Obbligazioni e contratti – Tutela del credito – Il mutuo solutorio, una storia che continua. Legittimità, definizione e rimedi

Obbligazioni e contratti – Tutela del credito – Il mutuo solutorio, una storia che continua. Legittimità, definizione e rimedi

– il primo motivo è così rubricato: «Vizio di motivazione per mancata ammissione della richiesta di prova testimoniale. Vizio di violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione agli artt. 112 c.p.c., 1414, 1417 c.c. per avere la Corte di appello di Bologna escluso la ricorrenza, nel caso di specie, di un accordo simulatorio»;

– con il secondo motivo si deduce il «Vizio di violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 1815,1418,1419 e 1367 c.c. e motivazione contraddittoria per non avere la Corte di appello di Bologna affermato la nullità della clausola di determinazione degli interessi di mora di cui all’art. 3 del contratto di mutuo del 19/06/2014 e le relative conseguenze applicative»;

– con il terzo motivo si lamenta il «Vizio di violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 58 tub, 2697 c.c., 111, 115 e 116 c.p.c., per non avere la Corte di appello di Bologna verificato in concreto, secondo le risultanze processuali, se il presunto credito oggetto di causa rientrasse effettivamente o meno nel contratto di cessione in favore di (OMISSIS)»;

– la proposta di definizione del giudizio ha ritenuto che tutti i motivi di ricorso fossero inammissibili;

– con riferimento al primo motivo ha evidenziato che «Nel dedurre «vizio di motivazione per mancata ammissione della richiesta di prova testimoniale» i ricorrenti non si confrontano con la ratio decidendi adottata dal giudice del merito, il quale ha invece motivato il diniego di ammissione della prova testimoniale affermando che «tutte le suesposte argomentazioni», e cioè quelle concernenti la validità del c.d. mutuo solutorio, «escludono la rilevanza delle prove dedotte, volte a comprovare i presupposti in punto di fatto delle suddette deduzioni in diritto di cui si è appena evidenziata la infondatezza». La corte territoriale ha insomma con tutta chiarezza inteso dire che la narrazione articolata nella prova testimoniale non segnalava alcuna discrasia tra volontà e dichiarazione, bensì un programma negoziale che, ove pure svoltosi secondo l’originaria prospettazione attrice, era da ritenere vero e reale, oltre che lecito.

Orbene, il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (tra le tante Cass. n. 5654 del 07/03/2017): nel caso in esame, viceversa, la prova testimoniale era evidentemente superflua, visto che, ove pure riscontrata corrispondenza al vero delle circostanze prospettate, il contratto sarebbe rimasto, vero, reale e lecito»;

– in ordine al secondo motivo ha osservato che «Esso censura in realtà l’interpretazione data dalla corte d’appello della clausola contrattuale concernente il cumulo di corrispettivi e moratori, contrapponendo all’interpretazione data la propria, che sarebbe preferibile: ma è cosa nota che in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465Cass. 26 maggio 2016, n. 10891Cass. 14 luglio 2016, n. 14355). In particolare, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (Cass. 15 novembre 2013, n. 25728). D’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 2 maggio 2006, n. 10131Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899Cass. 16 febbraio 2007, n. 3644Cass. 20 novembre 2009, n. 24539Cass. 25 settembre 2012, n. 16254Cass. 17 marzo 2014, n. 6125)»;

– infine, in merito al terzo motivo, ha sottolineato che «I ricorrenti negano che la legittimazione attiva della cessionaria non fosse stata tempestivamente contestata, come invece ritenuto dalla corte d’appello: e però, nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ad onere probandi, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. 7 febbraio 2019, n. 3680), ferma restando la sindacabilità del giudizio per vizio motivazionale (Cass. 28 ottobre 2019, n. 27490). Ora, la genericità della contestazione constatata dal giudice di merito trova in effetti riscontro nella stessa esposizione contenuta in ricorso, giacché gli originari attori inizialmente «impugnano e contestano estensivamente le comparse di costituzione e risposta della (OMISSIS) nonché della (OMISSIS) – quest’ultima intervenuta nel giudizio ex art. 111 c.p.c., ed entrambe prive di legittimazione nonché di titolarità», contestazione in effetti all’evidenza del tutto generica, e solo in conclusionale hanno rilevato «il difetto di legittimazione e di titolarità del rapporto dal lato attivo in capo a (OMISSIS), non avendo la predetta società dimostrato che il preteso credito de quo agitur abbia fatto oggetto del contratto di cessione».

Ciò detto, indipendentemente dall’efficacia probatoria della produzione dell’avviso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale che rechi l’indicazione per categorie dei rapporti ceduti in blocco, quel che è indubbio, nella giurisprudenza di questa Corte, è che l’accertamento della ricomprensione di un certo rapporto nell’ambito del «blocco» oggetto di cessione è affare del giudice di merito (tra le tante Cass. n. 4277 del 10/02/2023Cass. n. 17944 del 22/06/2023), il quale, nella specie, ha effettuato la verifica, osservando che: «Da un lato, le risultanze dell’avviso di G.U., dall’altro lato, la generica e inefficace contestazione di parte appellante, inducono a ritenere provata la titolarità del credito pecuniario in capo a (OMISSIS) SRL», accertamento di merito sottratto al sindacato di questa Corte»;

– il Collegio condivide tali considerazioni;

– può aggiungersi, anche in replica alle osservazioni spiegate nella istanza di opposizione, che, come di recente autorevolmente affermato da questa Corte, con sentenza del 5 marzo 2025, n. 5841, resa a Sezioni Unite, il c.d. mutuo solutorio, ossia il mutuo seguito dalla contestuale o comunque immediata destinazione delle somme a ripianare debiti pregressi, è da intendersi perfettamente concluso con l’accredito delle somme sul conto corrente, in quanto ciò determina l’effettiva disponibilità giuridica delle stesse da parte del mutuatario, e ciò a prescindere dal successivo (logicamente, anche se cronologicamente contestuale) impiego delle somme, la cui destinazione è manifestazione di un differente interesse che sorregge un atto ulteriore, autonomo benché ovviamente dipendente dal primo, in quanto proprio dal primo reso possibile;

– ne consegue che il sintagma «mutuo solutorio» non definisce una figura contrattuale atipica, né diversa dal contratto tipico di mutuo, ma piuttosto «una valenza meramente descrittiva di un particolare utilizzo del mutuo»;

– ha aggiunto che «Non è dunque possibile qualificare il mutuo solutorio come pactum de non petendo in ragione della pretesa mancanza di un effettivo spostamento di denaro, poiché tale spostamento invece vi è ed è anzi presupposto dell’operazione: l’accredito in conto corrente delle somme erogate non solo è sufficiente ad integrare la datio rei giuridica propria del mutuo, ma anzi proprio la possibilità di un loro impiego è condizione per estinguere il debito già esistente»;

– ha, inoltre, concluso che la destinazione, ancorché immediata, delle somme mutuate ad estinzione di esposizioni pregresse, non presenta di per sé carattere di intrinseca illegittimità e osservato che una eventuale finalizzazione del c.d. mutuo solutorio al pregiudizio delle ragioni dei terzi rileva sotto il profilo dell’inefficacia (revocatoria ordinaria o fallimentare), ma non dell’invalidità, non verificandosi alcuna violazione di norme imperative, e che, ove si tratti di mutuo fondiario, la sua finalizzazione al ripianamento di debiti pregressi non configura una causa di nullità del contratto per mancanza di causa, avuto riguardo alla estraneità dello scopo del finanziamento dalla causa del contratto, rappresentata, al contrario, dall’immediata disponibilità di denaro, a fronte della concessione di una garanzia immobiliare ipotecaria, e dall’obbligo di restituzione della somma erogata;

– per le suesposte considerazioni, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile;

– le spese del giudizio seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo;

– poiché il giudizio è definito in conformità della proposta, va disposta la condanna della parte istante a norma dell’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 13 ottobre 2023, n. 28540);

– i ricorrenti vanno, dunque, solidalmente condannati, nei confronti di ciascuna parte controricorrente, al pagamento di una somma che può equitativamente determinarsi in euro 5.000,00, oltre che al pagamento dell’ulteriore somma di euro 2.500,00 in favore della Cassa delle ammende;

Cass. civ., I, ord., 09.10.2025, n. 27077

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