Reato – Il possesso di monete numismatiche è regolare solo in presenza di regolari fatture

Reato – Il possesso di monete numismatiche è regolare solo in presenza di regolari fatture

1. I motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente perché connessi, sono manifestamente infondati.

Occorre, infatti, ricordare che, secondo l’orientamento di questa Corte (Sez. 3, n. 37861 del 04/04/2017, Rolfo, Rv. 270642), esistono due categorie di cose di interesse numismatico che devono essere considerate beni culturali, il cui impossessamento è sanzionato penalmente dall’art. 176 del d.lgs. n. 42 del 2004: a) le cose di interesse numismatico che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato perché in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini (artt. 826 cod. civ., 10, comma 1, e 91, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004); b) le cose di interesse numismatico che abbiano carattere di rarità o di pregio (art. 10, comma 4, lettera b, del d.lgs. n. 42 del 2004) (cfr., nello stesso senso, Sez. 2, n. 21965 dell’11/04/2024, Parisi, non mass.).

1.1. Tanto premesso, diversamente da quanto sostenuto nel primo motivo di ricorso, il giudice dell’esecuzione si è uniformato ai principi affermati in sede di legittimità, affermando il valore archeologico delle monete confiscate ai sensi dell’art. 91, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, il quale prevede che «Le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile, ai sensi degli articoli 822 e 826 del codice civile». Di qui l’interesse archeologico dei reperti, riconducibili al sottosuolo, in ragione delle incrostazioni terrose riscontrate, ed in ogni caso privi di documentazione comprovante l’acquisizione attraverso regolari canali commerciali.

1.2. Né è possibile sostenere, come fa il ricorrente, che la mancanza di prova in ordine al sito archeologico da cui i reperti proverrebbero o la mancanza di prova circa la provenienza da un sottosuolo o fondale marino italiano sia ostativa alle conclusioni assunte nel provvedimento impugnato, avendo il giudice dell’esecuzione messo in risalto che trattasi di monete riconducibili all’area di circolazione antica italiana, dunque coniate in Italia, il cui valore archeologico ne determina l’appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato e rispetto alle quali il possesso si presume illegittimo, a meno che il detentore non dimostri di averli legittimamente acquisiti in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909 (Sez. 4, n. 14792 del 22/03/2016, Cadario, Rv. 266981; Sez. 3, n. 49439 del 04/11/2009, Dafarra, Rv. 245743), di averli ottenuti in premio per il loro ritrovamento o di averli ricevuti dallo Stato (Sez. 3, n. 45983 del 12/11/2021, De Falco, non mass.).

1.3. Neanche è persuasivo il riferimento alla figura del collezionista numismatico, che il ricorrente afferma e documenta di essere.

Invero, questa Corte (Sez. 3, n. 45983 del 12/11/2021, De Falco, cit.) ha chiarito che, con riferimento ai beni provenienti dalle collezioni numismatiche, non può non tenersi conto del fatto che il codice Urbani conferma implicitamente la possibilità che i beni di interesse culturale siano posseduti da soggetti privati, in particolare qualora il Ministero competente non abbia dichiarato di interesse culturale le cose, in quanto aventi caratteristiche di eccezionalità. In questi casi devono considerarsi incluse le collezioni numismatiche, delle quali risulta lecito il possesso se acquistate presso rivenditori commerciali od altri collezionisti, a meno che non vi sia la prova che gli oggetti commercializzati provengono da campagne di scavo anteriori all’entrata in vigore della legge 20 giugno 1909, n. 364, ovvero siano di provenienza delittuosa.

Nel caso in esame, tuttavia, il giudice dell’esecuzione ha spiegato che le monete riferibili all’area di circolazione italiana, delle quali si chiedeva la restituzione, fossero prive di documentazione tale da comprovarne l’acquisizione attraverso canali commerciali regolari secondo la vigente normativa (tramite commercianti dotati di registri di carico e scarico per il commercio di cose antiche).

In definitiva, l’impostazione seguita dal giudice dell’esecuzione appare immune da censure.

2. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, esercitando la facoltà introdotta dall’art. 1, comma 64, l. n. 103 del 2017, di aumentare oltre il massimo la sanzione prevista dall’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni dell’inammissibilità stessa come sopra indicate.

Cass. pen., III, ud. dep. 29.09.2025, n. 32166

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