Il ricorso è infondato e, per alcuni profili, radicalmente inammissibile.
1. Le censure – di cui al primo motivo di ricorso ed ai motivi aggiunti – relative all’assenza dell’elemento oggettivo e soprattutto soggettivo, ovvero del dolo specifico, del reato di strage, non sono fondate.
La sentenza di primo grado ha dichiarato D.C.A. colpevole del delitto di strage, ritenendo che la “diretta percezione dell’accaduto”, la “strenua volontà dell’imputato di opporsi all’ingresso delle forze dell’ordine” e l’intento “pervicace di utilizzare l’accendino in un ambiente altamente pericoloso”, in quanto saturo di gas (sempre per l’azione posta in essere dal ricorrente), fossero elementi idonei a integrare il delitto contestato. Ha specificato che per la consumazione del reato di strage è sufficiente che l’agente abbia “esposto a concreto pericolo l’incolumità di più persone, a prescindere dalla verificazione di uno o più eventi letali” (così a p. 7 della detta sentenza del Giudice per le indagini preliminari).
La Corte d’assise d’appello ha confermato tale valutazione sulla base della “straordinaria potenzialità del mezzo usato”, correlata alla saturazione di gas del suo appartamento, avendo l’imputato aperto “le manopole del piano di cottura”, nel mentre teneva “in mano un accendino con il quale minacciava di far saltare in aria tutti i condomini del palazzo insieme a lui” (p. 6 sentenza d’appello). La stessa Corte ha disatteso la tesi secondo cui il D.C.A. mirasse solo al suo suicidio, tesi che, secondo la stessa Corte, obliterava “la finalità della condotta manifestata esplicitamente” dall’imputato. Come si rammenta nella sentenza impugnata, l’imputato aveva chiaramente proferito frasi minacciose nei riguardi dei condomini (quali: “(OMISSIS)”) e aveva costretto le Forze dell’ordine “a sfondare la porta e ad ammanettare il D.C.A., dopo una colluttazione con lo stesso, in quanto l’imputato aveva in mano un accendino che cercava di azionare” (pagine 6 e 7 sentenza d’appello).
Da soli, tali argomenti – rimasti non censurati e non altrimenti spiegati, da parte ricorrente – sono sufficienti a confermare, sul punto, la sentenza d’appello.
Invero, come evidenziato di recente, e proprio in un caso pressoché identico (in cui si sosteneva che l’intento del reo fosse puramente omicidiario, volendo egli uccidere “solo” i propri familiari, saturando di gas il loro appartamento, e non direttamente provocare la morte di altri ignari condomini e vicini, la cui vita era, però, stata oggettivamente messa in pericolo), «si è ritenuto di assegnare rilievo, quale elemento dimostrativo del dolo specifico, alla straordinaria potenzialità offensiva del mezzo usato, di per sé indicativa dell’evidente intenzione di cagionare la morte e di attentare in via indiscriminata alla vita di una molteplicità di soggetti passivi» (Sez. 1, n. 9520 del 03/12/2019, dep. 2020, Rv. 278502-02, in motivazione; così pure Sez. 1, n. 13988 del 14/07/1989, Hamdan, Rv. 182307-01 e Sez. 1, n. 706 del 23/03/1988, dep. 1989, Pantaleo, Rv. 180231-01).
Come chiarito dalla menzionata Sez. 1, n. 9520 del 03/12/2019, dep. 2020, Rv. 278502-02, il dolo specifico del delitto di strage «consiste nella coscienza e volontà di porre in essere atti che, al fine di uccidere anche una sola specifica persona, espongano a pericolo la vita di un numero indeterminato di soggetti». Dunque, non è necessario che l’azione sia precipuamente diretta a provocare la morte di una generalità indistinta di persone, bastando la consapevolezza che, per le micidiali modalità esecutive prescelte, al fine di attentare alla vita anche di un solo preciso bersaglio, si metta a repentaglio la vita di molti (in tal senso anche Sez. 1, n. 43681 del 13/05/2015, P.g. e altri in proc. Tornicchio e altri, Rv. 264747-01, in un caso di ritenuta strage per lo sparo di 5 colpi di fucile in uno spazio ristretto e affollato, col ferimento di nove persone e l’uccisione di una).
Al riguardo, è stato altresì rimarcato che, al fine di stabilire se l’uccisione di più soggetti integri il delitto di strage ovvero quello di omicidio volontario plurimo, l’indagine deve riguardare i mezzi usati, le modalità esecutive del reato e le circostanze ambientali che lo caratterizzano, sussistendo il primo se, per le peculiarità della fattispecie, si sia coscientemente messa in pericolo la vita e l’integrità fisica di una collettività indistinta di persone (così Sez. 2, n. 1695 del 13/01/1994, P.m., Rv. 196506-01, in un caso in cui, per le modalità dell’azione – aggressione posta in essere dagli appartenenti ad un’associazione criminosa nei confronti dei membri di un “clan” rivale all’interno di un locale pubblico, concentrando il fuoco delle armi solo contro gli avversari e senza il ricorso a mezzi di natura tale da mostrare di voler rischiare di coinvolgere un numero indeterminato di persone – è stato ritenuto assente il dolo del delitto di strage).
Tale conclusione è, peraltro, in linea con la configurazione del delitto di strage, nella sua definizione di base, quale fattispecie di pericolo: tanto che la morte anche di una sola persona integra l’ipotesi aggravata e comporta l’applicazione dell’ergastolo in luogo della reclusione non inferiore a quindici anni, ex art. 422, comma 2, cod. pen.
Naturalmente, il giudizio se ricorra, in ragione delle modalità dell’azione posta in essere, tale delitto è, come ogni valutazione fattuale, riservato al giudice del merito e risulta incensurabile, in sede di legittimità, ove congruamente motivato: e, nella specie, per quanto detto, i giudici di merito hanno compiutamente e razionalmente descritto come, per le modalità della condotta (minaccia di utilizzo di un accendino in un ambiente saturo di gas), il ricorrente abbia volutamente “esposto a concreto pericolo l’incolumità di più persone” (p. 7 della detta sentenza del Giudice per le indagini preliminari).
Da ultimo, sul punto, è opportuno aggiungere che, posto che il delitto è integrato allorché vi sia il fine di uccidere, è evidente che – per quanto tanto sia stato escluso, con valutazione immune da censure, dai giudici di merito, secondo cui l’azione era diretta proprio nei riguardi di chi abitava nello stabile in questione – ove pure il ricorrente avesse davvero inteso dirigere la sua azione solo contro sé stesso (come si sostiene nel ricorso), il menzionato presupposto normativo sarebbe stato, in ogni caso, pienamente integrato. Il fine di uccidere, insomma, resterebbe tale ove pure fosse stato rivolto unicamente nei riguardi dello stesso agente.
2. Anche il riconoscimento del parziale vizio di mente è stato considerato dalla Corte territoriale, che ha chiarito come si trattasse di una “parziale compromissione delle sue capacità cognitive”, effetto dell’assunzione abnorme di farmaci, non tale da escludere il dolo specifico, chiaramente emerso sulla base dei dati anzidetti.
Ed invero, in tema di elemento soggettivo del reato, l’accertamento del dolo va tenuto distinto da quello dell’imputabilità e deve avvenire con gli stessi criteri valevoli per il soggetto pienamente capace anche nei confronti del soggetto non imputabile (Sez. 6, n. 14795 del 08/04/2020, Rv. 278876-01 in tema di calunnia, laddove la Corte ha precisato che la verifica dell’elemento soggettivo deve avvenire sulla base dei fatti obiettivi, aventi valore sintomatico del fine perseguito dall’agente, senza che assumano rilevanza gli errori percettivi frutto di deliri psicotici, rilevanti solo nell’indagine sulla imputabilità; confronta, negli stessi termini: Sez.1, n.507 del 7/12/1993, dep. 1994, Mitrugno, Rv.196112-01)
Tale concetto è stato di recente ribadito, sottolineando che, «una volta che sia stato accertato l’elemento soggettivo sub specie di dolo diretto del reato di tentato omicidio, nessuna influenza ha, riguardo a esso, il vizio parziale di mente che inerisce alla sfera d’imputabilità dell’agente, posto che il dolo rappresenta la volontà del soggetto diretta all’evento che si è rappresentato e attiene alla colpevolezza, di modo che esso presuppone il superamento logico dell’analisi riguardante l’imputabilità e non può essere influenzato da questa quando venga accertato il vizio parziale di mente che rileva ai fini delle diminuzione della pena (cfr. Sez. 6, n. 4292 del 13/05/2014, dep. 2015, Rv. 262151; Sez. 6, n. 47379 del 13/10/2011, Dall’Aglio, Rv. 251183, per la riaffermazione del punto che l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla colpevolezza, inerente alla coscienza e volontà dell’atto)» (così Sez. 1, n. 17496 del 29/11/2022, dep. 2023, Losengo, Rv. 284502-01, in motivazione).
Siffatti principi vanno riaffermati anche in relazione all’ipotesi in cui l’indagine inerisca la sussistenza del dolo specifico, in capo a soggetto a capacità diminuita. Anche in tal caso l’indagine va compiuta con gli stessi criteri utilizzabili nei confronti del soggetto pienamente capace, e cioè avvalendosi di un procedimento logico inferenziale fondato sull’esame di fatti esterni e certi, aventi un sicuro valore sintomatico del fine perseguito dall’agente (Sez. 2, n. 9311 del 27/11/2018, dep. 2019, Timpanaro, Rv. 275525-01 in fattispecie in tema di tentata estorsione, nella quale la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione di merito che aveva dedotto la finalità di profitto perseguita dall’imputato, tossicodipendente affetto da disturbo bipolare e di personalità “borderline”, dalle richieste di denaro che avevano costantemente accompagnato le diverse manifestazioni violente e intimidatorie poste in essere in danno della madre; confronta, negli stessi termini, tra le più recenti: Sez. 3, Sentenza n. 7430 del 5/12/2023, dep. 2024, non massimata e Sez. 6, Sentenza n. 46362 del 15/9/2023, non massimata).
Naturalmente, la sussistenza della seminfermità mentale richiede una più approfondita verifica della ricorrenza del dolo specifico, caratterizzato da una più raffinata forma di volizione che trascende i soli limiti della condotta e dell’evento naturalisticamente inteso come tipica ed ordinaria conseguenza di detta condotta (Sez. 3, n. 13996 del 25/10/2017, dep. 2018, Rv. 273170-01, in motivazione; in tal senso pure: Sez. 6, n. 9202 del 17/10/2000, dep. 2001, Rv. 218410-01; Sez. 1, n. 600 del 12/11/1984, dep. 1985, Rv. 167467-01; Sez. 1, n. 10440 del 29/10/1984, Rv. 166803-01).
Nella specie, tuttavia, la Corte d’assise d’appello ha operato tale approfondita verifica. In particolare, ha considerato tutti gli elementi del caso: la micidiale potenzialità lesiva del mezzo utilizzato; le esplicite minacce, proferite dal ricorrente, di uccidere i condomini; il suo strenuo tentativo di azionare l’accendino, in un ambiente saturo di gas, nonostante l’intervento delle Forze dell’ordine; infine, l’incendio del portone e dei bidoni, logicamente attribuito al D.C.A., essendo contestuale ai fatti anzidetti (asserendosi che, nella “mente annebbiata” dell’imputato, tale condotta rappresentava una delle manovre “funzionali a bruciare lo stabile o comunque a inibire l’uscita dei condomini e far esplodere l’immobile e con esso i condomini”). Da tali ponderosi elementi, i giudici di merito hanno desunto la sussistenza anche dell’elemento soggettivo del delitto di strage, oltre che di quello di resistenza a pubblico ufficiale.
3. Quanto a quest’ultimo delitto, le doglianze di parte ricorrente sono state affrontate dal giudice d’appello con una motivazione che descrive in modo diretto la condotta e la consapevolezza dell’imputato di impedire l’intervento salvifico delle Forze dell’ordine: in virtù del posizionamento di due sedie dietro la porta e delle minacce con l’accendino per impedirne l’accesso nel suo appartamento. Pertanto, le sentenze di merito non presentano una omessa valutazione delle doglianze difensive su questi punti, avendo fornito risposte esplicite e assolutamente congrue.
Si tratta, in definitiva, di motivazione che non è affetta da manifesta illogicità, carenze o contraddizioni. Il ricorso, pertanto, mira ad una non consentita rivalutazione del materiale istruttorio, diversa da quella operata dalla Corte territoriale, la quale, per quanto detto, ha congruamente, e in modo conforme a diritto, motivato circa la sussistenza oggettiva e soggettiva del delitto di strage.
4. Circa la chiesta riqualificazione del reato di strage in delitto di crollo delle costruzioni (art. 434 cod. pen.), di cui al secondo motivo di ricorso, è evidente, per quanto detto, che la stessa sia manifestamente infondata.
La Corte territoriale ha chiaramente evidenziato che «il fine avuto di mira dal D.C.A. era il pericolo per l’incolumità pubblica e non la distruzione del palazzo in cui risiedeva, avendo agito al fine di mettere in pericolo la vita degli abitanti del palazzo. La distruzione del palazzo o la sua rovina, invero, non sono entrate nella rappresentazione delle conseguenze della sua azione operata dall’attuale appellante, che intendeva solo morire insieme a tutti i residenti del palazzo nella deflagrazione dello stabile che ha cercato di causare, saturando di gas il suo appartamento» (p. 8 sentenza d’appello).
Orbene, con interpretazione non condivisibile, parte ricorrente sostiene che in tal modo la Corte d’assise d’appello abbia affermato che l’imputato non volesse (anche) la “distruzione del palazzo o la sua rovina”, non entrate nella rappresentazione delle conseguenze della sua azione. In realtà, la sentenza d’appello parla chiaramente della “deflagrazione dello stabile” voluta dal D.C.A. e il senso delle sue affermazioni è che questi non mirasse (solo e semplicemente) alla detta “deflagrazione dello stabile”, bensì a provocare (con essa) la morte di chi vi abitava.
Insomma, per quanto sopra evidenziato è evidente che, secondo la logica ricostruzione operata dai giudici di merito, il crollo dello stabile fosse certamente voluto, ma altrettanto sicuramente meramente strumentale ad attentare alla vita, oltre che dello stesso D.C.A., di chi abitava al suo interno: e, in ragione delle menzionate devastanti potenzialità dannose dello strumento di morte utilizzato, certamente idonee – come congruamente dedotto dai giudici di merito – a porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone, come anzidetto, è evidente che, nella specie, ciò è sufficiente ad integrare il delitto di strage contestato.
Tanto si desume chiaramente dal raffronto delle due norme in questione. L’art. 422 cod. pen. sanziona, infatti, chiunque agisca «al fine di uccidere», mentre l’art. 434 cod. pen. – che, per espressa disposizione, è fattispecie residuale nel capo dedicato ai delitti contro l’incolumità pubblica (come si desume dall’incipit: «fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti») – sanziona chiunque «commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro». Dunque, è proprio la finalità dell’agire – uccidere taluno e, come anzidetto, anche sé stessi, in ipotesi, da un lato; tentare di causare il crollo, anche parziale, di una costruzione, o altro disastro – che, per come ricostruita dai giudici di merito, con un percorso motivazionale logico, rende nella specie palese l’infondatezza della chiesta riqualificazione.
Insomma, la consapevolezza del ricorrente (manifestata chiaramente a chi cercava di farlo desistere) di mettere in pericolo, proprio in ragione del voluto crollo dell’immobile, chi, in quel momento, era al suo interno, e dunque la consapevole direzione del suo agire a porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone, impedisce la detta riqualificazione.
Al riguardo è opportuno precisare nuovamente come questa Corte abbia già affermato che il dolo nel reato di crollo di costruzioni, pur intenzionale rispetto all’evento di disastro, può essere eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità (Sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, dep. 2011, Zonta, Rv. 249283-01).
Mutatis mutandis, analogo principio può essere affermato anche in questo caso, a fronte della ricostruzione, da parte dei giudici di merito, della certa direzione della condotta, da parte del ricorrente, al fine di uccidere sé stesso e gli abitanti dello stabile: e non, come detto, di far semplicemente crollare l’immobile (semplicemente accettando il rischio di mettere a repentaglio la pubblica incolumità).
5. Infondata, infine, è l’impugnazione della disposta misura di sicurezza della libertà vigilata, per assunta insussistenza di una “attuale pericolosità sociale”, in quanto – secondo parte ricorrente – il D.C.A. era pericoloso principalmente “per sé stesso” ed era, comunque, in cura presso l’Istituto di Igiene Mentale: tanto alla luce della chiara e dettagliata motivazione D.C.A. d’assise d’appello.
La stessa ha esplicitamente basato l’applicazione della misura sulla “accertata pericolosità sociale media” del D.C.A., come indicata dal perito, sottolineando la necessità di “supporto terapeutico e di continuo monitoraggio psicofarmacologico”. Ha inoltre chiarito che la pericolosità sociale riguarda la “tutela della collettività” e non è elisa dal fatto che l’imputato sia pericoloso anche per sé stesso. I precedenti episodi di ingestione non terapeutica di psicofarmaci e l’abbandono della terapia sono stati citati come elementi a sostegno della persistente pericolosità.
La Corte ha, altresì, escluso la rilevanza, al riguardo, del riconoscimento delle attenuanti generiche, poiché queste erano state concesse per motivi diversi dalla valutazione sulla pericolosità dell’imputato e, precisamente, per l’assenza di precedenti penali e per le sue difficoltà economiche.
La motivazione, pertanto, affronta direttamente e in modo coerente le argomentazioni della difesa, senza presentare vizi di manifesta illogicità o contraddittorietà nell’accertamento del requisito in discussione.
6. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di rigetto segue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Cass. pen., V, ud. dep. 20.08.2025), n. 29601