Professioni – Dipendenti pubblici – Personale collocato in quiescenza, trattamento di fine servizio e dilazione del pagamento

Professioni – Dipendenti pubblici – Personale collocato in quiescenza, trattamento di fine servizio e dilazione del pagamento

A) La vicenda fattuale

A) La vicenda fattuale

1. Il ricorrente – ex dipendente del Ministero dell’Interno – Questura di Trieste, collocato in quiescenza a decorrere dal 31.05.2024 per raggiunti limiti di età – ha chiesto a questo Tribunale Amministrativo Regionale di accertare il suo diritto a percepire il trattamento di fine servizio (d’ora in poi T.F.S. per brevità) senza dilazioni e senza rateizzazioni e di condannare l’Istituto previdenziale intimato a corrispondergli senza dilazione l’intero importo di spettanza, oltre interessi e rivalutazione dal dì del dovuto al saldo.

1.1. In fatto ha dedotto che il T.F.S. a lui spettante dovrebbe essere determinato in € 64.301,04, come da prospetto di simulazione estratto dal sito MyINPS, e che tale importo, essendo superiore ad € 50.000,00 ma inferiore a € 100.000,00, dovrebbe essergli corrisposto in due tranche, la prima, al più tardi, al 01.09.2025 (avendo acquisito il diritto in data 1° giugno 2024) e la seconda al 01.09.2026, come previsto dall’art. 3, comma 2, del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito in legge, con modificazioni, con l. 28 maggio 1997, n. 140, così come da ultimo modificato dalla lett. b) del comma 484 dell’art. 1, l. 27 dicembre 2013, n. 147 [“Alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati,” a favore dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, oggi definite dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e al personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3, commi 1 e 2, del decreto stesso “l’ente erogatore provvede (…), nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Alla corresponsione agli aventi diritto l’ente provvede entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi”], e dall’art. 12, comma 7, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 30 luglio 2010, n. 122 [“A titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita, dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, con riferimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 il riconoscimento dell’indennità di buonuscita, dell’indennità premio di servizio, del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego è effettuato: (…) b) in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo; (…)”].

1.2. Il ricorrente – che nel motivare in ordine alla pretesa azionata ha rilevato l’illegittimità costituzionale delle norme poc’anzi richiamate che hanno disposto la rateizzazione e la dilazione per la liquidazione e la corresponsione del T.F.S., chiedendo, previamente, la rimessione degli atti innanzi alla Corte Costituzionale e la sospensione del presente giudizio – si è soffermato a ripercorrere l’evoluzione della normativa in materia di pagamento del trattamento di fine servizio in favore dei pubblici dipendenti, a partire dalla disciplina dettata dall’art. 26, comma 3, del d.P.R. n. 1032 del 1973, che stabiliva delle tempistiche per rendere possibile l’effettiva corresponsione del trattamento in questione «immediatamente dopo la data di cessazione dal servizio e comunque non oltre quindici giorni dalla data medesima», sino a quella delineata dalle norme dianzi indicate, cui è soggetto, e qui censurata.

1.3. Ha, quindi, posto l’accento sul significativo innalzamento disposto dalla disciplina vigente dei termini iniziali e finale per il versamento del trattamento di fine servizio, decorrenti dalla cessazione del rapporto di lavoro, pari, rispettivamente, a quindici mesi (12 mesi + 3 mesi) e, nell’ipotesi che direttamente e specificamente lo riguarda, a ventiquattro mesi.

1.3.1. Analogamente ha richiamato l’attenzione sulla disposta rateizzazione e, inoltre, sulla soglia, ora decisamente più bassa che in passato, che ne consente l’erogazione “in un unico importo annuale” (ovvero “se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro”).

1.4. Si è, quindi, soffermato – sulla base dell’insegnamento della Corte Costituzionale (sentenza n. 243 del 1993) – ad evidenziare la natura di retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale del trattamento in questione, tanto nel settore pubblico che in quello privato (avendo sia il T.F.R. che il T.F.S., comunque denominati, la medesima finalità di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva), dalla quale discende il requisito della necessaria tempestività dell’erogazione, quale corollario dell’art. 36 Costituzione.

1.4.1. Il tempo – ha osservato – assume, infatti, una rilevanza autonoma per due distinti profili:

– “il primo attiene al costo in termini economici del differimento dell’erogazione del TFS”, dato che il differimento non è accompagnato dalla corresponsione della rivalutazione monetaria, ma soltanto dagli interessi legali qualora l’erogazione dell’emolumento avvenga successivamente alla scadenza del termine annuale e dei successivi tre mesi. Sicché, in una situazione caratterizzata da un’inflazione molto elevata come quella attuale, finisce per incidere sulla stessa consistenza economica della prestazione in questione;

– “il secondo (…) attiene alla durata delle misure che comprimono il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio”, dato che la dilazione del pagamento del T.F.S. non è più una misura temporanea destinata a far fronte a una crisi contingente, ma è dotata di carattere strutturale con durata illimitata, tale da rendere “irragionevole e inesigibile il sacrificio imposto ai lavoratori collocati a riposo avendo raggiunto i limiti d’età o di servizio”.

1.5. Ha, indi, evidenziato che quanto sin qui argomentato circa la natura del trattamento di fine servizio e la necessità che lo stesso venga erogato con la necessaria tempestività ha trovato puntuale conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 159 del 25 giugno 2019 e, più recentemente, in quella n. 130 del 23 giugno 2023.

1.5.1. Segnatamente, ha ricordato che la Corte costituzionale, con la prima pronuncia, pur ritenendo non fondata la questione sottoposta al suo vaglio (i.e. “legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, nella l. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella l. 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione”), venendo in rilievo, in quel caso, una cessazione anticipata dal servizio, rispetto alla quale le disposizioni in materia di differimento e rateizzazione del T.F.S. sono state, per l’appunto, ritenute legittime in quanto esse mirano a scoraggiare l’esodo anticipato dei dipendenti pubblici e, in questo senso, le stesse appaiono eque e non discriminatorie, ha, però, incidentalmente ritenuto – proprio avuto riguardo alla tematica estranea a quel giudizio (ovvero «il pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto… nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio») – di «segnalare al Parlamento l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare», richiamando, in particolare, l’attenzione sul fatto che «la disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto, conquistate “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana».

1.5.2. A seguito del monito della Corte, lo Stato si è limitato ad introdurre la disciplina dell’anticipazione della prestazione di cui all’art. 23 del d.l. n. 4 del 2019, secondo cui è possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di € 45.000,00, dell’indennità di fine servizio maturata, garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto l’emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato dall’art. 4, comma 2, del d.m. 19 agosto 2020, in misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici maggiorato dello 0,40 per cento.

1.5.3. L’I.N.P.S., dal canto suo, con delibera del Consiglio di Amministrazione n. 219 del 9 novembre 2022, ha istituito l’anticipazione del T.F.S., prevedendo al riguardo la possibilità per gli iscritti alla gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali di usufruire di un finanziamento pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse pari all’1% fisso (a cui si aggiungono le spese di amministrazione), sempre dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del T.F.S.

1.5.4. Con la successiva sentenza n. 130 del 2023, vertente sulla medesima questione di diritto per contrasto con il principio di proporzionalità della retribuzione, espresso dall’art. 36 Cost., la Corte, ponendosi in continuità con la precedente pronuncia del 2019, della quale ha condiviso le premesse concettuali e riproposto le argomentazioni principali, ha stigmatizzato la mancanza di una «riforma specificamente volta a porre rimedio al vulnus costituzionale riscontrato…», osservando, in particolare, che la disciplina dell’anticipazione della prestazione introdotta dal legislatore nel 2019 e il finanziamento delineato dall’INPS di cui si è riferito ai precedenti par. 1.5.2 e 1.5.3 «investono solo indirettamente la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine servizio», limitandosi a riconoscere all’avente diritto la facoltà di evitare la percezione differita dell’indennità accedendo però al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo.

In particolare, ha rimarcato che «il legislatore non ha (…) espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all’origine della riscontrata violazione, né si è fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l’ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del 1996)».

A fronte di tale inerzia – pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate dal giudice a quo, in quanto «…Al vulnus costituzionale riscontrato con riferimento all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, questa Corte non può, allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore. Deve, infatti, considerarsi il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta; ciò che richiede che sia rimessa al legislatore la definizione della gradualità con cui il pur indefettibile intervento deve essere attuato, ad esempio, optando per una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri…» – ha rinnovato l’invito al legislatore a provvedere, non senza tralasciare, tuttavia, di porre l’accento sul fatto che: «La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata.

La lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento della corresponsione delle prestazioni in esame esige, infatti, un intervento riformatore prioritario, che contemperi l’indifferibilità della reductio ad legitimitatem con la necessità di inscrivere la spesa da essa comportata in un organico disegno finanziario che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

In proposito, questa Corte deve evidenziare, come in altre analoghe occasioni, “che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia” (da ultimo, sentenza n. 22 del 2022; si vedano anche sentenze n. 120 e n. 32 del 2021).

Accertata la necessità della espunzione della disciplina concernente tale differimento, va rilevato, quanto alla previsione del pagamento rateale del trattamento di fine servizio di cui all’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito – l’altra disposizione censurata – che il sistema cui essa ha dato luogo, essendo strutturato secondo una progressione graduale delle dilazioni, via via più ampie in proporzione all’incremento dell’ammontare della prestazione, da un lato, calibra il sacrificio economico derivante dalla percezione frazionata dell’indennità in modo tale da renderne esenti i beneficiari dei trattamenti più modesti; dall’altro, assicura ai titolari delle indennità ricadenti negli scaglioni via via più elevati la percezione immediata – rectius: che diverrà immediata solo all’esito della eliminazione del differimento previsto dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito – almeno di una parte della prestazione loro spettante.

Tuttavia, questa Corte non può esimersi dal considerare che tale disciplina – peraltro connessa, per espressa previsione della stessa norma censurata, alle esigenze, necessariamente contingenti, di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il descritto differimento, finisce per aggravare il vulnus sopra evidenziato».

1.6. In punto di fatto il ricorrente ha, inoltre, ulteriormente rappresentato che:

– quanto alle competenze del legislatore, nel giugno 2024 sono stati presentati due disegni di legge (atti C-1254 e C-1264), che non hanno però avuto seguito in ragione del parere negativo espresso dalla Ragioneria Generale dello Stato (parere allegato al ricorso);

– quanto alle competenze dell’I.N.P.S., il meccanismo dell’anticipazione introdotto con la richiamata deliberazione del C.d.A. n. 219/2022 (il quale peraltro ha consentito solo a pochi soggetti di accedere al beneficio stante la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili) è stato da ultimo abrogato;

– neanche l’altro istituto introdotto nel 2019 (ossia il finanziamento bancario) è satisfattivo, anche perché non esiste alcun obbligo per le banche di contrarre e comunque al beneficio non potrebbero accedere i c.d. cattivi pagatori (in generale, poi, questi strumenti sono stati definiti dalla stessa Corte Costituzionale di per sé non idonei a superare i profili di incostituzionalità delle norme che prevedono la dilazione del pagamento e la rateizzazione del T.F.S.).

1.7. Sicché – richiamando l’attenzione sul fatto che nonostante il lungo lasso di tempo decorso dalla prima sentenza monito e anche, oramai, dalla seconda che ha accertato la illegittimità della norma, pur non dichiarandola, e sulla perduranza della situazione di incostituzionalità, tale da rendere non più tollerabile il vuoto di tutela costituzionale che ne deriva e imponendosi, anzi, l’intervento della Corte – ha quindi, come detto, chiesto l’accertamento del diritto a percepire il T.F.S. senza dilazioni e senza rateizzazioni e la condanna dell’Istituto previdenziale intimato a corrispondergli senza dilazione l’intero importo di spettanza oltre interessi e rivalutazione dal dì del dovuto al saldo, previa nuova rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modifiche e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modifiche, per (manifesta e reiterata) violazione dell’art. 36 Cost. e dell’art. 1 Protocollo 1 CEDU.

1.7.1. Il ricorrente ha dedotto, segnatamente, che:

– l’art. 36 Cost. statuisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. La retribuzione, pertanto, da un lato non deve mai perdere il suo collegamento con la prestazione lavorativa svolta e, dall’altro, deve essere adeguata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost., avendo a riguardo non solo alla sua entità, ma anche alla tempestività della sua corresponsione. Questi principi, come detto, si applicano anche al T.F.S. in ragione della sua natura di retribuzione differita, funzionale fra l’altro ad accompagnare al lavoratore nel momento delicato della sua uscita dalla vita lavorativa. La Corte Costituzionale ha in più occasioni ribadito che tutte le misure che incidono sul diritto alla retribuzione per superare il vaglio di costituzionalità debbono essere giustificare da comprovate ragioni di interesse generale e devono avere efficacia limitata nel tempo (sentenze n. 178 del 2015 e n. 173 del 2016). Nel caso delle modalità di corresponsione del T.F.S. questi paletti sono stati ampiamente travalicati, visto che i sacrifici imposti agli aventi diritto a tale trattamento sono ormai divenuti strutturali e non più legati ad emergenze finanziarie;

– per costante giurisprudenza della Corte EDU (Fabian c. Ungheria [GC], n. 78117/13, 5 settembre 2017; Stefanetti, n. 21838/10, 15 settembre 2014) le pensioni e conseguentemente anche il trattamento di fine servizio maturato per effetto della vita lavorativa costituiscono un “bene” ai sensi della Convenzione. Secondo le norme generali applicabili, il diritto matura ed entra a far parte del patrimonio del titolare al momento in cui si soddisfano i requisiti per il pensionamento. Le prestazioni non ancora percepite rientrano nella sfera di applicazione dell’art. 1 Protocollo 1 allegato alla Convenzione, in quanto espressione del diritto, già maturato e già parte del patrimonio del ricorrente fin dal momento del raggiungimento dei requisiti necessari, e in ogni caso debbono essere considerate espressione di una “legittima aspettativa”, esplicitamente riconosciuta e tutelata dal diritto costituzionale interno (Kopecký c. Slovacchia [GC], n. 44912/98, 28/9/2004; Plalam SPA c. Italia, n. 16021/02, 8/2/2011). In casi del genere la Corte EDU verifica se il diritto dell’interessato di beneficiare delle prestazioni previdenziali e pensionistiche sia stato violato in misura tale da comprometterne l’essenza (Domalewski c. Polonia (dec.); Kjartan Ásmundsson c. Islanda, § 39; Wieczorek c. Polonia, § 57; Rasmussen c. Polonia, § 75; Valkov e altri c. Bulgaria, §§ 91 e 97; Maggio e altri c. Italia, § 63; Stefanetti e altri c. Italia, § 55).

2. L’I.N.P.S., seppur ritualmente evocato in giudizio, non si è costituito.

3. In prossimità dell’udienza pubblica del 15 luglio 2025, fissata per la trattazione del ricorso, il ricorrente ha chiesto:

– in via principale, di sospendere il presente giudizio in attesa della definizione della questione di legittimità costituzionale già rimessa alla Corte Costituzionale dalle ordinanze n. 105/2025 del T.A.R. Marche e n. 4169/2025 del T.A.R. Lazio – Roma;

– in subordine, di trattenere la causa in decisione e, richiamando le conclusioni già rassegnate nel ricorso, previa dichiarazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale illustrata, sospendere il giudizio e rimettere gli atti innanzi alla Corte Costituzionale per la declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni individuate e per l’effetto accertare e dichiarare il diritto del ricorrente, cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, a percepire il T.F.S. senza dilazioni e senza rateizzazione e la condanna del resistente a corrispondere senza dilazione l’intero importo di spettanza, oltre interessi e rivalutazione dal dì del dovuto al saldo.

4. Celebrata la detta udienza, la causa è stata introitata per la decisione.

4.1. All’esito della successiva camera di consiglio, questo Tribunale Amministrativo Regionale, ritenendo preferibile rimettere a propria volta alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale delle norme dianzi indicate prospettata da parte ricorrente e sospendere il giudizio, ha pronunciato la seguente ordinanza, ravvisando, invero, sussistere i presupposti di cui all’art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, nella preliminare condivisione di quanto osservato dal T.A.R. Marche, al par. 6.2.2., della propria ordinanza di rimessione («Si deve… convenire con il ricorrente sul fatto che nella specie la Corte ha adottato una c.d. sentenza monito, ossia ha accertato l’incostituzionalità delle norme di legge sottoposte al suo giudizio, ma non l’ha dichiarata formalmente sul presupposto che la riforma organica della materia compete solo al legislatore, venendo in rilievo vari interessi di rango costituzionale la cui ottimale composizione implica delicate valutazioni di ordine politico, relative anzitutto al procacciamento della provvista finanziaria necessaria per ricondurre il sistema alla legittimità costituzionale.

Ovviamente le c.d. sentenze monito, in assenza di una specifica disposizione costituzionale che ne disegni la relativa disciplina, da un lato non vincolano il legislatore (non esiste infatti uno strumento tecnico in forza del quale si possa obbligare il legislatore ad adeguarsi ad una pronuncia della Corte), dall’altro lato pongono due questioni preliminari, relative, rispettivamente, all’accertamento della “inottemperanza” e al termine entro il quale il legislatore avrebbe dovuto adeguarsi. Infatti, in presenza di “sentenze monito” a cui non abbia fatto seguito alcun intervento del legislatore è necessario verificare (e tale verifica compete ovviamente solo alla Corte Costituzionale):

– se si è effettivamente in presenza di una “inottemperanza” o se esistono ragioni che giustificano l’inattività del legislatore;

– se tale “inottemperanza” si è protratta per un periodo di tempo tale da costituire nella sostanza un’elusione delle pronunce della Corte.

Quanto al primo profilo, e ribadito che le norme applicate nella specie dall’I.N.P.S. non risultano ad oggi modificate, va osservato che nella sentenza n. 130 del 2023 la Corte Costituzionale ha già evidenziato che le misure finalizzate a consentire all’ex dipendente di chiedere anticipazioni del T.F.S. o finanziamenti bancari previa cessione pro solvendo del credito non sono risolutive perché “…non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si limitano a riconoscere all’avente diritto la facoltà di evitare la percezione differita dell’indennità accedendo però al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo…”.

Il Tribunale ritiene dunque che vi siano fondati argomenti per sostenere che allo stato il legislatore non si è oggettivamente adeguato alle sentenze n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023 (mentre in questa sede non sono valutabili eventuali ragioni che giustifichino tale inerzia).

Quanto al secondo profilo, per un verso è del tutto ovvio che non si può pretendere un adeguamento immediato da parte del legislatore (stanti anche i tempi tecnici necessari per l’approvazione di una proposta di legge), per altro verso è altrettanto ovvio che le decisioni della Corte, per non tradursi di fatto in grida di manzoniana memoria, debbono essere ottemperate in un tempo ragionevole, che però non può essere stabilito dal giudice di merito, ma solo dal Giudice delle leggi»).

B) Rilevanza della questione

5. La questione è rilevante per le seguenti ragioni.

5.1. Al fine del decidere vengono in rilievo le disposizioni di cui all’art. 3, comma 2, del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito in legge, con modificazioni, con l. 28 maggio 1997, n. 140, così come da ultimo modificato dalla lett. b) del comma 484 dell’art. 1, l. 27 dicembre 2013, n. 147 [“Alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati,” a favore dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, oggi definite dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e al personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3, commi 1 e 2, del decreto stesso “l’ente erogatore provvede (…), nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro. Alla corresponsione agli aventi diritto l’ente provvede entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi”], e all’art. 12, comma 7, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 30 luglio 2010, n. 122 [“A titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita, dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento, con riferimento ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 il riconoscimento dell’indennità di buonuscita, dell’indennità premio di servizio, del trattamento di fine rapporto e di ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego è effettuato: (…) b) in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo; (…)”].

5.2. Trattasi di disposizioni che, così come formulate, sono impeditive all’accoglimento della domanda azionata dal ricorrente, volta all’accertamento del diritto, in quanto cessato dal servizio per raggiunti limiti di età in data 31.05.2024, a percepire l’importo di spettanza a titolo di T.F.S. senza dilazioni e senza rateizzazione e alla, conseguente, condanna dell’Istituto stesso a corrispondergli senza dilazione l’intero importo dovuto, oltre interessi e rivalutazione.

5.2.1. Secondo il loro inequivoco tenore testuale, insuscettibile di un’interpretazione adeguatrice e/o costituzionalmente orientata, il ricorso dovrebbe, infatti, essere respinto poiché le stesse prevedono, per l’appunto, le dilazioni e la rateizzazione dal medesimo contestate.

5.3. Laddove venisse, tuttavia, accolta la questione di legittimità costituzionale dianzi sinteticamente prospettata il presente giudizio avrebbe un esito diverso, in quanto la dichiarata incostituzionalità delle norme oggetto di applicazione – che, si sottolinea, dettano, con precisione, tempi (dilatori) per la liquidazione e la corresponsione del T.F.S. e stabiliscono, in ogni caso, la rateazione per l’erogazione di importi come quello di stimata spettanza del ricorrente – determinerebbe, per l’appunto, l’accertamento del diritto del medesimo ad ottenere quanto di spettanza a titolo di T.F.S. nei sensi auspicati e la conseguente condanna dell’Istituto intimato a corrisponderglielo negli stessi termini e con le medesime modalità.

5.4. Un tanto soddisfa, ad avviso del Collegio, il presupposto della rilevanza della questione, ai sensi dell’art. 23, c. 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, secondo il quale è necessario che «il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale» della norma primaria contestata.

C) Sulla non manifesta infondatezza della questione

6. Il Collegio ritiene, inoltre, non manifestamente infondato, ai sensi della norma dianzi indicata, il denunciato conflitto delle norme che qui vengono in rilievo con il principio di giusta e tempestiva retribuzione, radicato nell’art. 36 della Costituzione, e di tutela della sfera patrimoniale del lavoratore, ai sensi dell’art. 117, comma primo, della Carta costituzionale in relazione al parametro interposto dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), laddove il trattamento di fine servizio costituisce espressione di una legittima aspettativa della persona, già entrata a far parte del suo patrimonio per effetto del raggiungimento dei requisiti necessari.

6.1. In tal senso, s’appalesano, invero, condivisibili le deduzioni svolte dal ricorrente e di cui s’è riferito ai §§ 1.7 e 1.7.1, alla cui lettura si rinvia.

6.2. La Corte Costituzionale ha, peraltro, più volte affermato il principio per il quale una misura quale quella in esame (che – come sottolineato nella sentenza n. 159 del 2019 – trovava originaria connessione giustificativa “con il consolidamento dei conti pubblici”), per superare lo scrutinio di costituzionalità, non può riguardare un arco temporale indefinito, ma deve essere giustificato da una crisi contingente e deve atteggiarsi quale misura una tantum (sent. n. 178 del 2015 e n. 173 del 2016).

6.3. In ragione dell’inerzia del legislatore nell’adeguarsi alle sentenze della Corte Costituzionale di cui innanzi sono stati riportati ampi stralci, il diritto al T.F.S. risulta, invero, violato in misura tale da snaturarne il contenuto, sia in ragione della rateizzazione del pagamento, sia alla luce del fatto che la dilazione temporale non è compensata dalla rivalutazione monetaria delle somme spettanti all’ex dipendente pubblico. Ne consegue che la retribuzione differita viene ad essere di fatto non più proporzionata e adeguata rispetto all’attività lavorativa svolta e ai contributi versati.

6.3.1. Giova, infatti, osservare – come già evidenziato nel corso dell’esposizione della vicenda fattuale – che il trattamento di fine servizio o rapporto costituisce una componente del compenso che il lavoratore ha conseguito come corrispettivo dell’attività lavorativa e che fa parte integrante del suo patrimonio, tanto è vero che in caso di decesso prematuro del dipendente l’emolumento viene erogato ai congiunti superstiti. Inoltre il T.F.S. spetta a prescindere dalla causa di cessazione del rapporto di lavoro e dall’accertamento dello stato di bisogno dell’avente diritto. I trattamenti di fine servizio sono ispirati al criterio di corrispettività e restituiscono al lavoratore, alla cessazione del rapporto, una somma certa e di ammontare ben definito (al riguardo si tiene infatti conto della retribuzione percepita in servizio e della durata del rapporto di lavoro), che viene definitivamente acquisita al suo patrimonio e devoluta per successione legittima o testamentaria in caso di decesso del lavoratore in servizio.

6.3.2. Ne deriva che il trattamento di fine servizio deve essere erogato con la necessaria tempestività, questa essendo un corollario indispensabile dei principi di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione sanciti dall’art. 36 Cost. e delle esigenze di tutela della sfera patrimoniale del lavoratore a garanzia della dignità della persona umana che trova fondamento nell’art. 1 Prot. n. 1 CEDU, atteso che il trattamento di fine servizio costituisce espressione di una legittima aspettativa della persona, già entrata a far parte del suo patrimonio per effetto del raggiungimento dei requisiti necessari.

7. Va dunque sollevata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2, del d.l. n. 79/1997, convertito nella l. n. 140/1997, e s.m.i., e 12, comma 7, del d.l. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, nella l. n. 122/2010, e s.m.i., per il profilo relativo all’omesso adeguamento delle norme stesse alle sentenze della Corte Costituzionale n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023, visto che l’inerzia del legislatore reitera la lesione sostanziale del diritto del dipendente pubblico cessato dal servizio per raggiunti limiti di età alla percezione di una retribuzione (in questo caso differita) sufficiente e proporzionata all’attività lavorativa svolta dall’interessato (art. 36 Cost.). La lesione sostanziale discende dalla dilazione temporale e dalla rateizzazione del pagamento della somma dovuta, non accompagnate da un meccanismo di adeguamento degli importi pagati all’andamento dell’inflazione.

8. Laddove si volesse invece ritenere che le sentenze monito non vincolano né il legislatore né la stessa Corte Costituzionale, vanno nuovamente sollevate le medesime questioni di legittimità costituzionale delle prefate disposizioni di legge, nella parte in cui le stesse prevedono – come misure ormai strutturali e non più legate a specifiche emergenze finanziarie – la dilazione dell’effettiva erogazione del T.F.S. e (nell’ipotesi di importi superiori a € 50.000,00, come è nel caso dell’odierno ricorrente) la rateizzazione dei pagamenti, non accompagnate dalla rivalutazione delle somme via via erogate all’ex dipendente pubblico cessato dal servizio per raggiunti limiti di età.

8.1. Tali disposizioni confliggono con l’art. 36 Cost. per i profili già ampiamente evidenziati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 130 del 2023 e riepilogati nel § 1.5.4 della presente ordinanza, nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU.

9. Per le ragioni sin qui esposte, il Collegio, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dianzi prospettata per il profilo relativo all’omesso adeguamento delle norme medesime alle sentenze della Corte Costituzionale n. 159 del 2019 e n. 130 del 2023 e, in ogni caso, per contrasto con l’art. 36 Cost., nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU, la solleva, ai sensi dell’art. 23 della legge n. 87 dell’11 maggio 1983, e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sospendendo, al contempo, il giudizio in corso.

10. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese è riservata alla decisione definitiva.

TAR FRIULI VENEZIA GIULIA, I – ordinanza 07.08.2025 n. 350 

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