1.– Il Tribunale di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 30 del 2025) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nella parte in cui – per come interpretato dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 30994 del 2024 – fa discendere dalla violazione del divieto di cumulo della pensione anticipata “quota 100” con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, nel periodo compreso fra il primo giorno di decorrenza della pensione anticipata e la maturazione dei requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, la sospensione dell’erogazione del trattamento per un’intera annualità e non solo limitatamente ai mesi di effettivo svolgimento di attività di lavoro subordinato, anche quando quest’ultima abbia luogo per periodi molto limitati (per una o poche giornate all’anno) e con redditi esigui.
Il rimettente – chiamato a pronunciarsi sulla pretesa illegittimità dell’indebito accertato dall’INPS nei confronti di un titolare di pensione anticipata “quota 100” che, in violazione del citato divieto di cumulo, aveva svolto attività di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze di una società agricola, per la raccolta dell’uva, per una durata corrispondente a una giornata lavorativa (otto ore) e per un reddito complessivo di euro 83,91 lordi – ritiene che la previsione della sospensione del trattamento pensionistico per un’intera annualità sia lesiva, innanzitutto, dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della proporzionalità e della ragionevolezza.
Una simile conseguenza della violazione del divieto di cumulo sarebbe, infatti, non solo manifestamente sproporzionata, in quanto in grado di compromettere integralmente il sostentamento dell’individuo, ma anche irragionevole, non risultando idonea a perseguire la principale finalità della normativa sulla pensione anticipata in esame e cioè quella del ricambio generazionale nel mercato del lavoro. Una prestazione lavorativa contingentata in alcune giornate (o addirittura in una sola giornata) nell’arco di un anno solare, sarebbe inidonea, per la sua natura e per la sua esiguità temporale ed economica, a incidere sulle dinamiche di tale mercato.
La previsione censurata sarebbe, inoltre, lesiva dell’art. 38, secondo comma, Cost.: il soggetto sarebbe, infatti, privato della protezione previdenziale per un intero anno, a fronte dello svolgimento di periodi di lavoro limitati, anche molto inferiori all’annualità. Di conseguenza, risulterebbe violato pure il diritto del pensionato al godimento dei propri beni, di cui all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, evocato per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., in assenza di motivi di pubblica utilità o di interesse generale, idonei a giustificarne il sacrificio secondo la giurisprudenza convenzionale. Considerato che tali beni sarebbero funzionali al soddisfacimento di esigenze minime di vita e anzi di sopravvivenza, dalla violazione del richiamato diritto deriverebbe anche la lesione della dignità del pensionato e, attraverso di essa, la violazione dell’art. 2 Cost.
2.– In via preliminare, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato in relazione al fatto che il rimettente, pur ritenendo possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, non l’ha seguita, sollevando questione di legittimità costituzionale della medesima, in base all’opposta lettura che di essa ha dato una singola pronuncia della sezione lavoro della Corte di cassazione, ritenuta per errore diritto vivente.
3.– L’eccezione è fondata.
3.1.– Il Tribunale di Ravenna muove dal rilievo che la disposizione censurata non prevede espressamente le conseguenze della violazione del divieto di cumulo tra la pensione anticipata “quota 100” e lo svolgimento di attività lavorativa. A tal proposito, osserva che «il legislatore avrebbe potuto regolare come meglio credeva la fattispecie», purché «nel rispetto dei limiti», corrispondenti alla proporzionalità e ragionevolezza della misura, nonché del diritto del pensionato al sostentamento, ma «non lo ha fatto».
Tuttavia, la circostanza che la Corte di cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 30994 del 2024, abbia individuato le citate conseguenze proprio nella perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento, lo esonererebbe dall’onere di fornire un’interpretazione adeguatrice, data «l’esistenza di un diritto vivente». Il rimettente precisa, a tal proposito che, allorquando la sezione lavoro della Corte di cassazione «pronuncia per la prima volta su una questione, adotta una pronuncia dotata di stabilità interna ed è estremamente difficile per non dire impossibile che, in assenza di elementi normativi sopravvenuti, essa muti la propria opinione».
A tale argomento il giudice a quo aggiunge che la citata pronuncia, là dove ha escluso espressamente l’esistenza di un dubbio di costituzionalità della norma in questione, così come da essa interpretata, toglierebbe «spazio di manovra per un’interpretazione conforme a Costituzione» da parte del giudice di merito.
3.2.– A sostegno dell’esito di inammissibilità, è opportuno richiamare sinteticamente gli approdi nel tempo raggiunti da questa Corte sull’onere di interpretazione delle disposizioni censurate che grava sul giudice rimettente, il cui assolvimento consente l’esame nel merito delle questioni sollevate.
Secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte, «se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime “perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)”, ciò però non significa che “ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito” (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017)» (sentenza n. 77 del 2018). In particolare, ciò avviene allorquando il giudice abbia motivato, in maniera non implausibile, l’impraticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, escludendola consapevolmente o per la presenza di un orientamento giurisprudenziale contrario consolidato, che assurga a “diritto vivente”, o per il tenore letterale della disposizione censurata. In entrambe le suddette ipotesi, «[l]a correttezza o meno dell’esegesi presupposta dal rimettente – e, più in particolare, la superabilità o non superabilità degli ostacoli addotti» alla predetta interpretazione – “attiene […] al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza della questione stessa” (da ultimo, sentenza n. 204 del 2021)» (sentenza n. 219 del 2022).
Più precisamente, in presenza di uno stabile approdo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità – ravvisato non solo in presenza di un’interpretazione fornita dalle sezioni unite della Corte di cassazione e poi stabilizzatasi nella giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 73 del 2024) ma, più in generale, a fronte di una interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità reiterata e conseguentemente stabile (sentenza n. 38 del 2024) – il giudice a quo ha «la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di diritto vivente e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (sentenza n. 243 del 2022)» (sentenza n. 73 del 2024). Ciò «senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi» (sentenza n. 180 del 2021): la norma «vive ormai nell’ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o di questa Corte (sentenze n. 141 del 2019 e n. 191 del 2016)» (ancora, sentenza n. 73 del 2024).
In tal caso, del “diritto vivente” questa Corte «non può che prendere atto, non potendo sostituirsi alla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione delle disposizioni legislative, ed essendo piuttosto il proprio compito confinato alla verifica se il risultato di tale interpretazione sia compatibile con i parametri costituzionali evocati dal giudice a quo» (sentenza n. 116 del 2023).
In considerazione del rilievo assegnato al «consolidamento» dell’interpretazione della disposizione censurata offerta dalla giurisprudenza di legittimità diviene, dunque, centrale l’accertamento dello stesso, connesso all’«uso ripetuto nel tempo» e al «grado di consenso raccolto» (sentenza n. 38 del 2024). Accertamento che, «soprattutto in mancanza di un arresto nomofilattico delle Sezioni unite» (ancora, sentenza n. 38 del 2024), è necessario a «verificare se decisioni, pur rese dalla Corte di cassazione, possano o meno ritenersi espressive di quella consolidata interpretazione della legge che rende la norma, che ne è stata ritratta, vero e proprio “diritto vivente” nell’ambito e ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, atteso che la “vivenza” della norma costituisce “una vicenda per definizione aperta” (sentenza n. 202 del 2023)» (nuovamente, sentenza n. 38 del 2024).
Ancora, solo nell’ipotesi in cui sia la lettera della disposizione censurata a opporsi, secondo una non implausibile motivazione del giudice rimettente, a un’esegesi condotta secondo i canoni dell’interpretazione costituzionalmente conforme, «il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» (sentenza n. 91 del 2013): infatti, il «dato letterale , […] costituisce il naturale limite dello stesso dovere del giudice di interpretare la legge in conformità alla Costituzione (sentenze n. 102 del 2021, n. 253 del 2020, n. 174 del 2019 e n. 82 del 2017)» (sentenza n. 18 del 2022).
3.3.– Tanto premesso, gli argomenti svolti dal Tribunale di Ravenna a fondamento dell’impraticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata dall’art. 14, comma 3, del d.l. n.4 del 2019, come convertito, non risultano convincenti.
Non con riferimento al dato letterale, considerato che è lo stesso rimettente a rilevare l’esistenza di una lacuna normativa nel citato art. 14, comma 3, in ordine alla previsione delle conseguenze del divieto del cumulo, e a evidenziare che il legislatore ben avrebbe potuto colmarla, purché, però, nel rispetto sia dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, sia del diritto del pensionato al sostentamento. Ed è sempre il rimettente a ritenere non contraddetta dal silenzio del legislatore, anzi ben possibile, l’interpretazione costituzionalmente adeguata della disposizione esaminata, che ricava dal contesto normativo di riferimento e, in specie, dalla previsione dell’erogazione mensile dei ratei di pensione.
A sostegno di tale praticabilità, il Tribunale di Ravenna peraltro assume che – di contro all’assunto dell’INPS – tale interpretazione non sia stata esclusa dalla sentenza n. 234 del 2022, con cui questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla medesima disposizione oggi in esame, ma in riferimento al diverso profilo concernente l’ambito di operatività del divieto di cumulo, ha respinto, in ragione della disomogeneità delle fattispecie poste a raffronto, la richiesta di estensione ai redditi da lavoro subordinato intermittente della deroga alla incumulabilità prevista per i redditi di lavoro autonomo occasionale sino a 5000 euro annui.
L’unico ostacolo indicato dal rimettente sta, dunque, nella citata sentenza n. 30994 del 2024, che ha individuato le conseguenze della violazione del divieto di cumulo di cui al citato art. 14, comma 3, nella perdita totale del trattamento pensionistico, non solo per i mesi in cui è stata espletata l’attività lavorativa, bensì per tutto l’anno solare di riferimento.
Tale sentenza, tuttavia, è rimasta finora unica nella giurisprudenza di legittimità, anche perché adottata assai di recente. Essa, peraltro, risulta non avere avuto un seguito generalizzato da parte dei giudici di merito, considerato che essa è stata seguita da alcune pronunce (fra le altre, Corte d’appello Milano, sezione lavoro, sentenza 7 agosto 2025, n. 629; Corte d’appello Bologna, sezione lavoro, sentenza 16 giugno 2025, n. 311), ma se ne rinvengono altre che l’hanno disattesa, esprimendo un diverso indirizzo (fra le altre, Corte d’appello Brescia, sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2025, n. 81; Corte d’appello Trento, sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2025, n. 14), in alcuni casi in linea con l’interpretazione proposta dall’attuale rimettente.
Appare, pertanto, evidente che non ricorrono, nella specie, quei requisiti di reiterazione e stabilità che questa Corte ha ripetutamente ritenuto necessari a conferire all’orientamento interpretativo espresso dalla giurisprudenza di legittimità un grado di consolidamento tale da rivelare il suo radicamento nell’ordinamento (fra le altre, sentenze n. 101 del 2023 e n. 122 del 2017) e da farlo assurgere realmente a “diritto vivente”, così da indurre il giudice che ne ravvisi il possibile contrasto con la Costituzione a investire questa Corte e da indurre questa Corte a pronunciarsi su di esso.
Lo stesso rimettente, d’altronde, finisce per riconoscere che la pronuncia di legittimità evocata come ostacolo all’interpretazione costituzionalmente orientata non è “diritto vivente”, richiamando la sentenza n. 208 del 2024 che ha ritenuto che due pronunce di legittimità, per il numero limitato e il tempo ridotto entro il quale erano state adottate, non integravano gli estremi di un «diritto vivente idoneo a essere assunto come oggetto del giudizio di legittimità costituzionale».
Nondimeno, il rimettente ravvisa, come si è già detto, un ostacolo all’interpretazione costituzionalmente orientata proprio nella citata unica pronuncia della sezione lavoro della Corte di cassazione finora adottata sul tema e nella norma ivi desunta dall’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito; pronuncia quest’ultima ancora suscettibile, secondo l’ordinaria dinamica giurisprudenziale, di venire confermata, come pure di essere oggetto di revirement, e perciò non qualificabile alla stregua di già “vivente” in questa forma nell’ordinamento.
Il giudice rimettente quindi può – e deve – procedere all’interpretazione della disposizione censurata confrontandosi con il citato precedente giurisprudenziale, che tuttavia non radica una situazione di «diritto vivente».
4.– In definitiva, deve dichiararsi l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 3, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, sollevate dal Tribunale di Ravenna, non avendo quest’ultimo correttamente assolto all’onere di preventiva interpretazione della disposizione censurata.
Corte Cost., sent., 04.11.2025, n. 162