Con ricorso ex art. 414 c.p.c. depositato innanzi al Tribunale di Cassino, in funzione di giudice del lavoro, (omissis) chiedeva accogliersi le seguenti conclusioni:
a) accertare e dichiarare il diritto della ricorrente a fruire della pausa giornaliera di almeno 10 minuti per il recupero delle energie psico-fisiche, per ogni turno di servizio dal dicembre 2008 sino ad oggi;
b) accertare e dichiarare che la ricorrente, operando nell’ordinario svolgimento della prestazione lavorativa, articolata su turni orari superiori alle sei ore, non ha fruito della pausa giornaliera della durata di almeno 10 minuti, dal dicembre 2008 sino ad oggi;
c) per l’effetto, per le ragioni tutte di cui in narrativa, condannare la resistente al pagamento in favore della ricorrente di un’indennità risarcitoria, qualificata quale indennità da risarcimento per “usura psico fisica”, da determinarsi equitativamente, per non aver goduto della pausa lavorativa dal anno 2008 o dalla diversa data che sarà accertata in corso di causa e ritenuta di giustizia, alla data della emananda sentenza, per l’importo di Euro 5.340,00 o nella somma maggiore o minore che sarà accertata in corso di causa e ritenuta di giustizia anche all’esito della precisazione della domanda in ragione delle riserve formulate -, in ogni caso con interessi dal maturarsi di ogni singolo credito sino all’effettivo soddisfo;
d) con condanna della resistente al pagamento delle spese di lite da distrarsi in favore dei procuratori antistatari.
A sostegno della domanda, la ricorrente esponeva di essere dipendente a tempo indeterminato dell’A., in servizio presso il nosocomio di (omissis); di aver reso dal 2008 la prestazione lavorativa con turni di servizio superiori alle 6 ore continuative, secondo un orario di lavoro articolato su 2 turni di 12 ore con turnazione dalle 07: 00 alle 19: 00 e dalle 19: 00 alle 07: 00; di aver lavorato dal 2008 al dicembre 2018 senza mai fruire della sosta di 10 minuti riconosciuta dopo le 6 ore di turno continuativo dal D.Lgs. n. 66 del 2003.
Aggiungeva di non aver ricevuto, nonostante la formale richiesta all’Azienda, la copia dei tabulati delle presenze giornaliere né quella delle buste paga; che il protrarsi dell’inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro, per un tempo così lungo ed in maniera sistematica, aveva determinato un danno da usura psico-fisica; che i turni di servizio variavano da un minimo di 15 ad un massimo di 30 giorni al mese e che, quindi, su base mensile, non aveva fruito della pausa di 10 minuti per ogni turno di lavoro per almeno 20 volte (giorni) al mese, pari a 240 giorni all’anno e, nell’arco di 10 anni, per 2400 volte (giorni) per un totale di 24.000 minuti, pari a 400 ore.
Concludeva, pertanto, rassegnando le riportate conclusioni.
Si costituiva in giudizio l’Azienda (omissis) eccependo, in via preliminare, la prescrizione del diritto per il periodo antecedente al 22 luglio 2014 e, nel merito, la legittimità della propria condotta.
Deduceva, in particolare, che la disciplina di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003, invocata dalla controparte a fondamento delle proprie domande, risultava in verità derogata dall’art. 27, comma 4, del CCNL Comparto Sanità 2016/2018, a cui essa rinvia per la fissazione delle modalità e della durata della pausa, e secondo cui, qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti “purché non in turno”. Per espressa previsione negoziale, la norma non sarebbe, pertanto, riferibile anche al personale in regime di turnazione, per il quale varrebbe invece l’art. 27 c. 3 lett. b) ed e) del CCNL, secondo cui il lavoratore che abbia un orario articolato in turni continuativi sulle 24 ore ha diritto a periodi di riposo conformi alle disposizioni di cui all’art.7 del D.Lgs. n. 66 del 2003 tra i vari turni, al fine di consentire il necessario riposo psico-fisico.
In ordine al risarcimento e alla quantificazione del danno, l’A. censurava l’omessa allegazione di prove in merito all’usura psicofisica subita e a qualsiasi altro pregiudizio riconducibile alla mancata fruizione di una pausa di 10 minuti dopo le 6 ore lavorative. Osservava, inoltre, che, ai sensi dell’art. 8 c. 3 del D.Lgs. n. 66 del 2003, le pause lavorative ricomprese negli intervalli definiti dall’art. 5 c. 1 del R.D. n. 1955 del 1923 non fossero comunque retribuibili, in assenza di specifiche previsioni demandate alla contrattazione collettiva.
Contestava, infine, il computo delle ore che il ricorrente asseriva di aver lavorato senza fruire della pausa rivendicata nonché la quantificazione economica del pregiudizio lamentato avendo la medesima moltiplicato il numero totale delle ore conteggiate (400) per l’importo, ingiustificatamente maggiorato, di euro 13,35.
La causa, istruita con la produzione di documenti, veniva decisa mediante lettura della sentenza n. 68/2022, con cui il Tribunale così statuiva:
– Accerta il diritto di (omissis) alla fruizione di una pausa di dieci minuti per ogni periodo lavorativo superiore alle sei ore e per l’effetto condanna l’Azienda (omissis) al risarcimento del danno da usura psico-fisica ad essa cagionato in conseguenza della violazione di tale diritto per il periodo dal dicembre del 2008 alla data di proposizione della domanda, liquidato in via equitativa nella somma di euro 5.000,00, oltre interessi legali e rivalutazione dalla sentenza fino al saldo.
– Condanna dell’Azienda (omissis) al pagamento delle spese del giudizio in favore della ricorrente, che si liquidano in complessivi euro 10 1.961,00 oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA, oltre al rimborso del contributo unificato pari a 49,00, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari.
Avverso tale decisione proponeva appello l’Azienda U.S.L.D.F., lamentando l’errata e ingiusta interpretazione del D.Lgs. 8 aprile n. 66 in combinato disposto con l’art. 27 c. 3 e 4 del CCNL del 21/05/2018 per avere il primo giudice ritenuto applicabile, in assenza di espresse deroghe nella disciplina contrattuale collettiva di comparto, il regime di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 c. 2.
A riguardo osserva che l’esplicito riferimento dell’art. 27 c. 4 del CCNL di settore al solo personale del Comparto non turnante impone di escludere l’applicabilità della norma al personale in regime di turnazione, per il quale trova invece applicazione l’art. 27 c. 3 lett. b) ed e) del medesimo contratto, secondo cui il personale impegnato in turni continuativi su 24 ore, ha diritto a adeguati periodi di riposo tra i vari turni, in conformità con le disposizioni dell’art. 7 del D.Lgs. n. 66 del 2003, così da assicurare il necessario recupero psico-fisico.
L’A. contesta, altresì, la liquidazione equitativa del danno disposta dal Tribunale, non avendo la sig.ra (omissis) fornito prova, pur essendone gravata, né dell’usura psico-fisica subita né di alcun altro pregiudizio concretamente riconducibile alla mancata fruizione della pausa oggetto di rivendicazione. Osserva, infine, che è lo stesso art. 8 c. 3 del D.Lgs. n. 66 del 2003 ad escludere, in assenza di specifiche disposizioni di contratti collettivi, la risarcibilità delle pause lavorative ricomprese negli intervalli definiti dall’art. 5 c. 1 del R.D. n. 1955 del 1923.
Si costituiva in giudizio (omissis) eccependo preliminarmente l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità e chiedendo, nel merito, rispingersi l’avversa domanda.
All’odierna udienza del 30 settembre 2025 la causa è stata discussa e decisa mediante lettura della presente sentenza.
L’appello è infondato. Con il primo motivo di appello l’azienda U.D.F. censurava la sentenza per erronea applicazione del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 in combinato disposto con gli l’art. 27 del CCNL 21.5.18 commi 3 e 4
L’originaria ricorrente aveva dedotto di aver lavorato dal dicembre 2008 senza mai usufruire della sosta giornaliera di 10 minuti dopo le sei ore di turno continuativo, benché prevista dal D.Lgs. n. 66 del 2003, nonché dalla disciplina comunitaria, lamentando altresì la violazione dell’art. 41, comma 2, Cost., secondo cui l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Il primo motivo di appello è infondato .La circostanza che l’applicazione del comma 4 dell’art. 27 CCNL Comparto Sanità 2016/18 (a mente del quale il personale, non in turno, ha diritto ad una pausa consecutiva di almeno 30 minuti qualora la prestazione ecceda le 6 ore) sia circoscritta al personale non turnante non comporta che il personale turnante non abbia diritto a beneficiare di alcuna pausa qualora la prestazione giornaliera ecceda le 6 ore consecutive, in assenza di espressa deroga al regime di cui all’art. 8, così come sancito dal citato art. 17 del medesimo decreto, menzionato dal tribunale . In altri termini, tale disposizione contrattuale non prevede l’espressa esclusione del personale turnante dal beneficio della pausa di 10 minuti previsto ex lege, quanto la previsione del diritto alla pausa di 30 minuti per il personale “non in turno”, senza esplicitamente derogare la disciplina della pausa ex D.Lgs. n. 66 del 2003 per ciò che concerne il personale turnante. Né può ritenersi che tale previsione contrattuale costituisca quella espressa disciplina (derogatoria) che l’art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 affida alla contrattazione collettiva, tenuto conto che l’art. 17 del medesimo D.Lgs. n. 66 del 2003 consente tale deroga a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata (art. 17, c. 4, D.Lgs. n. 66 del 2003). Tali condizioni, nel caso di specie, non risultano in alcun modo soddisfatta.
E invero, l’art. 17 D.Lgs. n. 66 del 2003 stabilisce: “1. Le disposizioni di cui agli articoli 7, 8, 12 e 13 possono essere derogate mediante contratti collettivi stipulati a livello nazionale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
2. In mancanza di disciplina collettiva, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ovvero, per i pubblici dipendenti, il Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, su richiesta delle organizzazioni sindacali nazionali di categoria comparativamente più rappresentative o delle associazioni nazionali di categoria dei datori di lavoro firmatarie dei contratti collettivi nazionali di lavoro, adotta un decreto, sentite le stesse parti, per stabilire deroghe agli articoli 4, terzo comma, nel limite di sei mesi, 7, 8, 12 e 13 con riferimento (tra l’altro): c) alle attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta: 1) di servizi relativi all’accettazione, al trattamento o alle cure prestati da ospedali o stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri; 2) del personale portuale o aeroportuale; 3) di servizi della stampa, radiofonici, televisivi, di produzione cinematografica, postali o delle telecomunicazioni, di servizi di ambulanza, antincendio o di protezione civile; 4) di servizi di produzione, di conduzione e distribuzione del gas, dell’acqua e dell’elettricità, di servizi di raccolta dei rifiuti domestici o degli impianti di incenerimento; 5) di industrie in cui il lavoro non può essere interrotto per ragioni tecniche; 6) di attività di ricerca e sviluppo; 7) dell’agricoltura; 8) di lavoratori operanti nei servizi regolari di trasporto passeggeri in ambito urbano ai sensi dell’articolo 10 comma 1, numero 14), 2^ periodo, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633; ….4. Le deroghe previste nei commi 1, 2 e 3 possono essere ammesse soltanto a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata.”.
Ebbene, non risulta che la contrattazione collettiva contenga alcuna deroga al riguardo. La circostanza che l’applicazione del comma 4 dell’art. 27 CCNL Comparto Sanità 2016/18 (a mente del quale il personale, non in turno, ha diritto ad una pausa consecutiva di almeno 30 minuti qualora la prestazione ecceda le 6 ore) sia circoscritta al personale non turnante non comporta che il personale turnante non abbia diritto a beneficiare di alcuna pausa qualora la prestazione giornaliera ecceda le 6 ore consecutive, in assenza di espressa deroga al regime di cui all’art. 8, così come sancito dal citato art. 17. In altri termini, tale disposizione contrattuale non prevede l’espressa esclusione del personale turnante dal beneficio della pausa di 10 minuti previsto ex lege, quanto la previsione del diritto alla pausa di 30 minuti per il personale “non in turno”, senza esplicitamente derogare la disciplina della pausa ex D.Lgs. n. 66 del 2003 per ciò che concerne il personale turnante. Né può ritenersi che tale previsione contrattuale costituisca quella espressa disciplina (derogatoria) che l’art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 affida alla contrattazione collettiva, tenuto conto che l’art. 17 del medesimo D.Lgs. n. 66 del 2003 consente tale deroga a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata (art. 17, c. 4, D.Lgs. n. 66 del 2003). Tali condizioni, nel caso di specie, non risultano in alcun modo soddisfatta.
Infatti non è stata disposta alcuna deroga in relazione al servizio de quo, mediante decreto del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, come previsto dal comma 2 del citato art. 17.
Il Collegio, conformandosi al consolidato orientamento della Corte di legittimità, osserva che “… la norma di cui all’art. 2087 si pone a chiusura dell’intero sistema di tutele previste per il lavoratore nel caso in cui non vi siano disposizioni specifiche. Sul datore di lavoro, invero, ricade l’obbligo, in ragione della sua posizione di garante dell’incolumità fisica del lavoratore, di adottare tutte le misure atte a salvaguardare chi presta la propria attività lavorativa alle sue dipendenze. In caso di violazione del precetto, la responsabilità del datore è natura contrattuale, per cui, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore la prova del danno subito, nonché il nesso di causalità, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (cfr. Cass. Civ. Sez. Lav. n. 2251/2012; Cass. 4840 del 7 marzo 2006; Cass. 8855 dell’11 aprile 2013). … Parte datoriale non ha previsto mediante una propria disposizione la pausa minima da concedere ai lavoratori, in assenza di una regolamentazione ad hoc all’interno del Contratto Collettivo di settore.
L’inadempimento di cui all’art. 2087 c.c. invero, si genera anche per mancata attuazione di regolamenti e direttive nonché specifiche comunicazioni di allerta, sicché la conseguenza dannosa ravvisabile nel comportamento omissivo, è quella di impedire, ai lavoratori coinvolti, il recupero delle energie psico-fisiche, venendosi così a creare, potenzialmente, un pregiudizio all’integrità della salute degli stessi.
Ritiene la Corte che i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla presunzione di un pregiudizio in termini di usura psico fisica derivante dal mancato rispetto del riposo settimanale (v. ex multis Cass. nn. 18884/2019; 24563/2016) possa essere richiamato in questa sede, incidendo la diversa misura e distribuzione del riposo non goduto – su base settimanale o giornaliera – non sull’an, ma sulla maggiore o minore gravità dell’usura psico-fisica, ravvisabile nel caso di specie, tenuto conto che i lavoratori hanno dedotto – circostanza non contestata – che hanno lavorato dal 2008 al 2018 su turni di 12 ore, senza aver goduto della prescritta pausa di 10 minuti dopo sei ore di lavoro. Pertanto, l’estensione oraria del turno, la continuità dello stesso, nonché il protrarsi dell’inadempimento datoriale senza soluzione di continuità per un decennio, rappresentano, a parere del Collegio, elementi presuntivi sulla base dei quali riconoscere il danno lamentato alla salute, in quanto aggravanti l’ordinaria penosità del lavoro. (Corte d’appello di Roma, II sez. lav., sent. n. 1842/2023).
Si aggiunge che in tema di riposi giornalieri e settimanali la Suprema Corte (v. Cass. Sent. n. 14710/2015), confermando la sentenza che aveva riconosciuto il risarcimento del danno, ha specificato che “l’adibizione del lavoratore a turni di lavoro senza riconoscimento dei riposi di legge, per come documentalmente emergente dall’istruttoria, ha determinato – in violazione dei limiti di legge – l’aumento della penosità del lavoro, rilevante tanto più in quanto protrattasi per lungo tempo (diversi anni), con efficienza lesiva costante (in quanto ancorata a turni omogenei, replicatisi nel tempo), con incidenza su diritti costituzionalmente protetti inerenti i diritti fondamentali della persona (rispetto ai quali dunque la valutazione della gravità dell’offesa e della serietà del pregiudizio, e quindi della sua risarcibilità, è già operata dall’ordinamento)” (cfr., da ultimo, Corte d’appello di Roma, sentenza n. 3312/2024 pubblicata in data 8.10.2024 e sentenza n. 1579/2024 pubblicata il 29.4.2024).
In proposito rileva altresì il Collegio che anche la più recente giurisprudenza di legittimità ammette un ampio ricorso alla prova presuntiva in tema di violazione prolungata e reiterata della disciplina dei riposi, implicante un pregiudizio per il lavoratore in termini di usura psico-fisica (Sez. L, Ordinanza n. 18390 del 2024, che richiama anche la già citata Sez. L, Sentenza n. 14710 del 2015
Sotto altro profilo, occorre dare atto che la stessa Azienda appellante ha dato conto, nella memoria di costituzione innanzi al Tribunale, che la signora F. opera su turni di 12 ore ciascuno conformemente alle allegazioni di cui al ricorso ex art. 414 c.p.c.
Inoltre, l’Azienda non ha mai espressamente contestato l’allegazione dei lavoratori secondo cui gli stessi non avrebbero goduto della pausa di dieci minuti ex art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003. E anzi, il mancato riconoscimento, durante i turni di lavoro, di detto periodo di riposo è sostanzialmente confermato dalla difesa dell’Azienda
Con il secondo motivo ha lamentato la carenza di prova del danno sofferto.
La (omissis) sin dal ricorso introduttivo aveva argomentato la violazione dell’art. 2087 c.c., precisando che il protrarsi di un inadempimento contrattuale del datore di lavoro per un tempo così lungo ed in maniera sistematica, ha determinato un danno da usura psico-fisica Dunque, contrariamente a quanto sostenuto da parte appellata, il danno da usura psico- fisica è stato specificamente allegato nel giudizio di primo grado Quanto alla richiesta di risarcimento del danno, si osserva che la norma di cui all’art. 2087 c.c. si pone a chiusura dell’intero sistema di tutele previste per il lavoratore nel caso in cui non vi siano disposizioni specifiche. Sul datore di lavoro, invero, ricade l’obbligo, in ragione della sua posizione di garante dell’incolumità fisica del lavoratore, di adottare tutte le misure atte a salvaguardare chi presta la propria attività lavorativa alle sue dipendenze. In caso di violazione del precetto, la responsabilità del datore è natura contrattuale, per cui, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore la prova del danno subito, nonché il nesso di causalità, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (cfr. Cass.Civ. Sez. Lav. n. 2251/2012; Cass. 4840 del 7 marzo 2006; Cass. 8855 dell’11 aprile 2013).
Parte datoriale non ha previsto mediante una propria disposizione la pausa minima da concedere ai lavoratori, in assenza di una regolamentazione ad hoc all’interno del Contratto Collettivo di settore. L’inadempimento di cui all’art. 2087 c.c. invero, si genera anche per mancata attuazione di regolamenti e direttive nonché specifiche comunicazioni di allerta, sicché la conseguenza dannosa ravvisabile nel comportamento omissivo, è quella di impedire, ai lavoratori coinvolti, il recupero delle energie psico-fisiche, venendosi così a creare, potenzialmente, un pregiudizio all’integrità della salute degli stessi.
Ritiene la Corte che i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla presunzione di un pregiudizio in termini di usura psico fisica derivante dal mancato rispetto del riposo settimanale (v. ex multis Cass. nn. 18884/2019; 24563/2016) possa essere richiamato in questa sede, incidendo la diversa misura e distribuzione del riposo non goduto – su base settimanale o giornaliera – non sull’an, ma sulla maggiore o minore gravità dell’usura psico-fisica, ravvisabile nel caso di specie, tenuto conto che la F. ha dedotto – circostanza non contestata – di aver lavorato dal 2008 su turni due turni di 12 ore (dalle 7,00 alle 19,00 e dalle 19,00 alle 7,00), senza aver goduto della prescritta pausa di 10 minuti dopo sei ore di lavoro. Pertanto, l’estensione oraria del turno, la continuità dello stesso, nonché il protrarsi dell’inadempimento datoriale senza soluzione di continuità per un decennio, rappresentano, a parere del Collegio, elementi presuntivi sulla base dei quali riconoscere il danno lamentato alla salute, in quanto aggravanti l’ordinaria penosità del lavoro.
In tema di riposi giornalieri e settimanali la Suprema Corte (v. Cass. n. 14710/2015), confermando la sentenza che aveva riconosciuto il risarcimento del danno, ha specificato che “l’adibizione del lavoratore a turni di lavoro senza riconoscimento dei riposi di legge, per come documentalmente emergente dall’istruttoria, ha determinato – con efficienza lesiva costante (in quanto ancorata a turni omogenei, replicatisi nel tempo), con incidenza su diritti costituzionalmente protetti inerenti i diritti fondamentali della persona (rispetto ai quali dunque la valutazione della gravità dell’offesa e della serietà del pregiudizio, e quindi della sua risarcibilità, è già operata dall’ordinamento)”. In proposito rileva altresì il Collegio che anche la più recente giurisprudenza di legittimità ammette un ampio ricorso alla prova presuntiva in tema di violazione prolungata e reiterata della disciplina dei riposi, implicante un pregiudizio per il lavoratore in termini di usura psico-fisica (Sez. L, Ordinanza n. 18390 del 2024, che richiama anche la già citata Sez. L, Sentenza n. 14710 del 2015).
In ordine al quantum, può essere considerato quale parametro di riferimento risarcitorio il tempo corrispondente alle pause non effettuate, tenendo conto dei conteggi elaborati da parte ricorrente sulla base delle buste paga e delle tabelle contrattuali, con gli importi indicati in dispositivo.
Le spese del grado, liquidate come da dispositivo, sono liquidate secondo soccombenza e distratte in favore dei procuratori di parte appellante, dichiaratisi antistatari.
L’appello deve essere dunque respinto.
Le spese del presente grado di giudizio vengono liquidate nella misura di cui al dispositivo, avuto riguardo alle attività in concreto svolte, ai parametri vigenti ed all’impegno defensionale profuso. Occorre dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata
Difatti la circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014 e di recente Cass. n. 25386/2016).
App. Roma, sent., 30.09.2025, n. 2981