Previdenza e assistenza – Licenziamento di un ultras per reati che arrecano un disvalore morale anche fuori dal lavoro

Previdenza e assistenza – Licenziamento di un ultras per reati che arrecano un disvalore morale anche fuori dal lavoro

1. i motivi di ricorso possono essere enunciati secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente;

1.1. col primo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 7 L. n.300/70, 1175 e 1375 c.c. (art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.), per avere la Corte di Appello erroneamente invertito l’onere probatorio tra le parti sulla tempestività del potere disciplinare, in modo non conforme a correttezza e buona fede”;

1.2. con il secondo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 2118 e 2119 c.c., 3 L. n.604/66, 10 lett. A, punto g C.C.N.L. appl., in relazione agli artt. 1366 e 1369 c.c. (art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.), per avere la Corte ritenuto integrato il g.m.s. sulla scorta della gravità delle condotte e della loro asserita attitudine ad incidere in via diretta sul rapporto di lavoro e sul vincolo fiduciario, in modo incongruo ed apodittico”;

1.3. con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 2104,2106,2119 c.c. e 3 L. n.604/66, 9 C.C.N.L. appl., in relazione all’art. 18 St. Lav. (art.360, comma 1, n.3 c.p.c.), per avere ritenuto proporzionata la sanzione estromissiva, pur in presenza di sanzioni conservative nel C.C.N.L. appl., art. 9;”;

1.4. con il quarto motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 2104,2106,2119 c.c. e 3 L. n.604/66 (art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.), per avere apoditticamente escluso dalla ponderazione di sussistenza del motivo, gravità della condotta, recisione del vincolo fiduciario, la circostanza sintomatica decisiva del diverso trattamento disciplinare applicato dalla Società ad altri lavoratori per reati più gravi”;”;

1.5. con il quinto motivo si denuncia “vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale tempestivamente e ritualmente richiesta dal lavoratore (art. 360 n.5 c.p.c.), per non aver ammesso i mezzi istruttori orali sulla circostanza decisiva del diverso trattamento disciplinare applicato ad altri lavoratori per reati più gravi”;

1.6. con il sesto motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione L. n.300 del 1970, art. 18 e artt. 1345 e 2729 c.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.), per aver rigettato in nuce la doglianza di nullità del recesso per ritorsività, per la mera ravvisata sussistenza del g.m.s.”;

2. il ricorso non può trovare accoglimento;

2.1. la prima doglianza è infondata;

il Collegio siciliano non ha affatto invertito l’onere probatorio come dedotto da parte ricorrente mediante l’inappropriata denuncia di violazione dell’art. 2697 c.c.; infatti, ha positivamente accertato – come ricordato nello storico della lite – che “nessuna conoscenza ha avuto il datore di lavoro prima del mese di ottobre 2016”, si badi, non dei fatti che hanno dato poi origine al processo penale, bensì del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva che ha costituito il fatto addebitato e che ha condotto al licenziamento intimato il 7 novembre 2016;

orbene, per incontrastato orientamento, il lasso temporale tra i fatti e la loro contestazione deve decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi, non potendosi ragionevolmente imputare al datore medesimo, legittimato all’esercizio del potere disciplinare a seguito dell’accertamento dei fatti addebitati al dipendente, la possibilità di conoscere questi fatti in precedenza e di contestarli immediatamente al lavoratore (cfr. Cass. n. 24584 del 2007; Cass. n. 21546 del 2007; Cass. n. 282 del 2008; Cass. n. 23739 del 2008; Cass. n. 25070 del 2013; Cass. n. 28974 del 2017);

inoltre, non può essere trascurato che da un canto, per condiviso principio, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito (da ultimo, Cass. n. 14726 del 2024; in precedenza Cass. n. 1247 del 2015; Cass. n. 5546 del 2010; Cass. n. 29480 del 2008; Cass. n. 14113 del 2006) e, come ogni apprezzamento di fatto, è sottratto al sindacato di questa Corte al di fuori dei casi di motivazione al di sotto del cd. minimum costituzionale ovvero nei ristretti limiti imposti dal novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (doglianze neanche prospettate col motivo in esame); d’altro canto, quando il fatto che dà luogo a sanzione disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio della immediatezza della contestazione non può considerarsi violato dal datore di lavoro il quale, avendo scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, contesti l’addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti (Cass. n. 5057 del 2016; Cass. n. 27069 del 2018); infatti, il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da accuse avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (Cass. n. 1101 del 2007 e n. 241 del 2006);

invero, questa Corte, in analogo caso in cui la sanzione espulsiva posta a fondamento del licenziamento era riferita a “condanna ad una pena detentiva comminata al lavoratore, con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione del rapporto di lavoro, che leda la figura morale del lavoratore”, ha chiarito che “ai fini della valutazione della tempestività della sanzione disciplinare, deve aversi riguardo alla condanna in sede penale ed al relativo passaggio in giudicato”, rispetto a tale lasso temporale dovendo misurarsi la reazione datoriale, non generandosi altrimenti acquiescente rinuncia allo strumento disciplinare da parte datoriale (in termini, Cass. n. 6937 del 2018, opportunamente richiamata dalla stessa Corte territoriale);

rispetto a tali assunti, perde di decisivo rilievo la questione del se il datore di lavoro avrebbe dovuto attivarsi per conoscere l’esito del procedimento penale ovvero se fosse il lavoratore a doverne fornire notizia, come era stato invitato a fare, anche perché questa Corte ha già chiarito non “è di per sé sanzionabile un eventuale ritardo nell’acquisizione di elementi che conducano ad accertare la responsabilità disciplinare” (Cass. n. 109 del 2024), atteso che il datore di lavoro, infatti, ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, in quanto non previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione bensì l’onere di attivarsi sorge solo allorquando l’illecito viene conosciuto in termini circostanziati, sì da consentire l’avvio del procedimento (cfr. Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 10356 del 2016; conf. Cass. n. 7467 del 2023);

2.2. il secondo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile;

infondato laddove reputa che la Corte territoriale avrebbe giudicato la gravità delle condotte come idonee a recidere il vincolo fiduciario “in modo incongruo ed apodittico”, avendo invece i giudici d’appello, in questo concordando anche con la valutazione di prime cure, diffusamente argomentato le ragioni del proprio convincimento circa la gravità dei reati commessi dal Gi.Ca., punito con pena detentiva per “oltraggio alle forze di polizia di stato e istigazione a commettere delitti di resistenza e delitti contro la persona”, nonché “per avere offeso con più azioni anche in tempi diversi l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale”, ispettrice della polizia di stato;

inammissibile la censura laddove offre una diversa valutazione della gravità di tali fatti, ai fini dell’integrazione del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, con un differente apprezzamento nel merito della vicenda storica, ben oltre i limiti posti al sindacato di questa Corte sull’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. e 3 L. n. 604 del 1966 operata dai giudici del merito (cfr. Cass. n. 18715 e 20817 del 2016; Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 7305 del 2018; Cass. n. 1379 del 2019; Cass. 13534 del 2019; Cass. n. 13064 del 2022; alle quali tutte si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., per ogni ulteriore aspetto);

2.3. il terzo motivo, che sostanzialmente sollecita un controllo sulla mancanza di proporzionalità tra condotta accertata e massima sanzione disciplinare inflitta, è inammissibile;

secondo un risalente e costante insegnamento, infatti, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito (ex pluribus Cass n. 107 e 8642 del 2024; Cass. n. 10621 del 2021; Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003);

la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata – che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi – la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016); ciò che non è neppure prospettato col motivo in esame, mentre la Corte territoriale ha diffusamente argomentato sulla gravità dell’addebito, con una motivazione ben oltre la soglia del cd. “minimum” costituzionale;

privo di fondamento è poi l’assunto secondo cui i fatti talmente gravi da meritare una condanna penale ad otto mesi di reclusione potessero essere riconducibili alla sanzione conservativa dell’ammonizione, che punisce, secondo la disposizione della contrattazione collettiva evocata da parte ricorrente, le mancanze che rechino solo pregiudizio alla morale e non certo agli interessi tutelati dal codice penale;

2.4. il quarto motivo è infondato;

in mancanza, nel nostro ordinamento, di un principio generale di parità di trattamento dei lavoratori privati, la sentenza impugnata sul punto è conforme al principio secondo cui “Ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore è tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; solo l’identità delle situazioni potrebbe, infatti, privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata a quelle assunte in fattispecie analoghe” (Cass. n. 5546 del 2010; in precedenza, conf. Cass. n. 9534 del 1995; successivamente Cass. n. 10550 del 2013);

nella specie la Corte territoriale ha affermato che nessuna comparazione poteva essere effettuata trattandosi non di situazioni identiche, bensì “di fatti diversi, avvenuti in tempi diversi”, con un accertamento concernente la vicenda storica che non può essere sindacato da questa Corte;

2.5. il quinto motivo è inammissibile perché deduce il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non per l’omesso esame di un fatto decisivo, concernente gli accadimenti che hanno dato origine alla controversia, bensì un fatto processuale, relativo alla mancata ammissione di mezzi istruttori, peraltro riguardante circostanze affatto decisive, tenuto conto di quanto esposto per il motivo che precede;

2.6. il sesto motivo è infondato;

la sentenza impugnata è coerente con la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui “In tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale” (Cass. n. 9468 del 2019; successive conformi Cass. n. 23583 del 2019; Cass. n. 18136 del 2020; Cass. n. 25977 del 2020; Cass. n. 1514 del 2021; Cass. n. 4055 del 2021);

occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011);

3. conclusivamente, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

Cass. civ., lav., ord., 28.08.2025, n. 24100

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