Industria e commercio – Rincaro sulle mascherine, manovre speculative e Covid-19

Industria e commercio – Rincaro sulle mascherine, manovre speculative e Covid-19

1. Il ricorso è infondato.

Il Tribunale ha condannato la P.R. perché aveva venduto le mascherine protettive con ricarichi assolutamente speculativi nei giorni del 22 febbraio e del 4 marzo 2020. La Corte di appello, invece, l’ha assolta perché, pur ritenendo che le mascherine erano dei beni di prima necessità e che erano state vendute a prezzi speculativi, ha escluso che la condotta della P.R. abbia prodotto significative conseguenze sul mercato interno, trattandosi della vendita di meno di novemila mascherine a fronte di un fabbisogno nazionale di decine di milioni di unità, e che abbia mai acquisito una posizione di preminenza nel mercato interno nella detenzione di tali beni.

Ritiene il Collegio che la pronuncia di assoluzione sia solidamente fondata sulla giurisprudenza di legittimità, ben conosciuta dalla Corte di appello, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di manovre speculative su merci, di cui all’art. 501-bis cod. pen., è necessario che la condotta speculativa, posta in essere da colui che esercita un’attività produttiva o commerciale con una certa stabile continuità, comporti un aumento ingiustificato dei prezzi di beni di prima necessità, tale da determinare – per le dimensioni dell’impresa, la notevole quantità delle merci oggetto della manovra e la possibile influenza sui comportamenti degli altri operatori del mercato – una situazione di serio pericolo e di eventuale nocumento per l’economica pubblica generale, con effetti, quindi, non limitati in un ambito meramente locale di mercato (Sez. 3, n. 36929 del 16/10/2020, Colucci, Rv. 280505- 01, con ampia disamina della fattispecie; conf. Sez. 6, n.14534 del 1989, Rv.182374; Sez. 6, n.2385 del 1983, Rv. 160958).

2. Il reato dell’art. 501-bis cod. pen. punisce le manovre speculative tali da determinare la rarefazione o il rincaro delle merci sul mercato interno (primo comma) o, in presenza di fenomeni di rarefazione o di rincaro sul mercato interno, la sottrazione all’utilizzazione o al consumo di rilevanti quantità di merci (secondo comma). La norma, introdotta dal decreto legge 15 ottobre 1976, n. 794, relativo alla “Repressione dell’accaparramento di merci di largo consumo e di altre manovre speculative”, convertito con modificazioni dalla legge 27 novembre 1976, n. 787, trova dei precedenti nel Codice Zanardelli, nel reato di cui all’art. 293, collocato nel libro secondo, titolo sesto, capo quinto, relativo alle frodi nei commerci, nelle industrie e negli incanti, e nel reato di cui all’art. 326, collocato nel libro secondo, titolo settimo, capo terzo, relativo ai delitti contro la sanità e l’alimentazione pubblica. I primi commentatori avevano criticamente rilevato, però, che sia l’art. 293 che l’art. 326 erano congegnati in modo da rendere assai difficile e problematica l’integrazione, o almeno l’accertamento, dei rispettivi reati, perché occorreva pur sempre che l’attività artificiosa del singolo avesse cagionato, di per sé sola, notevoli spostamenti nei prezzi del mercato, ciò che era assai difficile stabilire in pratica. Tuttavia anche in seguito alla riformulazione delle norme nel Codice Rocco, e cioè con l’art. 499, relativo alla distruzione di materie prime o di prodotti agricoli o industriali ovvero di mezzi di produzione tale da cagionare un grave nocumento alla produzione nazionale o far venir meno in misura notevole merci di comune o largo consumo (reato tuttora esistente nella sua originaria formulazione) e con l’art. 501, relativo al rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio, risultano confermati i limiti della produzione nazionale e del mercato interno dei valori e delle merci. La novella del 1976 ha riscritto l’art. 501 cod. pen. e ha introdotto l’art. 501-bis cod. pen., ma ha lasciato intatte le caratteristiche essenziali di delitti contro l’economia pubblica.

Il reato di cui all’art. 501-bis cod. pen. è un reato di pericolo (ma non vi è unanimità di vedute in dottrina se si tratti di un pericolo concreto o astratto), a dolo generico mentre per il reato dell’art. 501 cod. pen. è richiesto il dolo specifico di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, che può essere commesso da chiunque nell’esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale, per cui se la dottrina è divisa nella qualificazione del reato come comune o proprio, la giurisprudenza ha affermato che si tratta di reato proprio (si veda in motivazione la sentenza Colucci, pag. 6).

3. Nello specifico, il Pubblico ministero ricorrente ha censurato la sentenza di assoluzione perché aveva omesso di valutare se la condotta dell’imputata, di accaparramento di migliaia di mascherine per la successiva rivendita a prezzi esorbitanti, avesse posto concretamente in pericolo il mercato interno, ai fini dell’integrazione della condotta sia del primo che del secondo comma dell’art. 501-bis cod. pen. La Corte di appello ha invece accertato, differentemente da quanto prospettato, che la P.R. aveva acquisito (e rivenduto a prezzi speculativi) meno di novemila mascherine e ha concluso che non aveva determinato un concreto pericolo per il mercato interno, avuto riguardo al fabbisogno nazionale specifico di milioni di mascherine a causa della pandemia da coronavirus Sars- Covid 19. Il Pubblico ministero ricorrente, che del pari ha mostrato convinta adesione ai principi di diritto affermati dalla sentenza Colucci, ha lamentato anche che la Corte territoriale non aveva specificato l’ambito territoriale di riferimento. E’ pacifico in giurisprudenza che la nozione di “mercato interno” si riferisca non solo al mercato nazionale, ma anche al “mercato locale”, sempre che il pericolo della realizzazione degli eventi dannosi riguardi una zona abbastanza ampia del territorio dello Stato, in modo da poter nuocere alla pubblica economia (Sez. 6, n. 14534 del 15/05/1989, Salerno, Rv. 182374-01, che ha escluso il reato perché il fatto era circoscritto alla vendita soltanto di due generi di prodotti ortofrutticoli, patate e zucchine, e la condotta era stata posta in essere da un singolo ed isolato dettagliante; Sez. 6, n. 2385 del 02/03/1983, Perossini, Rv. 160958 – 01, che ha escluso il reato, perché erano stati sottratti circa tremila quintali di zucchero, comportamento stimato di portata non sufficientemente ampia e tale da costituire un serio pericolo per la situazione economica generale). E tale interpretazione è in linea di continuità con il citato precedente di questa Sezione, Colucci, relativo a un caso di mascherine da pandemia, nonché con i pochi precedenti noti che hanno avuto a oggetto l’art. 501-bis cod. pen., e ha trovato un positivo riscontro in dottrina. Sono rimasti isolati, infatti, i precedenti di merito che avevano ritenuto configurabile il reato a fronte di mere condotte speculative aventi a oggetto poche migliaia di mascherine. Ben vero, la Corte di appello non ha specificato se il mercato interno fosse quello locale o quello nazionale, sebbene sia un fatto notorio che durante la pandemia si sia reso necessario il consumo di milioni di mascherine, sia a livello locale, sia a maggior ragione a livello nazionale, mascherine che, inizialmente, erano difficilmente reperibili sul mercato a causa della domanda imprevista e sproporzionata in relazione agli ordinari quantitativi disponibili in precedenza. Come detto, la condotta lesiva deve avere una particolare capacità pervasiva ed espansiva dell’aumento dei prezzi tale da contagiare una fetta significativa di mercato, circostanza esclusa nel caso in esame dalla Corte di appello che ha anche precisato che la scarsità di beni sul mercato non è dipesa dalla condotta speculativa della P.R., ma dalle contingenze, e ha concluso il ragionamento con l’assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste, sebbene nel dispositivo abbia assolto perché il fatto non costituisce reato. La motivazione è immune da censure.

Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Bari debba essere rigettato.

Cass. pen., III, ud. dep. 04.11.2025, n. 35936

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