I. – L’incompatibilità della richiesta di rinvio con l’art. 73 co. 3 c.p.a.
I.1. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha avvertito, ai sensi dell’art. 73 co.3 c.p.a., il difensore dell’appellante e l’avvocato dello Stato presenti all’udienza pubblica del 20 febbraio 2025 del possibile annullamento dell’art. 7 del regolamento comunale di San Biagio Platani sull’installazione delle antenne da parte del T.A.R. per la Sicilia, sede di Palermo, con la pronuncia della sentenza n. 1505/2022.
Il difensore del Comune appellante ha chiesto un rinvio per dedurre.
I.2. Al riguardo deve, preliminarmente, escludersi la concessione del termine a difesa richiesto dal difensore dell’appellante in udienza per controdedurre in merito alla questione di rito rilevata d’ufficio.
Ed invero, secondo quanto previsto dall’art. 73, comma 3, c.p.a., “Se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice la indica in udienza dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest’ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie“.
La concessione di un termine a difesa è, dunque, prevista dal codice soltanto nel caso in cui la questione sulla quale occorre instaurare il contraddittorio abbia carattere dirimente ai fini della decisione e solo qualora il rilievo officioso venga delibato, per la prima volta, in camera di consiglio successivamente al passaggio in decisione della controversia, come del resto si arguisce dall’inequivoco tenore letterale della norma (“Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest’ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie“: e non si tratta neppure di un rinvio, né di una nuova fissazione della causa in udienza, ma solo dell’assegnazione di un breve termine per note difensive scritte).
La concessione del termine a difesa costituisce, invece, un’eventualità del tutto eccezionale e, soprattutto, discrezionalmente rimessa alla decisione del Collegio, quando la questione in relazione alla quale viene sollecitato il contraddittorio sia invece rilevata in sede di discussione, limitandosi la norma a statuire che la quaestio iuris venga, in questo caso, soltanto indicata in udienza dandone atto a verbale (Consiglio di Stato, sez. IV, 16/03/2020, n.1878). La parte, infatti, può e deve svolgere le proprie argomentazioni sulla questione indicata dal giudice nell’ambito della discussione orale della causa nella stessa udienza.
Al riguardo occorre precisare che la richiesta di un termine a difesa non è stata motivata da ragioni particolari giustificanti una dilazione temporale dei tempi di decisione (evenienza, comunque, non normata e da ritenere, perciò, intrinsecamente eccezionale e dunque certamente non obbligatoria).
Né, peraltro, sarebbe stato possibile rinviare la decisione ad altra udienza, considerato che secondo quanto previsto dall’art. 73 comma 1 bis c.p.a., a seguito delle novità introdotte con l’articolo 17, comma 7, lettera a), punto 2), del D.L. 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2021, n. 113 e successivamente modificato dall’articolo 7, comma 2-bis, del D.L. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla Legge 29 giugno 2022, n. 79, il rinvio della causa è consentito soltanto in casi eccezionali, il cui apprezzamento è rimesso alla discrezionale valutazione del giudice.
Come già chiarito dal Consiglio di Stato (sez. V, 29/05/2023, n. 5241), la richiamata recente disposizione costituisce una novità introdotta nell’ambito del più ampio contesto di riforma del processo amministrativo volto a contrastare la formazione di nuovo arretrato nella giustizia amministrativa che incide, a sua volta, sul grado di efficienza e di affidabilità dell’intero sistema economico nazionale, chiamato peraltro a fronteggiare le nuove prospettive del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.).
Con la disposizione in esame il legislatore ha, infatti, contemperato l’interesse delle parti a non incorrere, a sorpresa, nella c.d. “sentenza della terza via” (come prima del codice ben poteva accadere) con l’interesse pubblico alla celerità della decisione, in coerenza con il principio della ragionevole durata del processo (antitetico a quello, particolare ed eccezionale, di protrazione della trattazione della causa): e, nel realizzare tale contemperamento, è stata preferita la soluzione di obbligare il giudice a sottoporre al contraddittorio delle parti le questioni rilevate d’ufficio, al contempo limitando il contraddittorio alle difese orali da espletare nell’ambito della medesima udienza di discussione della causa.
Di conseguenza, l’ordinamento non riconosce affatto alle parti un diritto al rinvio della discussione e della decisione, anche perché il principio dispositivo nel sistema processuale amministrativo è contemperato con l’esigenza di certezza del rapporto giuridico dedotto in giudizio e con la natura degli interessi pubblici di volta in volta coinvolti onde assicurare agli stessi, nel più breve tempo possibile, un definitivo assetto.
Le parti hanno, dunque, la disponibilità delle proprie pretese sostanziali e, in funzione di esse, del diritto di difesa in giudizio, ma non spetta loro anche la disponibilità dell’organizzazione e dei tempi del processo che, invece, compete al giudice nella prospettiva di una celere definizione del giudizio nel rispetto delle esigenze dipendenti da un corretto esercizio del diritto di difesa di tutte le parti in causa.
La decisione finale sui tempi della decisione della controversia spetta, quindi, al giudice.
Non ricorrono, pertanto, i presupposti per la concessione del richiesto termine a difesa.
II. – L’efficacia erga omnes del giudicato di annullamento del regolamento.
II.1. Come noto, l’Adunanza Plenaria con le sentenze n. 4 e 5 del 27 febbraio 2019 ha esaminato il tema degli effetti delle sentenze di annullamento e, in generale, degli effetti del giudicato amministrativo nei confronti dei terzi, precisando che, pur operando il giudicato amministrativo soltanto inter partes secondo quanto previsto per il giudicato civile dall’art. 2909 c.c. al punto che la sentenza amministrativa di annullamento ha di regola effetti limitati tra le parti del giudizio, vi sono, tuttavia, casi in cui eccezionalmente il giudicato produce effetti nei confronti dei terzi che non hanno impugnato il provvedimento amministrativo giudizialmente annullato.
Si tratta di casi eccezionali che si giustificano in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto impugnato o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame altrettanto indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile, logicamente ancor prima che giuridicamente, che l’atto annullato possa continuare a esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato.
Secondo, quindi, l’Adunanza Plenaria, produce effetti ultra partes:
a) l’annullamento di un regolamento poiché l’efficacia erga omnes si desume dall’art.14, comma 3, D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, che, proprio presupponendo siffatta efficacia, impone la pubblicazione del decreto decisorio di un ricorso straordinario di annullamento di un atto normativo nelle stesse forme dell’atto annullato;
b) l’annullamento di un atto plurimo inscindibile (ad es. il decreto di esproprio di un bene in comunione);
c) l’annullamento di un atto plurimo scindibile, se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari (ad es. il decreto di approvazione di una graduatoria concorsuale travolto in ragione di un vizio comune);
d) l’annullamento di un atto che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti (ad es. il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale).
In tutti i casi, tuttavia, l’inscindibilità riguarda solo l’effetto di annullamento (vale a dire l’effetto caducatorio), perché è soltanto rispetto a esso che si realizza la sopra richiamata situazione di incompatibilità logica che un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare a esistere per altri.
L’Adunanza Plenaria, con le sentenze n. 4 e n. 5 del 2019, ha, quindi, concluso affermando il seguente principio di diritto: «Il giudicato amministrativo ha di regola effetti limitati alle parti del giudizio e non produce effetti a favore dei cointeressati che non abbiamo tempestivamente impugnato. I casi di giudicato con effetti ultra partes sono eccezionali e si giustificano in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame altrettanto inscindibile fra le posizione dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile, logicamente, ancor prima che giuridicamente, che l’atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato. Per tali ragioni deve escludersi che l’indivisibilità possa operare con riferimento a effetti del giudicato diversi da quelli caducanti e, quindi, per gli effetti conformativi, ordinatori, additivi o di accertamento della fondatezza della pretesa azionata, che operano solo nei confronti delle parti del giudizio».
Con riguardo al caso in esame, l’impugnato provvedimento di diniego è esclusivamente motivato in ragione di quanto previsto dall’art. 7 del regolamento comunale, affermandosi, infatti, che “l’istanza per la realizzazione di un’infrastruttura in oggetto da mettere a disposizione ai gestori di telefonia mobile per garantire e migliorare il servizio pubblico di telecomunicazioni, risulta in contrasto con l’art. 7 del regolamento comunale per disciplinare l’installazione di antenne per telefonia mobile approvato in data 22.01.2013 con Delibera del Consiglio Comunale n. 02, che prevede una distanza minima di 700 mt dalla Zona C1 del vigente PRG”.
L’unica ragione ostativa all’accoglimento dell’istanza della Inwit, pertanto, è l’art. 7 del citato regolamento comunale che però, con sentenza n. 1505/2022 passata in giudicato per mancata impugnazione, era già stato annullato dal T.A.R. per la Sicilia, sede di Palermo.
Gli effetti di siffatto annullamento devono ritenersi prodottisi erga omnes e non limitati soltanto alle parti di quel giudizio, in ragione della pacifica natura normativa del regolamento annullato, secondo i richiamati principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria.
Pertanto, con il provvedimento in questa sede impugnato assunto al protocollo del 13 aprile 2023 n. 3651, il Comune di San Biagio Platani ha applicato una norma regolamentare non più esistente poiché già annullata dal T.A.R. l’anno prima.
Ne consegue la fondatezza del motivo dedotto dalla Inwit con il ricorso di primo grado e accolto dal T.A.R. per la Sicilia, sede di Palermo, con la sentenza in questa sede appellata.
III. – Il primo motivo di appello.
III.1. Con il primo motivo il Comune contesta la decisione del Tribunale dalla controparte adito, incentrando le proprie censure sulla motivazione della richiamata sentenza n. 1505/2022 che ha annullato il menzionato regolamento comunale.
III.2. La Inwit ha eccepito l’inammissibilità di siffatto motivo poiché in contrasto con il contenuto di una statuizione giurisdizionale ormai divenuta definitiva e, quindi, non più controvertibile.
III.3. L’eccezione della Inwit è fondata, sebbene il suo accoglimento dia luogo al rigetto dell’odierno motivo di gravame, piuttosto che alla declaratoria di sua inammissibilità: e ciò perché si ritiene – sotto il profilo dogmatico – che la formazione del giudicato non precluda in assoluto la cognizione sulla questione definitivamente decisa, bensì vincoli ogni altro giudice a conformarsi interamente, in ogni ulteriore decisione, a quell’ “accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato” che – ex art. 2909 cod. civ. – “fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa” (o, come nella specie, erga omnes).
Invero, il T.A.R. ha riportato uno stralcio della motivazione della sentenza n. 1505/2022 soltanto per affermare la fondatezza del motivo dedotto dalla ricorrente, precisando che l’art. 7 del regolamento comunale in questione era stato già annullato e non, invece, per ribadire la correttezza di quella decisione: giacché il giudicato è corretto per definizione, implicando una cristallizzazione della realtà giuridica a cui ogni altro giudice è tenuto a conformarsi (giacché la res iudicata facit de albo nigro, aequat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vincola et falsum in verum mutat).
A prescindere, infatti, che l’annullamento dell’art. 7 del citato regolamento comunale sia stato correttamente disposto o meno dal T.A.R., si tratta di un fatto giuridicamente avvenuto e sancito in una sentenza passata in giudicato che determina la definitiva inefficacia (nella specie erga omnes) di una disposizione normativa di tipo regolamentare.
Non può, dunque, il Comune con il proposto appello rimettere in discussione una decisione ormai definitiva (che, unicamente, avrebbe avuto la possibilità, a suo tempo, di impugnare).
III.4. Il Comune replica all’eccezione in esame deducendo che, in realtà, il regolamento in questione sarebbe stato approvato con la delibera della Giunta Municipale n. 83 del 31 dicembre 2012 che non sarebbe stata mai impugnata, essendo stata, infatti, annullata dal T.A.R. con la sentenza n. 1505/2022 la deliberazione del Consiglio Comunale del 22 gennaio 2013, n. 2, che si era limitata ad apportare limitate modifiche alla citata delibera della Giunta Municipale.
III.5. La difesa non coglie nel segno.
Il Collegio, infatti, rileva, anzitutto, che il Comune, non costituendosi nel giudizio dinanzi al T.A.R., non ha prodotto, peraltro neanche in questa sede, il testo delle due delibere per argomentare la fondatezza dell’assunto sostenuto.
In secondo luogo, occorre osservare che, quand’anche la tesi sostenuta dall’Ente locale fosse vera, il ricorso della Inwit sarebbe, comunque, fondato poiché il Comune stesso, con il provvedimento impugnato del 2023, ha applicato non l’art. 7 del regolamento approvato con la delibera della Giunta Municipale n. 83 del 31 dicembre 2012, ma l’art. 7 del regolamento approvato con la deliberazione del Consiglio Comunale del 22 gennaio 2013, n. 2, già annullato dal T.A.R. l’anno prima con la sentenza n. 1505/2022.
Sostenere, comunque, che nel provvedimento impugnato il Comune abbia inteso riferirsi a un regolamento approvato con una deliberazione diversa da quella ivi menzionata costituirebbe un’integrazione postuma della motivazione del tutto inammissibile.
Il primo motivo di appello è, pertanto, infondato.
IV. – Il secondo motivo di appello.
IV.1. Con il secondo motivo di appello si contesta la decisione assunta dal T.A.R. per omesso rilievo d’ufficio dell’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse derivante dall’omessa impugnazione della deliberazione della Giunta Municipale n. 83 del 31 dicembre 2012, con il quale il Comune di San Biagio Platani avrebbe adottato il regolamento in questione.
IV.2. Il motivo è infondato per le medesime ragioni anzidette.
Il provvedimento impugnato, infatti, non menziona la deliberazione della Giunta Municipale del 31 dicembre 2012, n. 83, ma quella del Consiglio Comunale del 22 gennaio 2013, n. 2.
Pertanto, non sussisteva alcun onere di impugnare una delibera non costituente atto presupposto del controverso provvedimento di diniego.
V. – Il terzo motivo di appello.
V.1. Con il terzo motivo si censura la sentenza per l’omessa ponderazione dell’assunta gravità degli effetti derivanti dalla violazione dell’art. 87, comma 6, del D. Lgs. n. 259/2003 lamentata nel caso di specie dall’ARPA Sicilia.
Secondo l’appellante, invero, dalla disamina del parere reso dall’ARPA Sicilia in merito all’istanza dell’appellata, prodotto nel giudizio di primo grado, si evincerebbero molteplici anomalie e omissioni che caratterizzerebbero il procedimento presupposto al punto da inficiarne la sua legittimità.
V.2. Il motivo è infondato poiché preordinato a integrare le ragioni di diniego esplicitate nel provvedimento impugnato.
Al riguardo merita ribadirsi che, com’è noto, la motivazione deve precedere e non seguire il provvedimento, a tutela, oltre che del buon andamento e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario, degli stessi principi di parità delle parti e giusto processo (art. 2 c.p.a.) e di pienezza della tutela secondo il diritto europeo (art. 1 c.p.a.), i quali convergono nella centralità della motivazione quale presidio del diritto costituzionale di difesa.
È dunque inammissibile un’integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi. La motivazione costituisce, infatti, il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti (Consiglio di Stato, sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5984). In particolare, «la motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della l. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti (si veda Cons. St., Sez. III, 7.4.2014, n. 1629), non potendo perciò il suo difetto o la sua inadeguatezza essere in alcun modo assimilati alla mera violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma. La motivazione del provvedimento costituisce infatti “l’essenza e il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata” (Consiglio di Stato, III, 30 aprile 2014, n. 2247), e non può certo essere emendata o integrata, quasi fosse una formula vuota o una pagina bianca, da una successiva motivazione postuma, prospettata ad hoc dall’Amministrazione resistente nel corso del giudizio» (Consiglio di Stato, sez. V, 10 settembre 2018, n. 5291).
Il giudice, infatti, qualora escludesse l’illegittimità del provvedimento impugnato sulla base di rationes decidendi che non trovano fondamento nell’impianto motivazionale dell’atto amministrativo, incorrerebbe nel vizio di ultrapetizione, oltre che nella violazione del principio di separazione dei poteri ex art. 34, comma 2, c.p.a..
Sotto il primo profilo, il principio della domanda di cui agli artt. 99 c.p.c. e 2907 c.c. – espressione del potere dispositivo delle parti, completamento del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato in base alla regula juris di cui all’art. 112 c.p.c. e pacificamente applicabile anche al processo amministrativo – comporta che sussiste il vizio di ultrapetizione, quando l’accertamento compiuto in sentenza finisce per riguardare un petitum e una causa petendi nuovi e diversi rispetto a quelli fatti valere nel ricorso e sottoposti dalle parti all’esame del giudice.
La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato emerge, altresì, qualora, ammettendo una integrazione postuma della motivazione sottesa al provvedimento, il giudice statuisca su una fattispecie oggettivamente diversa da quella prospettata nel provvedimento gravato, con evidente lesione dei diritti di difesa della controparte (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 gennaio 2020, n. 28).
Sotto il secondo profilo, attinente alla violazione del principio di separazione dei poteri, il giudice, qualora formuli argomentazioni a sostegno del provvedimento impugnato che ne alterino l’impianto motivazionale, emette una pronuncia su poteri non ancora esercitati, in violazione del disposto di cui all’art. 34, comma 2, c.p.a., venendo esaminata la legittimità di nuove questioni a sostegno della decisione censurata, non previamente valutate dal competente organo amministrativo.
Le predette argomentazioni valgono – a fortiori – qualora con le difese processuali il difensore dell’Amministrazione integri la motivazione del provvedimento impugnato.
V.3. Introducendo, quindi, ragioni ulteriori rispetto a quelle indicate nella motivazione del provvedimento impugnato, il motivo non può trovare accoglimento.
VI – Il quarto motivo di appello.
VI.1. Con il quarto motivo di appello si lamenta la nullità della sentenza impugnata per carenza di motivazione.
Secondo l’appellante, infatti, il T.A.R. avrebbe adottato una decisione esclusivamente motivata per relationem con il richiamo alla sentenza n. 1505/2022 e, quindi, non avrebbe esplicitato una propria valutazione sull’ammissibilità e fondatezza del ricorso della Inwit.
VI.2. Il motivo è infondato.
L’art. 74 c.p.c. statuisce che “Nel caso in cui ravvisi la manifesta fondatezza ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, il giudice decide con sentenza in forma semplificata. La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme”.
La tecnica redazionale seguita dal T.A.R. mediante il richiamo a un precedente giurisprudenziale è, quindi, perfettamente legittima, essendo consentita dall’ordinamento.
Il richiamo, peraltro, era finalizzato ad affermare l’inesistenza della norma regolamentare applicata dal Comune con il provvedimento impugnato, in quanto già annullata da una precedente sentenza.
Non sussiste, pertanto, il dedotto vizio di carente o apparente motivazione della decisione assunta dal T.A.R..
VII. – Le spese processuali.
VII.1. Le spese del grado seguono la soccombenza e, avuto riguardo all’attività difensiva espletata dall’appellata, vanno liquidate in suo favore ed a carico dell’Amministrazione appellante nella misura di € 3.000,00 oltre rimborso forfettario, C.P.A. e I.V.A., come per legge.
CGA, GIURISDIZIONALE – sentenza 18.08.2025 n. 669