.
Per consolidata giurisprudenza, si ritiene che nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nel fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, cosicché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione. (Sez.6, n.36367 del 6/6/2013, Lorusso, Rv. 257100).
Ne consegue che non integrano il delitto di resistenza a pubblico ufficiale le espressioni di minaccia rivolte a quest’ultimo, quando non rivelino alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio, ma rappresentino piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale (Sez.6, n. 31544 del 18/6/2009, Graceffo, Rv. 244695).
Quanto detto consente di affermare che il reato di cui all’art. 337 cod. pen. non può ritenersi consumato se non in presenza di uno stretto collegamento causale, sorretto dal dolo specifico, tra la violenza e le minacce e il compimento di un atto d’ufficio.
Viceversa, non è sufficiente il mero fatto che le minacce siano rivolte ad un pubblico ufficiale in occasione del compimento di un’attività inerente alla sua funzione, in mancanza della volontà e idoneità della condotta ad impedire il regolare svolgimento di un atto d’ufficio.
2.3. Applicando tali principi al caso di specie, è agevole escludere la configurabilità del reato contestato.
A ben vedere, infatti, la condotta realizzata dall’imputato è consistita nel pronunciare una frase minacciosa e lesiva dell’onore del pubblico ufficiale, mentre questi era intento nello svolgimento della propria funzione (tale dovendosi qualificare l’attività di insegnamento).
Tuttavia, difetta la finalità della minaccia a impedire il compimento dell’atto d’ufficio, posto che i giudici di merito non hanno in alcun modo accertato che la minaccia era diretta ad impedire la prosecuzione della lezione, piuttosto che all’assunzione di ulteriori provvedimenti disciplinari nei confronti dell’alunno.
Risulta pacificamente accertato, invece, che la minaccia era direttamente collegata ad un atto d’ufficio già integralmente esauritosi, individuabile nella pregressa adozione di un provvedimento di sospensione dalla frequenza delle lezioni.
Ciò consente di affermare che il ricorrente, pronunciando la frase riportata nell’imputazione, non ha inteso impedire il compimento di un atto d’ufficio, bensì ha assunto una condotta minatoria riferita ad un atto pregresso già compiutamente posto in essere.
3. L’accoglimento del motivo ricorso relativamente alla erronea configurazione della condotta in termini di resistenza a pubblico ufficiale, non esime dal porre la questione di vagliare la riconducibilità della condotta contestata in fatto nell’alveo di diverse fattispecie di reato.
In astratto, la minaccia rivolta all’insegnante ben potrebbe essere ricondotta al reato di minaccia, ex art. 612 cod. pen., aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 10) cod. pen., ovvero nella diversa ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale.
L’eventuale diversa qualificazione della condotta, richiedendo una rivalutazione nel merito dell’accaduto, impone l’annullamento con rinvio.
Cass. pen., VI, ud. dep. 06.10.2025, n. 32839