Proprietà, possesso e diritti reali – Responsabilità civile – Occupazione sine titulo e liquidazione equitativa del danno

Proprietà, possesso e diritti reali – Responsabilità civile – Occupazione sine titulo e liquidazione equitativa del danno

1. Il Ministero dell’Interno articola in ricorso cinque motivi.

1.1. Con il primo motivo il Ministero ricorrente denuncia:

<<violazione e/o falsa applicazione degli artt. 475 comma 4, 513 e 608 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.>> nella parte in cui la corte di merito ha riconosciuto la sua responsabilità nel ritardo circa l’esecuzione del provvedimento di sgombero, affermando (al punto 3.3): <<Dai medesimi verbali e relazioni redatte in occasione dei ben dieci accessi compiuti nell’arco di circa quattro anni, risulta che la protratta mancata esecuzione del provvedimento dell’autorità giudiziaria è dipesa dalla mancata adeguata attivazione delle Forze dell’ordine, pur sempre presenti nei luoghi. L’illiceità del suddetto contegno è da rinvenirsi dunque nella violazione dell’art. 41 Cost e dell’art. 6CEDU, rispetto a cui non può ritenersi possibile – in applicazione dei principi espressi da Cassazione e Corte Costituzionale

– che gli organi esecutivi dipendenti dal Ministero operino una previa ponderazione e/o bilanciamento, dei diversi interessi in gioco, neppure quando gli stessi riguardino persone prive di una abitazione>>.

Ripercorre le norme che attribuiscono all’Ufficiale Giudiziario, nella fase dell’esecuzione forzata, il potere di mettere in esecuzione il titolo esecutivo, provvedendo agli adempimenti di fatto necessari a seconda della concreta situazione, di richiedere, ove occorra, l’ausilio della Forza pubblica, fino a valutare di volta in volta il ricorrere delle condizioni per procedere nell’esecuzione e disporne, se del caso, il rinvio.

Sottolinea che l’Ufficiale giudiziario, constatando la presenza di minori e disabili e l’assenza dei servizi sociali e sanitari competenti a gestire tali soggetti fragili, non ha potuto far altro, come riconosce anche la Corte territoriale, che disporre il rinvio; e che la Forza pubblica si è limitata, né poteva essere altrimenti, a fornire l’assistenza necessaria all’Ufficiale giudiziario per dare attuazione concreta ai compiti ad esso assegnati.

Osserva che, se l’Ufficiale giudiziario era stato diligente, come affermato dalla Corte territoriale, non si comprende quale siano i profili di autonoma responsabilità colposa del Ministero dell’Interno, il cui personale, come in più punti ribadito dalla Corte territoriale, agiva quale longa manus dell’Ufficiale giudiziario.

Si duole del fatto che la sentenza impugnata ha travolto il corretto inquadramento del rapporto tra l’Ufficiale giudiziario e la Forza pubblica nella parte in cui ha contraddittoriamente ritenuto che l’operato dell’Ufficiale giudiziario sarebbe dipeso dalle determinazioni della Forza pubblica quando, in base alla normativa vigente sopra richiamata, è vero esattamente il contrario.

Sostiene che non sono conferenti i precedenti giurisprudenziali tratti da sentenze penali richiamati nella sentenza impugnata, in quanto, nella materia civile, l’esecuzione della sentenza non compete direttamente alla Forza pubblica, ma all’Ufficiale giudiziario il quale, in caso di difficoltà, rimette gli atti al giudice dell’esecuzione, mentre nella materia penale l’esecuzione è affidata in via immediata e diretta all’autorità di Pubblica sicurezza (in qualità di Polizia Giudiziaria).

1.2. Con il secondo motivo il Ministero ricorrente denuncia

<<violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. nonché dei principi e delle norme in tema di illecito omissivo colposo, in particolare in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.>>:

– nella parte in cui la corte di merito ha ritenuto (al punto 3.3) che il ritardo nell’esecuzione del provvedimento di sgombero fosse dipeso dalle <<carenze organizzative riferibili al mancato intervento di personale specializzato e coadiuvato dalle professionalità necessarie all’attuazione del rilascio con le modalità più adeguate e consone con riferimento alle caratteristiche dei soggetti occupanti>>, senza tuttavia indicare quale sarebbe stata la condotta positivamente attuabile nel caso di specie;

– nonché nella parte in cui la corte di merito ha affermato (p.16) che <<era onere delle Forze dell’Ordine fornire all’Ufficiale giudiziario un supporto esecutivo adeguato, commisurato alla delicatezza della situazione, ma al contempo idoneo ad ottenere, con tutte le dovute cautele in ordine all’incolumità delle persone, la restituzione dell’immobile al suo legittimo proprietario>>.

Invocando il principio affermato da Cass. n. 5962/2000, sottolinea che il giudizio relativo alla sussistenza di un nesso causale postula, innanzitutto, la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto.

Si duole che la corte di merito, nell’affermare la sua responsabilità per condotta omissiva, dopo aver ritenuto, in contrasto con il dato normativo, che la Forza pubblica potesse intervenire in modo alternativo a quanto disposto dall’Ufficiale giudiziario, ha omesso di operare il necessario giudizio controfattuale e, quindi, ha omesso di rispondere alla seguente necessaria domanda: “l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento?”. In altri termini, “la presenza di un numero maggiore di agenti e delle professionalità interne alla Forza pubblica necessarie all’attuazione del rilascio con le modalità più adeguate e consone avrebbe permesso di eseguire lo sgombro in tempi minori e di superare l’ostacolo della presenza di bambini e disabili?”.

1.3. Con il terzo motivo il Ministero ricorrente denuncia:

<<violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11 della L. n. 48 del 2017 in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.>> nella parte in cui la corte di merito, nonostante la questione fosse stata sollevata anche nella comparsa conclusionale dell’Amministrazione appellante, ha omesso ogni motivazione in relazione al precetto normativo contenuto nell’art. 11 del D.1. n. 14/2017, convertito con modificazioni con L. n. 48/2017 (applicabile ratione temporis), sopravvenuta in pendenza della procedura esecutiva di rilascio.

Richiama la circolare N. 11001/123/111(1) del 1° settembre 2018 del Ministero dell’Interno e sostiene che non possono e non debbono ricadere su esso ministero le conseguenze dell’inerzia del Comune che non provveda a verificare le necessità assistenziali degli occupanti ovvero non provveda agli interventi doverosi «non negoziabili».

Sostiene che, a fronte della presenza di persone malate e di bambini, sfuma di rilievo causale il fatto dell’invio di un contingente numerico limitato di personale della Forza pubblica, in quanto, quand’anche vi fosse stata la presenza massiccia di personale del Commissariato, ciò non avrebbe influito sul fatto che, nella situazione descritta, non si sarebbe potuto intenerire manu militari. Tanto è vero che, anche allorquando la Polizia si presentava presso l’immobile di proprietà della controparte con un notevole spiegamento di forze, egualmente si era pervenuti alla decisione di un rinvio dell’esecuzione.

1.4. Con il quarto motivo il ministero ricorrente denuncia:

<<violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.>>:

– nella parte in cui la corte di merito, dopo aver escluso la risarcibilità del danno morale riconosciuto dal Giudice di prime cure, ha ritenuto <<adeguata la liquidazione del danno (patrimoniale, ndr), corrispondente alla perdita dello sfruttamento locativo nell’arco dei 54 mesi, in cui si è protratta senza esito la procedura di esecuzione, per complessive 180.000 euro>>;

– nonché nella parte in cui la corte di merito ha quantificato il danno per mancata disponibilità dell’alloggio in modo del tutto illogico ed apodittico sulla durata di 54 mesi; senza considerare che: a) aveva individuato il dies a quo della decorrenza del termine per lo sgombero dell’immobile nella data del 19.11.2014 ed il dies ad quem nella data del 18.4.2018; b) aveva espressamente individuato l’inizio della condotta illecita di esso Ministero a far data dal secondo accesso, avvenuto in data 16.7.2015; c) nel corso dell’intera vicenda la proprietaria era stata riammessa progressivamente nel possesso di alcune parti dell’immobile prima del suo sgombero definitivo.

Sostiene che la corte di merito, a tutto voler concedere, avrebbe dovuto considerare rilevante per la liquidazione del danno il periodo tra il 16.7.2015 e il 18.4.2018, ossia un periodo pari a 33 mesi.

1.5. Con il quinto motivo il Ministero ricorrente denuncia:

<<violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c.>> nella parte in cui la corte di merito ha omesso di tenere conto dei tempi di occupazione dell’immobile dovuti ai rinvii dello sgombero coattivo disposti su istanza della proprietaria dell’immobile.

Sostiene che detti periodi (che dalla sentenza impugnata – pp. 9, 10 e 11 – risultano essere stati pari a complessivi mesi 11 e giorni 22) avrebbero dovuto essere detratti dal complessivo tempo di asserito ritardo (imputato alla sua condotta omissiva), con la conseguenza che, a tutto voler concedere, il periodo di tempo dell’indisponibilità dell’immobile sarebbe stato pari a 21 mesi e 8 giorni (per un importo pari a 70.866,00 Euro), di cui solo 14 mesi e 13 giorni avevano visto un integrale occupazione dell’immobile (con conseguente ulteriore riduzione dell’importo eventualmente dovuto).

2. All’esame dei singoli motivi di ricorso va premesso in linea generale che, da un lato, l’esigenza di una dignitosa sistemazione abitativa per chiunque legittimamente viva ed operi sul territorio nazionale, specie se si tratti di soggetto debole: a) ha di recente assunto carattere di ampio rilievo, essendo legata non più soltanto a particolari e contingenti situazioni di disagio di singoli individui ma anche a fenomeni sociali di ampia risonanza, quali la crisi economica e l’incremento dei flussi migratori; b) si pone in stretta relazione con il principio della pari dignità di ogni persona umana (cfr., tra le più recenti, Corte cost. sentenze n. 28/2024; n. 145 del 2023, n. 87 e n. 43 del 2022, n. 128 e n. 112 del 2021) ed è strettamente legata al diritto/dovere al lavoro, in quanto, se da un lato disporre di una abitazione stabile facilita la ricerca ed il mantenimento di un lavoro, dall’altro svolgere un lavoro stabile rende più facile l’accesso ad una abitazione adeguata; c) va annoverata tra i c.d. diritti sociali, cioè tra quei diritti che trovano la loro giustificazione in due fondamentali principi del nostro ordinamento costituzionale: il principio di solidarietà ed il principio di eguaglianza sostanziale (artt. 2 e 3 Cost.).

Alla stregua di ogni altro diritto sociale, anche il diritto di abitazione sollecita prestazioni pubbliche, di ordine solidaristico, finalizzate ad evitare che circostanze materiali o esistenziali (di ordine economico, lavorativo, provenienza etnica, salute, ecc.) impediscano o ostacolino il pieno sviluppo di ogni persona umana, nonché la possibilità della sua partecipazione alla vita sociale, in condizioni di eguaglianza sostanziale rispetto agli altri consociati ed in vista del progresso, materiale o spirituale, della società in cui vive (art. 4 Cost.).

Fa carico alla Amministrazione pubblica l’obbligo di attivarsi per dare una risposta all’esigenza abitativa e che contribuisca alla rimozione di situazioni di fatto, che possono giungere a privare alcuni soggetti (generalmente più deboli) di un diritto che costituisce precondizione per l’esercizio e la tutela, oltre che del diritto al lavoro, anche di altre libertà fondamentali (come, ad es., la libertà di contrarre matrimonio, di formare una famiglia, di procreare e di educare la prole, ecc.).

In tale contesto, fondamentale è il coinvolgimento dei servizi sociali delle amministrazioni comunali, che dovrebbero essere in grado di offrire non soltanto l’assistenza concreta ai soggetti deboli, coinvolti nelle occupazioni abusive, specie se necessitano di particolari prestazioni socio sanitarie, ma anche di accompagnare il transito degli occupanti dalla situazione emergenziale dell’occupazione abusiva ad una successiva fase di stabilizzazione in un’adeguata struttura abitativa.

Per contro, il fenomeno delle occupazioni abusive di immobili è fonte di gravi tensioni sociali e di pericolose situazioni di illegalità, in quanto ogni occupazione abusiva lede non soltanto il diritto del soggetto (pubblico o privato), che è proprietario dell’immobile abusivamente occupato, ma anche l’interesse dei consociati ad una convivenza ordinata e pacifica.

Anche nel caso delle occupazioni abusive di immobili altrui, come d’altronde in ogni altra situazione di illegalità, spetta al legislatore nazionale stabilire quale risposta dare per ripristinare la legalità violata. Nel vigente ordinamento, il proprietario, che subisca l’occupazione del proprio immobile, può adire il giudice civile per ottenere l’accertamento del carattere abusivo dell’occupazione (e, quindi, il rilascio forzoso del bene), oltre al risarcimento del danno; ovvero può presentare denuncia alla Procura della Repubblica, competente per territorio, per il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), fattispecie questa perseguibile anche d’ufficio nel caso in cui gli autori dell’occupazione siano più di cinque o nel caso in cui l’occupazione sia avvenuta con l’uso palese di armi.

Una volta che il proprietario abbia ottenuto il titolo esecutivo per recuperare la disponibilità materiale del proprio immobile, peraltro, come questa Corte ha avuto già modo di affermare, non rientra nel potere discrezionale della pubblica amministrazione stabilire se dare o meno attuazione al provvedimento dell’autorità giudiziaria – a maggior ragione quando lo stesso abbia ad oggetto la tutela di un diritto riconosciuto dalla Costituzione o dalla CEDU -, con la conseguenza che

l’inosservanza, da parte dell’autorità amministrativa, del dovere costituente espressione dello Stato di diritto, di apprestare i mezzi per l’attuazione coattiva dei provvedimenti giudiziari integra una condotta colposa generatrice di responsabilità (principio di diritto già affermato da Cass. n. 24198 del 2018, che in quella sede ha ritenuto colposa la condotta dell’amministrazione dell’interno che, a fronte dell’ordine di sgombero di un immobile abusivamente occupato “vi aut clam”, ha trascurato per sei anni di dare attuazione al provvedimento di sequestro con contestuale ordine di sgombero impartito dalla Procura della Repubblica).

In definitiva e in estrema sintesi, nel nostro ordinamento costituzionale, di impostazione personal-solidaristica (artt. 2 e 3 Cost.), da un lato l’amministrazione pubblica è sollecitata ad intraprendere ogni possibile intervento per soddisfare l’esigenza abitativa, specie dei soggetti deboli, e per far sì che ciascuno con il proprio lavoro possa concorrere “al progresso materiale e spirituale” della società in cui vive (art. 4 Cost.); anche nel caso delle occupazioni abusive, va cercato lo strumento per ricondurre in ogni singolo caso la riaffermazione della legalità violata in un ambito di ragionevolezza, che tenga conto di tutti gli aspetti sottesi al fenomeno (prerogative del soggetto proprietario, pubblico o privato che sia; protezione dei soggetti deboli coinvolti nell’occupazione; concreto pericolo per l’incolumità pubblica e per la sicurezza urbana derivante dall’illecito protrarsi dell’occupazione abusiva), il tutto senza perdere di vista che, a fronte della intervenuta emissione di un provvedimento giurisdizionale di sgombero, la p.a. è tenuta ad eseguirlo, con le modalità più appropriate al caso di specie ma comunque idonee a garantirne l’attuazione in tempi ragionevoli.

3. Tanto premesso, nel caso di specie, dal giudizio di merito è risultato che:

– nel novembre del 2013 un immobile di proprietà di M.E. sito in (OMISSIS) in via (OMISSIS), costituito da un capannone ad uso produttivo (ex fabbrica) dell’estensione di circa 700 mq, veniva occupato sine titulo da una trentina di persone che vi si introducevano sfondando le porte e quindi stabilendovi la propria dimora;

– la M.E.: dapprima, denunciava il fatto ai Carabinieri; quindi, agiva civilmente ottenendo in data 28.08.2014 ordinanza ex art. 1168 c.c., con cui veniva disposto in suo favore il rilascio dell’immobile libero da cose e persone;

– gli occupanti non rilasciavano spontaneamente l’immobile;

– in data 19.11.2014, la M.E. richiedeva all’Ufficio Esecuzioni presso la Corte d’appello di Firenze di fissare la data per l’esecuzione, notificando agli occupanti avviso ex art. 608 c.p.c., in cui si indicava la data del 19 marzo 2015 per la presentazione dell’Ufficiale giudiziario assistito dalla Forza Pubblica per ottenere il rilascio e la restituzione dell’immobile;

– a tale data l’Ufficiale giudiziario dava atto che erano presenti, oltre alla proprietaria M.E., anche “numerosissime persone del movimento di ‘lotta per la casa”. Dava altresì atto dell’intervento della Forza Pubblica indicata nella PS di (OMISSIS), con specificazione che “successivamente sono intervenuti altri due agenti della DIGOS della Questura”. Dava infine atto che “gli intimati chiedono un rinvio e considerato che in data odierna non è oggettivamente possibile procedere alla esecuzione di cui in atti stante la presenza di numerosi bambini e delle numerose persone del movimento ‘lotta per la casa’ presenti sul posto si rinvia l’esecuzione con Forza Pubblica al giorno 16.07.2015”;

– a questo primo rinvio ne hanno fatto seguito altri fino a quando, in data 18 aprile 2018, gli occupanti, invitati a rilasciare l’immobile, si sono allontanati.

In punto di quantum, dal giudizio di merito è altresì risultato che:

– la M.E. ha sempre allegato la propria intenzione di mettere a frutto il compendio immobiliare, avendo predisposto in tal senso anche un progetto di ristrutturazione (acquisito agli atti); ed ha altresì dedotto di aver affittato fino a qualche anno prima l’immobile;

– la vocazione produttiva dell’immobile per cui è ricorso e la sua estensione (pari a circa 700 mq) non sono state oggetto di tempestiva contestazione.

4. Tanto premesso, non fondati sono i primi tre motivi di diritto, che, in quanto tutti relativi all’an debeatur, sono qui trattati congiuntamente.

4.1. In tema di occupazioni abusive di immobili, il legislatore è fin qui intervenuto: dapprima, con l’art. 11 del d.l. n. 14 del 20 febbraio 2017, convertito nella legge n. 48 del 18 aprile 2017; poi con il d. l. n. 113 del 4 ottobre 2018 convertito con modificazioni dall’art. 31 ter della legge 1° dicembre 2018 n. 132.

L’articolo 11 nella prima formulazione prevedeva che a <<il Prefetto, nella determinazione delle modalità esecutive di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria concernenti occupazioni arbitrarie di immobili, nell’esercizio delle funzioni di cui all’articolo 13 della legge 1° aprile 1981, n. 121, impartisce, sentito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, disposizioni per prevenire, in relazione al numero degli immobili da sgomberare, il pericolo di possibili turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica e per assicurare il concorso della Forza pubblica all’esecuzione di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria concernenti i medesimi immobili. Le disposizioni di cui al comma 1 definiscono l’impiego della Forza pubblica per l’esecuzione dei necessari interventi, secondo criteri di priorità che, ferma restando la tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale, tengono conto della situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica negli ambiti territoriali interessati, dei possibili rischi per l’incolumità e la salute pubblica, dei diritti dei soggetti proprietari degli immobili, nonché dei livelli assistenziali che devono essere in ogni caso garantiti agli aventi diritto dalle regioni e dagli enti locali>>.

La norma – che si applicava alle sole fattispecie integranti il reato di cui all’art.633 c.p. (e, quindi, non agli sfratti per finita locazione) – non prevedeva alcuna discrezionalità della PA obbligata nel dare esecuzione al provvedimento giurisdizionale, ma fissava dei criteri di priorità temporale e di cautela nell’esercizio di detta funzione esecutiva, che si rivelarono non idonei ad assicurare tempestività all’esecuzione degli sgomberi (con conseguente protrarsi delle occupazioni abusive). Il legislatore nazionale nel 2018 è nuovamente intervenuto sulla materia riscrivendo la disciplina, sia dal punto di vista degli interventi di prevenzione, che sul piano delle competenze prefettizienell ‘esecuzione degli sgomberi.

In particolare, quanto a quest’ultimi, l’articolo 11, nella nuova versione, definisce l’iter procedimentale che deve essere seguito dal Prefetto quando viene richiesto l’intervento della Forza pubblica per l’esecuzione di un provvedimento di rilascio di immobili abusivamente occupati da cui possa derivare il pericolo di turbative per l’ordine e la sicurezza, stabilendo tempistiche precise per la conclusione delle operazioni.

La norma, inoltre, riconosce il diritto del proprietario alla liquidazione di un’indennità onnicomprensiva per il mancato godimento del bene, da liquidarsi secondo criteri equitativi che tengano conto dello stato dell’immobile, della sua destinazione, della durata dell’occupazione e dell’eventuale fatto colposo del proprietario nel non avere impedito l’occupazione.

4.2. Ciò posto, occorre qui ribadire che, in uno Stato di diritto, quale è per l’appunto il nostro, l’omessa attuazione, da parte degli organi di polizia o delle altre amministrazioni a ciò preposte, dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria costituisce un fatto, che integra un illecito civile e che, al ricorrere di dati presupposti, può integrare anche un illecito penale.

Tale principio di diritto è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte ormai oltre 60 anni fa; allorquando con sentenza n. 2299/1962 – dopo aver precisato in motivazione che: <<l’autorità amministrativa, richiesta di concorrere con la Forza pubblica all’esecuzione della pronuncia giurisdizionale di condanna o del comando contenuto nel titolo esecutivo, non è chiamata ad esercitare una potestà amministrativa, bensì a prestare i mezzi per l’attuazione in concreto della sanzione, ossia a prestare un servizio che consente di realizzare il fine ultimo della funzione sovrana della giurisdizione, che è dato dalla realizzazione contro l’inadempiente. Nell’esplicazione di tale servizio, l’autorità amministrativa presta attività materiale e non può, per tanto, procedere a valutazioni di interessi o di motivi di opportunità. Se, trascendendo i limiti della prestazione del servizio predetto, l’autorità amministrativa compie una valutazione di opportunità della esecuzione cui è chiamata a concorrere, ed esercita cosi una potestà che non ha, essa agisce illecitamente”>> – ha affermato il seguente principio di diritto: <<il rifiuto di assistenza della Forza pubblica all’esecuzione dei provvedimenti del giudice, che sia determinato da valutazioni sull’opportunità dell’esecuzione medesima (e sempre quindi che non dipenda da accertata indisponibilità di forza, ipotesi questa che, essendo giustificata da impossibilita di adempimento della prestazione, esclude la illiceità del comportamento), costituisce un comportamento illecito lesivo del diritto alla prestazione e come tale generatore di responsabilità dalla parte della pubblica amministrazione>>.

In estrema sintesi, le Sezioni Unite di questa Corte, già con detto fondamentale e risalente arresto: a) hanno esposto le ragioni per le quali l’autorità amministrativa richiesta di concorrere con la Forza pubblica all’esecuzione del comando contenuto nel titolo esecutivo non è chiamata ad esercitare una potestà amministrativa, ma ha il dovere di prestare i mezzi per l’attuazione in concreto dello stesso onde realizzare il fine ultimo della funzione sovrana della giurisdizione; b) hanno affermato che si toglierebbe altrimenti vigore alla protezione giurisdizionale garantita al cittadino, che tutta l’attività giurisdizionale risulterebbe sostanzialmente vanificata e che, in definitiva, lo Stato negherebbe se stesso come ordinamento; c) e, dalle argomentazioni che precedono hanno tratto il corollario che <<l’eventuale impossibilità di adempiere deve essere valutata con particolare rigore>>, non senza precisare che all’autorità di polizia può riconoscersi <<esclusivamente un margine di discrezionalità tecnica nella scelta del momento concreto in cui prestare la propria assistenza>>.

Successivamente, le stesse Sezioni Unite:

– con sentenza n. 2478/1988, hanno affermato che: <<Il privato, portatore di un titolo esecutivo giudiziale, ha un diritto soggettivo ad ottenere dall’amministrazione le attività necessarie all’esecuzione forzata del provvedimento, comprese quelle relative all’uso della Forza pubblica, le quali integrano comportamenti dovuti (sempre che non ricorra un’impossibilità determinata da forza maggiore) e non discrezionali. Pertanto, ove l’autorità competente neghi dette attività, nonostante la richiesta dell’ufficiale giudiziario cui è affidata l’esecuzione, deve riconoscersi al privato la facoltà di esperire contro l’amministrazione Azione risarcitoria davanti al giudice ordinario, per il ristoro del danno provocato da quel rifiuto>>;

– con sentenza n. 5233/1998, emessa in tema di esecuzione di sfratti a seguito di convalida di licenza per finita locazione, hanno affermato che: <<…il provvedimento di concessione (o di diniego), in concreto, della F.P., in quanto atto del tutto dovuto (arg. ex art. 475, terzo comma, cod. proc. civ.), è privo di qualsiasi contenuto discrezionale – dovendosi riconoscere, al più, all’autorità di polizia un limitato margine di discrezionalità tecnica quanto alla scelta del momento concreto in cui prestare la propria assistenza -, e si connota come singolo momento del più complesso procedimento di esecuzione, così che la sua eventuale illegittimità, impingendo posizioni di diritto soggettivo, trova il suo giudice naturale nel giudice dell’esecuzione (e non anche nel giudice amministrativo), e può essere contestata con il rimedio di cui all’art. 617, secondo comma, cod. proc. civ. Ne consegue che, una volta concesso il nulla osta all’assistenza della F.P., tale provvedimento può essere sospeso o differito dall’autorità che lo ha emanato soltanto per motivi strettamente tecnici (impossibilità, difficoltà, inopportunità di fornire materialmente la F.P.), ma non anche per motivi di merito (riguardanti, ad esempio, la inesistenza della urgente necessità dedotta dal locatore ex art. 3 legge 61 del 1989), dovendo ogni questione attinente all’esistenza o al sopravvenuto mutamento delle condizioni necessarie per l’assistenza della F.P. essere sollevata dinanzi al giudice dell’esecuzione che, in caso di illegittima revoca del provvedimento di concessione, ben può disapplicarla, ex art. 5 legge 2248 del 1865, all. E.>>.

Nel solco tracciato dalle Sezioni Unite, Cass. n. 3873/2004 – dopo aver precisato che <<La natura primaria del dovere dall’autorità amministrativa di apprestare i mezzi per l’attuazione coattiva dei provvedimenti giurisdizionali renderebbe poi evidente, ove tali mezzi non fossero apprestati, il contrasto di tale comportamento anche col principio di buona amministrazione posto dall’art. 97, comma primo, Cost. (..)>>- ha rilevato che: <<La negazione dell’assistenza della Forza pubblica per la realizzazione coattiva di un diritto giudizialmente riconosciuto (…) integra, nello stato di diritto, una situazione addirittura paradossale, essendo inconcepibile che l’ordinamento per un verso contempli, imponendo al privato di avvalersene per poter realizzare il proprio interesse secundum ius, gli strumenti necessari alla tutela della sua posizione giuridica soggettiva (il processo, gli organi preposti a consentirne lo svolgimento, l’efficacia esecutiva del titolo che ne costituisce l’esito) e, per altro verso, non faccia in modo che l’interesse del singolo sia coattivamente soddisfatto in sede esecutiva con la forza che solo lo Stato è autorizzato a dispiegare; ovviamente predisponendo mezzi adeguati alla bisogna. L’apprestamento di tali mezzi da parte della pubblica amministrazione è, pertanto, assolutamente doveroso, non essendo revocabile in dubbio che la legalità costituisce uno dei fondamentali aspetti della struttura dell’ordinamento giuridico ed il principale tra i criteri cui deve ispirarsi ogni attività rivolta appunto ad assicurarne il rispetto>>

E, più di recente Cass. n. 24198/2018 – nel ribadire che: <<(a) l’apprestamento della Forza pubblica da parte della P.A. è “doveroso”; (b) se ardisce sindacare l’opportunità di dare esecuzione al provvedimento, la p.a. “tiene una condotta illecita”; (e) il primo criterio cui deve ispirarsi la p.a. è la legalità, e legalità non v’è quando si tolleri l’altrui sopruso, dal momento che chi accetta l’illegalità, la avalla; (d) la mancanza di mezzi aggrava, invece che scusare, la p.a. che non garantisca l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali>> – ha precisato che:

-<<al fine di escludere la responsabilità della p.a.>>, non è possibile sindacare la natura, il contenuto o lo scopo del provvedimento giurisdizionale cui la Forza pubblica è chiamata a dare attuazione.

– <<la circostanza che il provvedimento giudiziario, cui la p.a. è chiamata a dare attuazione, non abbia ad oggetto diritti inviolabili della persona o diritti fondamentali consacrati dalla Costituzione o da trattati internazionali, non attenua l’obbligo della p.a. di darvi esecuzione>>;

– <<quando, però, il provvedimento giudiziario sia stato – (…) – emanato a tutela di diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU, la violazione da parte della p.a. dell’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti giudiziari rafforza la responsabilità della p.a., perché quella violazione non solo espone il funzionario o l’amministrazione di appartenenza a responsabilità verso il singolo secondo le regole della lex Aquilia, ma esporrebbe altresì lo Stato nel suo complesso all’obbligo di riparazione verso i titolari dei diritti conculcati, per mancato apprestamento di adeguata tutela a quei diritti>>;

per quindi affermare il già in precedenza richiamato principio di diritto:

<<Non rientra nel potere discrezionale della pubblica amministrazione stabilire se dare o meno attuazione ad un provvedimento dell’autorità giudiziaria – a maggior ragione quando lo stesso abbia ad oggetto la tutela di un diritto riconosciuto dalla Costituzione o dalla CEDU -, con la conseguenza che l’inosservanza, da parte dell’autorità amministrativa, del dovere, costituente espressione dello Stato di diritto, di apprestare i mezzi per l’attuazione coattiva dei provvedimenti giudiziari integra una condotta colposa generatrice di responsabilità>>.

4.3. Occorre aggiungere che l’obbligo della P.A. di dare incondizionata attuazione ai provvedimenti giudiziari è stato affermato anche dalla nostra Corte costituzionale e dalla Corte EDU.

Precisamente, la Corte costituzionale:

– con sentenza n. 321/1998, in relazione agli artt. 24,42 e 102 Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis del decreto-legge 19 giugno 1997, n. 172 (Misure urgenti per fronteggiare l’eccezionale carenza di disponibilità abitativa), aggiunto dalla legge di conversione 25 luglio 1997, n. 240, nella parte in cui prevedeva, interpretando autenticamente le norme (artt. 3 e 5 del decreto-legge 30 dicembre 1988, n. 551, convertito nella legge 21 febbraio 1989, n.

61) sui poteri del prefetto in sede di disciplina dell’assistenza della Forza pubblica per l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili urbani adibiti ad uso abitazione, che quest’ultimo potesse determinare il differimento della singola esecuzione forzata. Difatti, precisa la Corte, il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti comprende la fase dell’esecuzione forzata, la quale, essendo diretta a rendere effettiva l’attuazione dei provvedimenti giurisdizionali, non può essere elusa nè condizionata da valutazioni amministrative di opportunità, e, quindi, da un intervento del prefetto che, superando i confini <<della ausiliarietà e della strumentalità rispetto al provvedimento giurisdizionale>> da attuare, incida sulla singola esecuzione;

– con sentenza n.28/2024, pur ribadendo che il diritto all’abitazione si colloca «fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» e che a detto diritto va riconosciuto <<il rango di diritto fondamentale riferibile alla sfera dei beni primari collegati alla persona>> – ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 633 del codice penale, sollevate da un Tribunale ordinario, precisando che: a) <<la configurazione come illecito penale della condotta di cui all’art. 633 c.p. assume rilievo in una duplice prospettiva: da un lato, il proprietario dell’immobile o del terreno oggetto di occupazione o il soggetto comunque tutelato dalla medesima disposizione ben possono reagire legittimamente alla condotta di invasione arbitrariamente posta in essere da un terzo; dall’altro, risulta legittimato l’intervento delle forze dell’ordine al fine di far cessare la condotta di occupazione attraverso lo sgombero degli occupanti>>; b) <<l’esercizio del diritto di abitazione non comporta come mezzo indispensabile l’occupazione dell’edificio altrui >>; c) <<è compito dell’interprete esaminare e valutare se sussistano gli estremi dello stato di necessità dettato dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, nonché di verificare l’offensività “in concreto” della condotta, alla luce della ratio della disposizione incriminatrice>>.

D’altra parte, la Corte EDU, anche in relazione all’art. 6 della Convenzione (che sancisce il diritto di accesso ad un tribunale) ed all’art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione (rubricato “Protezione della proprietà”):

a) con sentenza 3 dicembre 2020; Papachela et Amazon S.A. c/Grece, in causa n. 12919/18, ha ritenuto violato il diritto di proprietà dei ricorrenti (tutelato dall’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU) in conseguenza del mancato contrasto, da parte delle autorità pubbliche, della protratta occupazione abusiva di un immobile da parte di una comunità di immigrati, senza che venisse eseguita la sentenza passata in giudicato che aveva imposto il rilascio dell’immobile, e con la conseguenza che i ricorrenti avevano dovuto sostenere le ingenti spese relative all’immobile senza poterne usufruire;

b) con sentenza 13 dicembre 2018, Casa di cura Valle Fiorita S.r.l. c/Italia, in causa n. 67944/13, in relazione ad un contenzioso originato dal mancato sgombero di uno stabile di proprietà della società ricorrente sito a Roma, ha condannato lo Stato italiano al ristoro del danno morale subito dalla proprietaria dell’immobile, rinviando quest’ultima dinanzi ai giudici nazionali per il risarcimento del danno materiale. Nella pronuncia la Corte rilevava, all’unanimità, la violazione dell’art. 6, § 1 CEDU (diritto a un equo processo), atteso che le autorità italiane, <<astenendosi, per più di cinque anni, dall’adottare tutte le misure necessarie per conformarsi ad una decisione giudiziaria definitiva ed esecutiva, hanno privato detta disposizione di qualsiasi effetto utile e hanno pregiudicato lo Stato di diritto>>, e dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (diritto alla protezione della proprietà). Con riferimento a quest’ultimo profilo, la Corte, pur riconoscendo i motivi di ordine sociale e di ordine pubblico che avrebbero potuto giustificare un ritardo nell’esecuzione dello sgombero, ha precisato che <<non può considerare accettabile la durata della mancata esecuzione nel caso di specie, che persiste a tutt’oggi, unita all’assenza totale di informazioni sugli atti compiuti o previsti dalle autorità per porre fine alla situazione denunciata>>, considerato peraltro che la parte ricorrente <<continua ad essere tenuta a pagare le spese relative al consumo energetico degli occupanti dell’immobile>>;

c) con sentenza 19 novembre 2013, Sekul c. Croazia, in causa n. 43569/13, ha concluso che <<gli Stati possono essere considerati responsabili per quanto riguarda l’esecuzione di una sentenza da parte di una persona di diritto privato se le autorità pubbliche implicate nelle procedure di esecuzione non danno prova della diligenza richiesta o se impediscono l’esecuzione>>;

d) con sentenza 5 giugno 2007, Delle Cave c. Italia, in causa 14626/03, ribadendo principi già affermati (cfr. Corte EDU, Homsby c. Grecia, 19 marzo 1997; Immobiliare Saffi c. Italia, 28 luglio 1999) – dopo aver ribadito che l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali costituisce un corollario ineludibile del diritto di accesso ad un Tribunale, sancito dall’art. 6 CEDU – ha precisato che tale diritto diverrebbe <<illusorio se gli stati membri permettessero che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante restasse lettera morta. L’esecuzione d’una sentenza, di qualunque giurisdizione, deve essere considerata come facente parte integrante del “processo” ai sensi dell’art. 6 CEDU>>;

e) con sentenza 7 giugno 2005, Fouklev c. Ucraina, in causa 71186/01, ha osservato che da tali principi <<deriva l’obbligo per gli Stati contraenti di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione>> e che <<gli Stati hanno l’obbligo positivo di mettere in atto un sistema che sia effettivo tanto in pratica quanto in diritto, e che permetta di assicurare l’esecuzione delle decisioni giudiziarie definitive tra persone private>>;

In definitiva, nell’attuale sistema multilivello, qualsiasi interpretazione dell’ordinamento interno che lasciasse alla P.A. la scelta se dare o non dare esecuzione ai provvedimenti giurisdizionali sarebbe, per ciò solo, contrastante con l’art. 6 CEDU e, di rimbalzo, con l’art. 6 Trattato UE, che i precetti della CEDU ha elevato a princìpi fondamentali dell’ordinamento comunitario.

4.4. Di tali principi di diritto ha fatto corretta applicazione nel caso di specie la corte territoriale, nel valutare la condotta del personale dell’amministrazione della giustizia (ovvero dell’Ufficiale Giudiziario) e del personale del Ministero dell’interno (ovvero della c.d. Forza pubblica).

Quanto alla condotta dell’Ufficiale giudiziario, la corte di merito ha ritenuto provato che lo stesso: a) aveva puntualmente fissato il giorno per lo sgombero entro pochi mesi dalla richiesta; b) si era assicurato l’intervento della Forza Pubblica; c) aveva ogni volta proceduto ad intimare il rilascio e, non ottenendo quanto richiesto, si rivolgeva alla Forza Pubblica presente, disponendo il rinvio solo a fronte della dichiarata impossibilità di quest’ultima di procedere allo sgombero.

In definitiva, secondo la corte di merito, <<nessun differimento è dipeso né da omissioni, né dall’attività organizzativa dell’Ufficiare Giudiziario, il cui compito, di carattere eminentemente giuridico (intimazione, redazione del verbale delle operazioni, attestazione di rilascio o meno, formalizzazione della re-immissione nel possesso) risulta nella fattispecie compiutamente eseguito>>.

A diversa conclusione la corte di merito è pervenuta con riguardo alla valutazione della condotta del personale del Ministero dell’Interno, in quanto i vari funzionari delle forze dell’ordine presenti, <<a seguito dell’invito dell’Ufficiale giudiziario a dare seguito all’esecuzione, facevano ogni volta presente l’impossibilità di procedere, una volta per la presenza di molti manifestanti e le conseguenti problematiche di ordine pubblico, un’altra per l’assenza di un medico che potesse verificare le condizioni di salute della persona affetta da invalidità collocata all’interno dell’immobile, un’altra volta per la mancata presenza dei servizi sociali (…). Infine, si è addivenuti a rinviare la procedura in considerazione dell’impossibilità rilevata dai rappresentati delle Forze dell’ordine intervenute, di reperire una adeguata collocazione degli occupanti deboli e minori, fino a che, dopo circa tre anni di rinvii, il procuratore dell’istante ha cominciato ad intavolare trattative con gli occupanti e, nel giro di circa un ulteriore anno, poco alla volta, l’immobile è stato rilasciato nella disponibilità della sua proprietaria>>

In definitiva, secondo la corte di merito, dai <<verbali e relazioni redatte in occasione dei ben dieci accessi compiuti nell’arco di circa quattro anni, risulta che la protratta mancata esecuzione del provvedimento dell’autorità giudiziaria è dipesa dalla mancata adeguata attivazione delle Forze dell’ordine, pur sempre presenti nei luoghi>>

La corte di merito ha anche aggiunto che:

-<<L’illiceità del suddetto contegno è da rinvenirsi dunque nella violazione dell’art. 42 Cost. e dell’art 6CEDU, rispetto a cui non può ritenersi possibile – in applicazione dei principi espressi da Cassazione e Corte Costituzionale – che gli organi esecutivi dipendenti dal Ministero operino una previa ponderazione e/o bilanciamento, dei diversi interessi in gioco, neppure quando gli stessi riguardino persone prive di una abitazione. A tale proposito infatti non solo non sussiste discrezionalità della Forza Pubblica nell’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, ma in ogni caso non può farsi pesare su un soggetto che sia proprietario di un immobile – e quindi abbia la facoltà giuridica di detenerlo e sfruttarlo anche economicamente – la sussistenza di problematiche sociali, sicuramente gravi e delicate, connesse con l’emergenza abitativa, la cui soluzione è demandata agli organi dello Stato a cui i cittadini contribuiscono a livello di tassazione e sistema fiscale>>;

-<<In tal senso dunque, l’illiceità della condotta posta in essere dal personale del Ministero dell’Interno (l’omessa esecuzione di un provvedimento dell’AG costituente titolo esecutivo) è rinvenibile sia nella scelta di non procedere allo sgombro in mancanza di un previo reperimento di una soluzione abitativa per gli occupanti sine titulo (frutto come detto di una comparazione di interessi da parte degli organi deputati all’esecuzione, non ammessa dall’ordinamento), sia nelle carenze organizzative riferibili al mancato intervento di personale specializzato e coadiuvato dalle professionalità necessarie all’attuazione del rilascio con le modalità più adeguate e consone con riferimento alle caratteristiche dei soggetti occupanti>>;

-<<A tale proposito, se in occasione del primo accesso poteva non essere conosciuta né prevedibile l’intervento di manifestanti, nonché la consistenza degli occupanti e la presenza tra gli stessi di minori e malati, nelle successive sessioni, in relazione all’avvenuta acquisizione di tali elementi, era onere delle Forze dell’Ordine fornire all’Ufficiale giudiziario un supporto esecutivo adeguato, commisurato alla delicatezza della situazione, ma al contempo idoneo ad ottenere, con tutte le dovute cautele in ordine all’incolumità delle persone, la restituzione dell’immobile ai suo legittimo proprietario>>.

I primi tre motivi, qui in esame, sono infondati e devono essere rigettati, avendo la corte d’appello fatto corretta applicazione delle norme di legge, in conformità ai seguenti principi di diritto:

-<<Nelle esecuzioni per rilascio, spetta all’ufficiale giudiziario il potere, riconosciuto dal combinato disposto di cui agli artt. 608 e 513 c.p.c., di richiedere in ausilio la c.d. Forza pubblica (espressione questa che comprende: gli agenti di Pubblica Sicurezza, i Carabinieri, le Guardie di Finanza, i Vigili del Fuoco, gli Agenti di Custodia e le persone ad essi equiparate, nonché tutti quegli organismi non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta sulle persone e sulle cose ai fini dell’ordine e della sicurezza pubblica, ivi compresi gli Agenti della Polizia Municipale)>>;

– <<Nell’ordinamento di uno Stato di diritto, l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti giurisdizionali è incondizionato, con la conseguenza che l’inadempimento di tale obbligo, protratto oltre il tempo ragionevolmente necessario ad approntare i mezzi che tale esecuzione richieda, costituisce fatto che, di per sé stesso, è fonte di responsabilità della P.A. obbligata, senza necessità per il soggetto danneggiato di provare il dolo o la colpa in capo al personale che di volta in volta è intervenuto>>;

– <<Solo l’assoluta impossibilità (per forza maggiore) di prestare assistenza all’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale può giustificare un (temporaneo) diniego da parte delle Autorità, a fronte di una legittima richiesta da parte del giudice o dei suoi ausiliari, sussistendo un diritto soggettivo ad ottenere dall’amministrazione le attività necessarie all’esecuzione forzata del provvedimento, comprese quelle relative all’uso della Forza pubblica, le quali integrano comportamenti dovuti (sempre che non ricorra un’impossibilità determinata da forza maggiore) e non discrezionali>>;

– <<La causa di forza maggiore ostativa all’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale non può identificarsi nelle difficoltà intrinseche dell’esecuzione forzata né nella scelta discrezionale di posporre l’interesse all’esecuzione del provvedimento giurisdizionale ad altri interessi, pur legittimi, che la P.A. è tenuta a garantire>>.

Di tali principi di diritto ha fatto corretta applicazione la corte di merito, che, ad esito di un giudizio di fatto, insindacabile nella presente sede, ha ritenuto irragionevole (e, quindi, colpevole) il ritardo – protrattosi alcuni anni – nello sgombero dell’immobile della M.E. da parte della Forza pubblica della quale era stato richiesto l’intervento. Il Ministero dell’Interno convenuto, dal quale detta Forza pubblica dipendeva, se avesse voluto invocare a giustificazione del proprio ritardo il mancato intervento dell’Amministrazione comunale (e con essa dei servizi sociali), avrebbe potuto se del caso chiamare in causa il Comune, in presenza dei presupposti di legge: la politica del Welfare compete all’Amministrazione pubblica, ma è estranea all’agire della Forza pubblica, che, se chiamata a dare esecuzione ad un provvedimento giurisdizionale (quale per l’appunto era l’ordine di reintegra del 28 agosto 2014), deve limitarsi a dare ad esso esecuzione nei tempi previsti e, in difetto della previsione di un termine, in tempi ragionevoli.

5. Inammissibili e comunque non fondati sono anche il quarto ed il quinto motivo di ricorso, che, in quanto relativi al quantum debeatur, sono qui trattati congiuntamente.

I motivi sono inammissibili, in quanto il Ministero dell’Interno in sede di atto di appello si era lamentato esclusivamente del fatto che non erano state dimostrate né la precedente locazione dell’immobile, né la sussistenza di proposte locative e neppure l’intenzione di procedere all’affitto dei locali.

Senonché, occorre qui ribadire (cfr. Cass. n. 18018/2024 e n. 20694/2018), che, in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio>>.

Orbene, nel caso di specie, la questione della durata del periodo di occupazione, come pure la questione della parziale liberazione dell’immobile, avvenuta in precedenza rispetto alla sua totale liberazione, non hanno formato oggetto di alcun specifico motivo di appello.

D’altronde, in relazione ai periodi di rinvio dell’esecuzione forzata, dovuti ad istanza della proprietaria stessa dell’immobile, la corte territoriale ha ritenuto che la semplice acquiescenza della proprietaria a brevi rinvii dell’esecuzione forzata, sempre accompagnata dalla raccomandazione di celerità, non fosse interpretabile come consenso al protrarsi dell’inadempimento della Forza pubblica richiesta.

Tale valutazione, essendo stata formulata ad esito di un giudizio di fatto, è incensurabile nella presente sede di legittimità.

I motivi in esame, oltre che inammissibili, sono anche infondati. Invero, come è noto, le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza n. 33645/2022, chiamata a pronunciarsi sulla questione della configurabilità come c.d. danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo dell’immobile, con particolare riferimento al danno emergente (o da perdita subita), ha enunciato i seguenti principi:

– «nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta»;

– «nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato»;

– «nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato».

In particolare, con riferimento al primo dei suddetti enunciati, le Sezioni Unite hanno chiarito (v. par. 4.9 della motivazione) che:

– «la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri …. L’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito. Al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento. La contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, cod. proc. civ. In presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, cod. proc. civ.) o mediante presunzioni semplici»;

– «Nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa»;

– «… va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n. 14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno. Si chiarisce così la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva>>.

In conformità a suddetti principi, nella impugnata sentenza la corte di merito – dopo aver ritenuto sussistente l’an del danno da perdita di utilità economica, specificamente locativa, derivante dal protratto mancato utilizzo del compendio immobiliare nelle more dell’occupazione; e dopo aver escluso la risarcibilità del danno morale – ha ritenuto corretto il ricorso all’equità <<considerata la peculiarità della situazione, in cui non potrebbe provarsi la perdita di specifiche occasioni di locazione di immobile che nessuno offrirebbe di locare (né materialmente potrebbe) proprio per la presenza degli occupanti>> e, ad esito di un giudizio di fatto, insindacabile nella presente sede, ha quantificato il danno patrimoniale subito dalla M.E. in euro 183.383,51, oltre interessi dalla data della sentenza fino al dì dell’effettivo soddisfo, avuto riguardo, oltre che alla protratta durata della procedura esecutiva, alla rilevata vocazione locativa dell’immobile ed alla sua estensione (pari a circa 700 mq).

In definitiva, nel solco tracciato dalle Sezioni Unite, i motivi quarto e quinto, qui in esame, sono rigettati.

6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del Ministero ricorrente al pagamento delle spese processuali, ma non consegue la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 bis e del comma 1 quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, per esserne istituzionalmente esente il Ministero (come affermato fin da Cass. n. 5955/2014).

Cass. civ., III, ord., 28.08.2025, n. 24053

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