1) Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 12 disp. prel. in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere fondata l’eccezione di decadenza sollevata dalle controparti.
In particolare, l’eccezione di decadenza non sarebbe stata fondata nel presente caso, in cui la domanda risarcitoria era basata sull’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001 e non atteneva alla nullità del termine contrattuale ma, piuttosto, al superamento del limite di durata dei 36 mesi; sicché, in applicazione dell’art. 5 comma 4 bis, d.lgs. n. 368 del 2001, l’impugnativa poteva essere proposta in tal caso entro il termine di prescrizione ordinario.
Rileva che non vi è richiamo, da parte dell’art. 32, nel testo vigente ratione temporis all’epoca di introduzione del giudizio di primo grado (31 marzo 2015), all’ipotesi prevista dall’art. 5, comma 4 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, che è quella invocata nella specie.
Assume che la previsione della decadenza avrebbe carattere eccezionale, con la conseguenza che la disposizione prevista per l’impugnativa del contratto a termine non sarebbe applicabile analogicamente.
Evidenzia che la Corte d’Appello di Catania avrebbe dovuto rilevare che nessun atto datoriale era stato impugnato, essendosi richiesto – ancorché in via subordinata – il riconoscimento dell’indennità risarcitoria ai sensi e per gli effetti dell’art. 32 legge n. 183 del 2010 per l’abuso contrattuale perpetrato in oltre vent’anni di rapporti reiterati, al momento del superamento dei limiti temporali, domanda di natura non impugnatoria di alcun atto datoriale e che poteva essere proposta nel termine di prescrizione ordinario.
Il motivo è infondato.
Con esso viene in sostanza contestato il passaggio argomentativo in cui la corte d’appello afferma che la decadenza dell’art. 32, comma 4, lett. a), della legge n. 180 del 2010 si riferisce non soltanto all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato ai sensi degli artt. 1,2 e 4 del d.lgs. 368 del 2001 ma anche all’ipotesi, diversa, prevista dall’art. 5, comma 4 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, in cui si fa valere l’abusiva reiterazione dei contratti a termine.
Invero, la motivazione della pronuncia impugnata, conforme a diritto nel suo dispositivo, merita di essere rivista e integrata ex art. 384, comma 4, c.p.c.
Il rilievo della corte distrettuale, secondo cui il termine di decadenza decorrerebbe dalla cessazione di ciascuno dei singoli contratti ricalca Cass., Sez. L, n. 8038 dell’11 marzo 2022, precedente sottoposto a rimeditazione in pronunce successive, cui va data in questa sede continuità e nelle quali si è chiarito come, in caso di azione promossa dal lavoratore per l’accertamento dell’abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato, il termine di impugnazione, previsto a pena di decadenza dall’art. 32, comma 4, lett. a) della legge n. 183 del 2010, «deve essere osservato e decorre dall’ultimo (ex latere actoris) dei contratti intercorsi tra le parti, atteso che la sequenza contrattuale che precede l’ultimo contratto rileva come dato fattuale, che concorre ad integrare l’abusivo uso dei contratti a termine e assume evidenza proprio in ragione dell’impugnazione dell’ultimo contratto» (così Cass., Sez. L, n. 4960 del 16 febbraio 2023; cui adde Cass., Sez. L, n. 34741 del 12 dicembre 2023).
Si è comunque precisato, in tutte le pronunce sopra richiamate, che la decadenza opera sul piano della certezza dei rapporti ed è imprescindibile in ragione della “ratio” della disposizione di assicurare, per tutti i casi nei quali si intenda contestare la legittima apposizione del termine, tempi certi di stabilizzazione di situazioni giuridiche incerte; si è anche aggiunto che il risarcimento del danno, a sua volta, sarà soggetto all’ulteriore termine decennale di prescrizione, egualmente decorrente dall’ultimo di tali contratti a termine, in considerazione della natura unitaria del predetto diritto, sicché il numero dei contratti in questione rileva solo ai fini della liquidazione del danno, potendo anche quelli stipulati oltre dieci anni prima della richiesta di risarcimento avere incidenza sulla quantificazione del pregiudizio patito dal dipendente (così Cass., Sez. L, n. 34741 del 12 dicembre 2023 cit.).
Non vale obiettare – per sostenere l’inapplicabilità all’ipotesi di superamento dei 36 mesi della decadenza ex art. 32, commi 3 e 4, della legge n. 183 del 2010, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012 – che non è espressamente richiamato, da tale disposizione, l’art. 5, comma 4 bis, del d.lgs. n. 368 del 2001.
Come recentemente precisato da questa Suprema Corte (Cass., Sez. L, n. 2876 del 5 febbraio 2025; Cass., Sez. L, n. 5453 del 1° marzo 2025), il detto art. 32, nel testo antecedente alla modifica operata dalla legge n. 92 del 2012, estende la decadenza prevista per l’impugnazione del licenziamento dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966, «all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1,2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo», (comma 3, lett. d) e prevede l’applicazione della nuova normativa anche «ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1,2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine» nonché «ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge» (comma 4, lett. a e b).
La ratio della normativa, come detto, è quella di assicurare tempi certi di stabilizzazione di situazioni giuridiche incerte; con essa non sarebbe coerente un’interpretazione che, valorizzando il richiamo contenuto nella lett. d) del comma 3 e nella lett. a) del comma 4 ai soli artt. 1,2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, «escluda dall’ambito di applicazione della decadenza fattispecie che, al pari di quelle espressamente richiamate dalla norma, ancorino la legittimità o meno del termine apposto al contratto al rispetto di regole di dettaglio peraltro ulteriori rispetto a quelle generali cui la norma esplicitamente rinvia» (così Cass., Sez. L, n. 30975 del 20 ottobre 2022, che ha affermato l’applicabilità dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 anche alle azioni di nullità del termine per omesso rispetto delle condizioni imposte dall’art. 3 del d.lgs. n. 368 del 2001).
Il rinvio fatto agli artt. 1,2, e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, come reso evidente anche dall’apprezzamento congiunto, a fini interpretativi, dei commi 3 e 4 dell’art. 32, è finalizzato unicamente ad indicare l’oggetto dell’azione di nullità, che può riguardare sia il termine apposto al contratto (art. 1), anche se stipulato dalle aziende indicate nell’art. 2, sia la proroga dello stesso (art. 4).
Il richiamo non è, invece, finalizzato ad operare una distinzione, quanto alla decadenza, fra le diverse violazioni dalle quali può derivare la nullità o l’illegittimità del termine medesimo o della sua proroga, violazioni che vanno fatte valere nel rispetto del termine decadenziale anche se la disciplina che si assume violata è dettata da norme non richiamate, ossia dagli artt. 3 e 5 del decreto.
Conferma questa interpretazione la lett. b) del comma 4 dell’art. 32 legge cit. che, nell’estendere il nuovo regime anche ai contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della nuova legge, non opera alcuna differenziazione fra le diverse tipologie di vizio, rendendo ulteriormente chiaro che il rinvio agli artt. 1,2,4 del d.lgs. n. 368 del 2001 si riferisce alla tipologia di atto oggetto di impugnazione e non al vizio denunciabile.
D’altro canto, come pure sopra ricordato, questa Suprema Corte non ha mai dubitato della applicabilità della decadenza anche all’azione con la quale si faccia valere in giudizio il superamento del limite massimo dei trentasei mesi e, proprio prendendo le mosse da detta applicabilità, ha affermato, e va qui ribadito, che, qualora il superamento derivi dalla stipulazione in successione di più contratti, è sufficiente che venga tempestivamente impugnato l’ultimo contratto «atteso che la sequenza contrattuale che precede l’ultimo contratto rileva come dato fattuale, che concorre ad integrare l’abusivo uso dei contratti a termine e assume evidenza proprio in ragione dell’impugnazione dell’ultimo contratto, concluso tra le parti, per far accertare l’abusiva reiterazione» (cfr. sempre Cass., Sez. L, n. 4960 del 16 febbraio 2023 e Cass., Sez. L, n. 34741 del 12 dicembre 2023, citate).
Avvalora, peraltro, tale ricostruzione il testo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 368 del 2001, come riformulato dal d.l. n. 34 del 2014, conv. dalla legge n. 78 del 2014, il quale stabilisce che è «consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato […]».
Se il contratto previsto ab origine, ovvero per effetto di eventuali proroghe, di durata superiore ai 36 mesi vede, infatti, proprio in virtù del richiamo a tale ipotesi dell’art. 32 comma 4, lett. a) della legge n. 183 del 2010, applicarsi de plano il termine di decadenza in parola, non vi è (evidentemente) alcuna ragione di operare un distinguo in relazione a fattispecie, sostanzialmente analoga, in cui il termine complessivo di 36 mesi viene superato per effetto di più contratti a termine oggetto di rinnovo oppure stipulati con periodi di interruzione fra l’uno e l’altro.
In conclusione, deve ritenersi che il previsto termine di decadenza trovi applicazione anche in relazione all’azione per l’accertamento dell’abusiva reiterazione dei contratti a termine e si può osservare che la ratio di tale disciplina risponde, appunto, all’esigenza di favorire la certezza delle situazioni giuridiche (cfr. sul punto Corte cost., sentenza n. 155 del 2014).
Nella specie, la corte di merito, se è vero che ha fatto erroneamente riferimento al termine di decadenza in relazione a ogni singolo contratto a tempo determinato, ha aggiunto, tuttavia, con accertamento di fatto che ha valenza decisiva e che non è stato specificamente censurato in sede di legittimità, che, anche in relazione all’ultimo contratto concluso inter partes, il termine di decadenza ex art. 32 legge n. 183 del 2010, cit., non era stato rispettato.
Ne consegue il rigetto del motivo.
2) Con il secondo motivo la ricorrente contesta l’eccessività della condanna a rifondere le spese.
Si tratta di censura inammissibile, in ragione della genericità e non essendo denunciato il mancato rispetto dei limiti massimi imposti dalla vigente normativa per la liquidazione dei compensi professionali.
3) Il ricorso è rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto (cfr., Cass. n. 5453 del 2025, cit.):
“Il termine di decadenza ex art. 32 della legge n. 183 del 2010, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012, trova applicazione anche in relazione all’azione per l’accertamento dell’abusiva reiterazione dei contratti a termine oltre il limite di 36 mesi, con decorrenza dall’ultimo (ex latere actoris) di tali contratti intercorsi tra le parti”.
Nessuna statuizione deve esservi in ordine alle spese di lite, attesa che gli Assessorati sono rimasti intimati.
i attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
Cass. civ., lav., ord., 24.07.2025, n. 21082