Tanto premesso in fatto, il ricorso è fondato e va accolto ai sensi e nei limiti di seguito precisati.
Va in primo luogo evidenziato – in linea con la giurisprudenza di settore – che la “sospensione cautelare in pendenza di procedimento penale”, adottata dall’Amministrazione in applicazione dell’art. 9 del D.P.R. n. 737 del 1981, integra una ipotesi di misura precauzionale (obbligatoria, ai sensi del comma 1, per “[l]‘appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, colto da ordine o mandato di cattura o che si trovi, comunque, in stato di carcerazione preventiva” e facoltativa, fuori di questo caso, ai sensi del successivo comma 2, “quando la natura del reato sia particolarmente grave”) di sospensione dall’impiego, la cui funzione è quella di allontanare il dipendente dal servizio al fine di evitare un pregiudizio per il buon andamento e il prestigio dell’Amministrazione e per la credibilità della stessa presso la collettività, in considerazione anche del particolare status dell’appartenente ai ruoli della Polizia di Stato, dalla cui permanenza in servizio nonostante la pendenza di un procedimento penale per reati gravi potrebbe derivare una generale sfiducia nei confronti dell’intera Istituzione (Cons. Stato, Sez. II, Sent., 17/07/2023, n. 6994). Essa dunque è frutto di scelte di cautela dell’Amministrazione che, malgrado la presunzione di innocenza dell’imputato-dipendente fino alla condanna con sentenza irrevocabile, risultano prioritarie per la preminente tutela degli interessi pubblici rilevanti coinvolti. Da qui la sua natura di provvedimento di portata interinale correlato ad una situazione di particolare gravità, che colloca il dipendente in una sorta di limbo, in quanto pur non estinguendosi il rapporto di pubblico impiego, esso rimane in vita in forma quiescente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30 gennaio 2001, n. 334).
In forza del disposto contrattuale, al dipendente sospeso è corrisposta un’indennità di natura assistenziale pari al 50% dello stipendio tabellare in godimento al momento della sospensione nonché gli assegni del nucleo familiare e la retribuzione individuale di anzianità, salvo conguaglio nel caso in cui il procedimento penale si concluda con una pronuncia di assoluzione con formula piena e il procedimento disciplinare, a esso correlato, si chiuda conseguentemente con un provvedimento di archiviazione (la c.d. restitutio in integrum). In tal caso, “la vita professionale deve essere integralmente ricostruita (mediante la ricordata restitutio in integrum, appunto), laddove la parentesi processuale e disciplinare si chiudano definitivamente, sia in termini di carriera, che in termini retributivi. E ciò tanto nel caso in cui interviene l’assoluzione del lavoratore con sentenza passata in giudicato (Cass. civ., Sez. lav., 5 marzo 2018, n. 5060), quanto addirittura in quello in cui il periodo di sospensione sofferto sia superiore alla condanna inflitta” (ancora, Cons. Stato, Sez. II, Sent., 17/07/2023, n. 6994).
Nel caso di specie, la ricorrente, obbligatoriamente sospesa dal servizio per la durata massima di cinque anni in applicazione dell’art. 9, comma 1, del D.P.R. n. 737 del 1981 in quanto -OMISSIS-per i reati a lei ascritti, è stata assolta con formula piena dal Tribunale penale di Palermo con sentenza n. -OMISSIS-, così maturando il diritto alla restitutio in integrum della propria carriera, ai fini giuridici ed economici, per il periodo di sospensione dal servizio. Si pone pertanto il quesito se la ricostruzione della carriera del dipendente in virtù dei principi testé indicati implichi o meno che il periodo di sospensione cautelare dal servizio vada computato anche ai fini della maturazione del diritto alle ferie.
Il Collegio è consapevole dell’esistenza dell’orientamento giurisprudenziale, richiamato dalla difesa erariale, in base al quale: “A seguito della revoca della sospensione cautelare, se pure spetta al pubblico dipendente la restitutio in integrum ai fini giuridici ed economici (i.e. alla ricostruzione della carriera, come nel caso di specie avvenuto), si deve escludere che fra tali diritti siano da ricomprendere anche quelli al godimento delle ferie ovvero alla loro monetizzazione. In tal senso, nel calcolo di quanto dovuto a titolo di restitutio in integrum, per il periodo di sospensione cautelare dal servizio in dipendenza di procedimento penale, devono essere computati gli emolumenti derivanti da prestazioni ordinarie di lavoro aventi natura di indennità fissa, obbligatoria e continuativa, restando invece esclusa ogni competenza accessoria che presuppone l’effettiva prestazione dell’attività lavorativa, tra cui il compenso sostitutivo delle ferie e dei riposi settimanali non goduti e le indennità per specifici servizi svolti” (T.A.R. Lazio Roma, II Stralcio, 30/06/2020, n. 7345; similmente T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII, 08/02/2018, n. 824; T.A.R. Lombardia, Sezione di Brescia, sent. n. 4998 del 29 dicembre 2010; Cons. Stato, Sez. IV, sent. n. 8118 del 10 dicembre 2003 e Sez. VI, sent. n. 2668 del 20 giugno 2003). Tuttavia, ritiene che tale orientamento debba essere rimeditato alla luce dei più recenti indirizzi interpretativi della giurisprudenza unionale.
Riguardo al diritto alle ferie annuali, l’art. 7 della direttiva 2003/88 enuncia quanto segue:
«1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. 2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro».
A questo proposito, la Corte di giustizia dell’Unione Europea (d’ora in avanti, Corte Ue) ha evidenziato che, come emerge dalla formulazione stessa dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88, ogni lavoratore beneficia di ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane. Tale diritto alle ferie annuali retribuite dev’essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, la cui attuazione da parte delle autorità nazionali competenti può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva 2003/88 stessa (sentenza del 29 novembre 2017, King, C-214/16, EU:C:2017:914, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).
Secondo una giurisprudenza costante della Corte Ue, il diritto alle ferie annuali, sancito dall’articolo 7 della direttiva 2003/88, ha una duplice finalità, ossia consentire al lavoratore, da un lato, di riposarsi rispetto all’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro e, dall’altro, di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione (sentenza del 20 luglio 2016, Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). Tale finalità, che distingue il diritto alle ferie annuali retribuite da altri tipi di congedo aventi scopi differenti, si fonda sulla premessa che il lavoratore abbia effettivamente lavorato durante il periodo di riferimento. Infatti, l’obiettivo di consentire al lavoratore di riposarsi presuppone che tale lavoratore abbia svolto un’attività che, per assicurare la protezione della sua sicurezza e della sua salute prevista dalla direttiva 2003/88, giustifica il beneficio di un periodo di riposo, di distensione e di ricreazione. Pertanto, i diritti alle ferie annuali retribuite devono, in linea di principio, essere determinati in funzione dei periodi di lavoro effettivo svolti in forza del contratto di lavoro (sentenza del 4 ottobre 2018, Dicu, C-12/17, EU:C:2018:799, punto 28 e giurisprudenza ivi citata).
Tuttavia, secondo la medesima Corte Ue, in talune situazioni specifiche nelle quali il lavoratore non è in grado di adempiere alle proprie funzioni, il diritto alle ferie annuali retribuite non può essere subordinato da uno Stato membro all’obbligo di avere effettivamente lavorato (v., in tal senso, sentenza del 24 gennaio 2012, Dominguez, C-282/10, EU:C:2012:33, punto 20 e giurisprudenza ivi citata). Ciò vale, in particolare, con riferimento ai lavoratori che sono assenti dal lavoro a causa di un congedo per malattia durante il periodo di riferimento. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza della Corte, per quanto riguarda il diritto alle ferie annuali retribuite, detti lavoratori sono assimilati a quelli che hanno effettivamente lavorato nel corso di tale periodo (sentenza del 4 ottobre 2018, Dicu, C-12/17, EU:C:2018:799, punto 29 e giurisprudenza ivi citata).
Al fine di derogare, per quanto riguarda i lavoratori assenti dal lavoro a causa di un congedo per malattia, al principio secondo cui i diritti alle ferie annuali devono essere determinati in funzione dei periodi di lavoro effettivo, la Corte Ue si è basata sul fatto che la sopravvenienza di un’inabilità al lavoro per causa di malattia è, in linea di principio, imprevedibile ed indipendente dalla volontà del lavoratore (v., in particolare, in tal senso, sentenza del 4 ottobre 2018, Dicu, C-12/17, EU:C:2018:799, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).
Analogamente, la Corte Ue – nel rispondere ai quesiti formulati in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di Cassazione italiana e da quella bulgara – ha rilevato che, come la sopravvenienza di un’inabilità al lavoro per causa di malattia, così il fatto che un lavoratore sia stato privato della possibilità di lavorare a causa di un licenziamento successivamente dichiarato illegittimo è, in via di principio, imprevedibile e indipendente dalla volontà di tale lavoratore, con la conseguenza che il periodo compreso tra la data del licenziamento illegittimo e la data della reintegrazione del lavoratore nel suo impiego, conformemente al diritto nazionale, a seguito dell’annullamento di tale licenziamento mediante una decisione giudiziaria, deve essere assimilato a un periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione dei diritti alle ferie annuali retribuite (cfr. sentenza del 25.06.2020, nelle cause riunite C-762 e C-37/19).
Adeguandosi a tale indirizzo ermeneutico, la Corte di Cassazione ha dal canto suo chiarito che il lavoratore che, dopo essere stato illegittimamente licenziato, sia stato reintegrato nel posto di lavoro a seguito dell’annullamento giudiziale del recesso, ha diritto all’indennità sostitutiva delle ferie, delle festività e dei permessi, maturati e non goduti nell’arco temporale tra il licenziamento e la reintegrazione, poiché, pur in assenza di lavoro effettivo, tale situazione deve essere equiparata – secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza 25 giugno 2020 (cause riunite C-762/18 e C-37/19) – a quella della sopravvenuta inabilità al lavoro per malattia, trattandosi in entrambi i casi di impossibilità di esecuzione della prestazione per cause imprevedibili e indipendenti dalla volontà del lavoratore (sentenza n. 6319 dell’8/03/2021).
Gli stessi principi operano, a ben considerare, nel caso sotteso al presente ricorso, dal momento che, come e forse più che nell’ipotesi di una assenza per malattia, il dipendente colpito ingiustamente da una misura cautelare custodiale (nella specie, gli arresti domiciliari) che ha comportato la doverosa applicazione da parte dell’Amministrazione di appartenenza della sospensione cautelare dal servizio a norma del diritto interno (art. 9, comma 1, del D.P.R. n. 737 del 1981) si trova nella impossibilità giuridica e materiale di rendere la prestazione lavorativa per una causa parimenti imprevedibile e del tutto indipendente dalla sua volontà. Egli ha quindi diritto, secondo quanto deriva dall’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 nell’interpretazione offerta dal giudice euro-unitario, a che, una volta riconosciuto innocente all’esito del processo penale e conseguentemente archiviato il procedimento disciplinare a suo carico, sia ricostruita la sua carriera professionale mediante il riconoscimento del periodo di sospensione cautelare dal servizio quale periodo “virtualmente” lavorato, non solo ai fini retributivi, ma anche ai fini della maturazione del diritto alle ferie.
La diversa interpretazione seguita tradizionalmente dalla giurisprudenza amministrativa (che esclude, come visto, ogni rilevanza del periodo di sospensione cautelare ai fini della maturazione del diritto alle ferie del dipendente, limitando in tal modo la portata degli effetti economici e giuridici della c.d. restitutio in integrum conseguente alla revoca della sospensione cautelare dal servizio) si pone invece in contrasto con gli indirizzi ermeneutici espressi dalla giurisprudenza euro-unitaria e dalla stessa Corte di Cassazione e non può pertanto essere accolta, vieppiù alla luce del dovere del giudice nazionale di fornire del diritto interno, ove possibile, una interpretazione conforme al diritto europeo, a questo adeguando all’occorrenza prassi applicative e indirizzi giurisprudenziali.
In conclusione, il ricorso va accolto, dovendo riconoscersi, alla luce dell’art. 7, comma 1 della Direttiva CE n. 88/2003, il diritto della ricorrente alla maturazione di ferie annuali retribuite per il periodo di sospensione cautelare dal servizio sofferto, senza sua colpa, dal 20 luglio 2016 al 20 luglio 2021. Va esclusa invece la monetizzazione delle ferie maturate nel periodo di riferimento, essendo la lavoratrice ancora in servizio e potendo la stessa ancora fruire dei giorni di ferie maturati nel quinquennio di sospensione, stante il divieto di trattamenti economici sostitutivi di ferie in costanza di rapporto di lavoro generalmente previsto per i dipendenti pubblici dall’art. 5, comma 8, del decreto-legge n. 95/2012, nonché a livello europeo dall’art. 7, comma 2, della Direttiva CE n. 88/2003 (cfr. CGUE, Sez. I, Sent. 18/01/2024, n. 218/22).
Le spese del giudizio possono essere compensate, tenuto conto della parziale novità della questione e dell’esistenza di un più risalente indirizzo giurisprudenziale in senso contrario.
TAR SICILIA – PALERMO, I – ordinanza 25.09.2025 n. 535