Previdenza e assistenza – Guardia giurata senza radio e senza giubbino antiproiettile, legittimo il licenziamento

Previdenza e assistenza – Guardia giurata senza radio e senza giubbino antiproiettile, legittimo il licenziamento

1. i motivi di ricorso possono essere enunciati secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente;

1.1. col primo si denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 101 del C.C.N.L. per i dipendenti da Istituti e Imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari, nonché dell’art. 18, comma 4, Legge n.300 del 1970, artt. 2106 e 2119 C.c., art. 30, Legge n.183 del 2010, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”; si rileva “la mancata riconduzione delle condotte fondanti il licenziamento nell’ambito delle fattispecie disciplinari punite con sanzione conservativa dal C.C.N.L. applicato, in quanto le stesse risultano esser state erroneamente ricondotte nell’ambito della nozione di <insubordinazione> in luogo di quella di <negligenza>”;

1.2. con il secondo motivo si denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18, comma 5, Legge n.300 del 1970, nonché art. 2119 C.c. in connessione con l’art. 101 C.C.N.L. per i dipendenti da Istituti e Imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari, (art. 360 c.p.c., comma 1, n.3)”; si rappresenta “l’erronea riconduzione della fattispecie disciplinare nell’ambito della giusta causa, con particolare riferimento ai dettati dell’art.101, lett. D) del C.C.N.L. applicato in tema di gravità e proporzionalità della sanzione, evidenziando la mancata declaratoria di illegittimità del licenziamento e conseguente mancata applicazione delle tutele indennitarie dell’art. 18, comma 5, Legge 300 del 1970”;

2. il ricorso non può trovare accoglimento;

2.1. il primo motivo, formulato come denuncia di un error in iudicando, si traduce inammissibilmente in un diverso apprezzamento dei fatti che hanno dato luogo al licenziamento, i quali, secondo la Corte territoriale ma anche per il giudizio di prime cure, non sono il frutto di una mera condotta negligente – e quindi soggettivamente colposa – del lavoratore, ma piuttosto di “una deliberata indifferenza rispetto alle prescrizioni datoriali”, tanto da configurare una vera e propria “insubordinazione”;

ciò in conformità con la giurisprudenza da tempo praticata da questa Corte che privilegia una nozione ampia di insubordinazione nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, che non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale, alla violazione dell’articolo 2104 c.c., comma 2), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (cfr. Cass. n. 5804 del 1987Cass. n. 9635 del 2016Cass. n. 7795 del 2017Cass. n. 9736 del 2018Cass. n. 22382 del 2018Cass. n. 3277 del 2020Cass. n. 13411 del 2020; Cass. n. 7795 del 2021);

2.2. il secondo motivo, che sostanzialmente sollecita un sindacato sulla mancanza di proporzionalità tra condotta accertata e massima sanzione disciplinare inflitta, è inammissibile;

secondo un risalente e costante insegnamento, infatti, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass n. 107 e 8642 del 2024; Cass. n. 10621 del 2021Cass. n. 8293 del 2012Cass. n. 7948 del 2011Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003).

la valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020); tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata – che è il frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi – la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360, deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016);

ciò che non è neppure prospettato col motivo in esame, mentre la Corte territoriale ha diffusamente argomentato sulla gravità oggettiva e soggettiva della condotta contestata, con una motivazione ben oltre la soglia del cd. “minimum” costituzionale;

3. conclusivamente, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso;

le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

Cass. civ., lav., ord., 19.08.2025, n. 23565

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