Industria e commercio – Istallazione del GPS sull’autovettura, no all’autorizzazione giudiziaria

Industria e commercio – Istallazione del GPS sull’autovettura, no all’autorizzazione giudiziaria

1. L’unico motivo di ricorso formulato nell’interesse dell’imputato Hy.Ad. e di cui al superiore par. 2.2.1 è in parte manifestamente infondato ed in parte inammissibile tout court ai sensi dell’art. 606, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen.

Manifestamente infondata è infatti la deduzione difensiva secondo la quale sarebbe stato posto in essere da parte della Corte di appello un atto discriminatorio nei confronti del ricorrente rispetto ai coimputati in quanto i Giudici territoriali hanno revocato nei confronti di Ti.Kr., Ti.Ni. e di Hy.Ad. la misura di sicurezza dell’espulsione dello Stato, ma non hanno provveduto in tal senso anche per Hy.Ad.omettendo quindi di motivare sul punto.

In realtà, come si evince dalla sentenza impugnata e dal successivo provvedimento di correzione di errore materiale del dispositivo in data 16 ottobre 2024, sembra essere sfuggito alla difesa del ricorrente che l’unico soggetto nei quali è stata motivatamente revocata la predetta misura di sicurezza è l’imputato Nd.Au.

A ciò si aggiunge che detta misura di sicurezza era già stata applicata dal Tribunale ma la relativa statuizione non era stata oggetto di impugnazione, né la revoca della stessa è stata oggetto del concordato di cui all’art. 599-bis cod. proc. pen., con la conseguenza che trattandosi di questione non dedotta con l’atto di appello e non rilevabile d’ufficio il motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 606, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen.

Infatti, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dall’odierno Collegio, “in tema di ricorso per cassazione, la regola ricavabile dal combinato disposto degli artt. 606, comma terzo, e 609, comma secondo, cod. proc. pen. – secondo cui non possono essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei motivi di appello, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o di quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello – trova la sua “ratio” nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso, non investito dal controllo della Corte di appello, perché non segnalato con i motivi di gravame.” (Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013, Bonaffini, Rv. 256631).

2. I ricorsi formulati nell’interesse degli imputati Hy.Ad., Ti.Ni. e Ti.Kr. (tutti perfettamente sovrapponibili nel contenuto) nei quali si è contestata la mancanza o la mera apparenza della motivazione della sentenza impugnata in relazione alle cause di assoluzione degli imputati sono inammissibili.

Fermo restando che la Corte di appello ha evidenziato (pag. 15) che non ricorrevano le condizioni per pronunciare sentenza di assoluzione nei confronti degli imputati, è appena il caso di ricordare che ai fini dell’accesso al concordato di cui all’art. 599-bis cod. proc. pen. i ricorrenti hanno espressamente rinunciato a tutti i motivi di appello (quindi anche quelli nei quali contestavano l’affermazione della penale responsabilità) con la conseguenza che non possono ora dolersi di una assenza di motivazione sul punto ed è pacifico in giurisprudenza che il concordato processuale non può essere unilateralmente abbandonato attraverso la riproposizione, con il ricorso per cassazione, di questioni che con lo stesso concordato siano state rinunciate (Sez. U, n. 19415 del 27/10/2022, dep. 2023, Fazio, Rv. 28448 in motivazione; Sez. 2, Ord. n. 50062 del 16/11/2023, Musella, Rv. 285619).

3. Il primo motivo di ricorso formulato nell’interesse dell’imputato Nd.Au. nel quale si contesta la legittimità dell’uso ai fini probatori dei dati di positioning emersi dal rilevamento del sistema GPS installato sull’autovettura Golf tg. (Omissis) è, per le ragioni che si andranno ad illustrare, sotto certi profili inammissibile tout court e sotto altri manifestamente infondato.

Come ha correttamente rilevato la Corte di appello, questa Corte di legittimità ha già avuto modo reiteratamente di chiarire che la localizzazione degli spostamenti tramite sistema di rilevamento satellitare GPS (c.d. pedinamento elettronico) è mezzo di ricerca della prova atipico non implicante un accumulo massivo di dati sensibili da parte del gestore del servizio, sicché le relative risultanze sono utilizzabili senza necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, non trovando applicazione per analogia la disciplina di cui all’art. 132, comma 3, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e successive modifiche, in tema di tabulati, e neppure i principi affermati dalla sentenza della CGUE del 05/04/2022, C. 140/2020, relativa alla compatibilità di “data retention” con le Direttive 2002/58/CE e 2009/136/CE, sul trattamento dei dati personali e la tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni (cfr., in tal senso, da ultimo, Sez. 2, n. 37395 del 18/09/2024, Bianchini, Rv. 286949 – 01; conf. anche Sez. 6, n. 15422 del 09/03/2023, Bonfirraro, Rv. 284582 – 01; Sez. 2, n. 21644 del 13/02/2013, Badagliacca, Rv. 255542 – 01).

A ciò si aggiunge che questa Corte di legittimità ha, altresì, ulteriormente chiarito che il pedinamento attraverso il sistema di rilevamento satellitare è uno strumento investigativo ricompreso tra i compiti istituzionali di cui la polizia giudiziaria fa legittimo uso e, quindi, pienamente utilizzabile nel processo penale senza necessità di autorizzazione preventiva da parte dell’Autorità Giudiziaria, in quanto non si risolve in una interferenza con il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, nè in una lesione dell’inviolabilità del domicilio (ex plurimis: Sez. 4, n. 21856 del 21/04/2022, Bresciani, Rv. 283386-01; Sez. 2, n. 23172 del 04/04/2019, M, Rv, 276966), ciò in quanto il sistema di localizzazione satellitare registra i movimenti dei mezzi allo stesso modo in cui sarebbero registrati dal personale di polizia giudiziaria nel corso del pedinamento e trasferiti in annotazioni di servizio.

Manifestamente infondata risulta, pertanto, la pretesa della difesa del ricorrente di rimettere in discussione detti consolidati principi, tanto da farne discendere l’inutilizzabilità delle risultanze acquisite dalla polizia giudiziaria, in ragione della decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 5 aprile 2022, C.140/2020.

Ma nel caso di specie, al di là dei consolidati principi di diritto sopra richiamati e della eventuale permanente attualità degli stessi alla luce delle sentenze delle Corti europee richiamate nel ricorso, si impongono alcune risolutive osservazioni in forza delle quali risulta preclusa la possibilità di disporre, come invocato da parte ricorrente, un rinvio pregiudiziale della normativa italiana alla CGUE ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) al fine di verificare se, in forza dei principi stabiliti dalla stessa CGUE nelle sentenze richiamate dalla parte ricorrente, sarebbe possibile utilizzare ai fini processuali l’acquisizione dei dati relativi all’ubicazione di un soggetto e alle sue condotte in assenza di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria e di una espressa previsione normativa sul punto.

Al fine di operare tale valutazione occorre partire da una constatazione preliminare: il ricorso in esame presenta sul punto un profilo di assoluta genericità in quanto dopo avere astrattamente illustrato le ragioni per le quali le emergenze del rilevamento dell’apparato GPS istallato sull’autovettura Golf (in realtà gli apparati furono due in quanto uno di essi fu installato in un borsone ma nel ricorso non se ne fa menzione) sarebbe inutilizzabile a fini probatori, parte ricorrente non ne trae le conseguenze in relazione all’intervenuta affermazione delle penale responsabilità dell’imputato Nd.Au..

Sul punto deve infatti essere ricordato che questa Corte ha già avuto reiteratamente modo di chiarire che “È inammissibile per aspecificità il ricorso per cassazione con cui si eccepisce l’inutilizzabilità di un elemento probatorio senza dedurne la decisività in forza della cd. “prova di resistenza”, ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato” (ex ceteris: Sez. 3, n. 39603 del 03/10/2024, Izzo, Rv. 287024 – 02).

Basterebbe ciò per ritenere concluso l’esame del motivo di ricorso de quo stante l’inammissibilità dello stesso.

Tuttavia, per solo dovere di completezza, si impongono alcune ulteriori osservazioni.

Deve, infatti, evidenziarsi che il primo comma dell’art. 267 del TFUE prevede che il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia può essere fatto solo se si ponga una questione sull’interpretazione dei trattati o sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.

La stessa norma poi prevede ai commi 2 e 3 due diversi scenari: quello in cui le questioni pregiudiziali vengono sollevate da organi giurisdizionali le cui decisioni siano appellabili e quelle sollevate da organi giurisdizionali di ultima istanza.

Mentre nel primo caso il giudice ha la facoltà di sollevare la questione presso la CGUE nel secondo caso ne avrebbe l’obbligo e la ratio è chiara: essendo un organo giudicante di ultima istanza c’è la massima preoccupazione che il diritto europeo venga applicato correttamente e ne venga chiarita la validità, non essendo più possibile impugnare la decisone dinnanzi altri organi.

È, tuttavia, pacifico che il rinvio pregiudiziale può essere sollevato solo qualora la questione sia indispensabile per la risoluzione della controversia pendente avanti gli organi interni, non invece nei casi in cui nulla aggiungerebbe alla questione interna l’interpretazione o la validità della norma europea.

La stessa Corte di Giustizia (v. Grande Sezione, 6 ottobre 2021, causa C-561/19) ha chiarito che “… L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione”.

Il tema è stato altresì affrontato in altra decisione della Corte di giustizia che, con la sentenza del 6 ottobre 1982, Srl CILFIT e Lanificio di Gavardo Spa contro Ministero della sanità, si è pronunciata sull’obbligo del rinvio, all’epoca previsto dall’art. 177 del Trattato CEE, il cui contenuto è stato trasfuso nell’art. 267 TFUE, sicché deve considerarsi tuttora valida l’affermata esclusione dell’obbligatorietà del rinvio, in presenza di questioni manifestamente infondate o non rilevanti.

La giurisprudenza interna, sia pur in sede civile, ha recepito tale principio, ritenendo che non sussiste alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE, ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse, ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Sez. L, n. 14828 del 7/6/2018, Rv. 648997).

In tal senso, peraltro, si sono espresse anche le Sezioni Unite civili, affermando che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità (Sez. U. civ., n.20701 del 10/9/2013, Rv. 627458).

Tali precedenti consentono di affermare che, pure in sede penale, la Corte di cassazione non è obbligata a disporre il rinvio pregiudiziale alla CGUE sulla base della mera richiesta di parte, dovendo preliminarmente verificare se la questione dedotta attiene o meno all’interpretazione del diritto comunitario e se è rilevante nel giudizio de quo, nonché se la disposizione comunitaria ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero se la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.

Osserva l’odierno Collegio che nel caso in esame, la questione deve essere valutata sotto il profilo della “rilevanza” ai fini della decisione del processo de quo. Non sfugge, infatti, la circostanza che la difesa del ricorrente dedica la parte principale del proprio ricorso a contestare l’utilizzabilità dei rilevamenti dei tracciati GPS trascurando il fatto che la decisione della Corte di appello è stata adottata prescindendo dalla utilizzazione ai fini probatori dei dati de quibus. È, infatti, sufficiente leggere l’inciso di cui a pag. 16 della sentenza impugnata, laddove la Corte territoriale nell’affermare l’esistenza della associazione e la partecipazione alla stessa di Nd.Au. così testualmente si esprime: “… potendosi tra l’altro prescindere dagli esiti dell’attività di pedinamento e quindi dagli spostamenti dell’appellante e dei suoi sodali”.

Ne consegue, pertanto, che nel caso in esame il nucleo probatorio centrale del processo non è di certo costituito dagli spostamenti dell’autovettura (o del borsone) quanto, piuttosto, con quanto verificato degli inquirenti per constatazione visiva diretta: si pensi al caso del controllo operato dal personale di P.G. in ordine ai passeggeri dell’autovettura Golf, o ancora – e soprattutto – agli esiti delle perquisizioni compiute in data 16 dicembre 2016 e dei beni in tali occasioni rinvenuti che hanno consentito di ricollegare gli imputati ai luoghi ove erano collocati i beni di provenienza illecita nonché ai veicoli.

Del resto, è sufficiente leggere la sentenza impugnata per rilevare che:

a) il controllo degli occupanti (tra cui Nd.Au.) dell’autovettura Golf operato in data 5 novembre 2026 è stato operato personalmente dal personale di P.G.;

b) il fatto che l’apparato GPS installato sull’autovettura Golf abbia documentato gli spostamenti del veicolo in R, nelle M e nel V è un dato probatorio del tutto irrilevante sia perché non documenta chi si trovava a bordo del veicolo in quelle occasioni, ma soprattutto perché non è contestato agli imputati di avere commesso azioni delittuose (furti in abitazione) in quei luoghi ma solo la ricettazione dei beni provento di azioni delittuose di natura predatoria che ben può essere avvenuta ovunque;

c) anche gli spostamenti del borsone (all’interno del quale era stato installato un secondo apparato GPS) appaiono avere una valenza neutra perché l’unico elemento che al riguardo appare rilevante è che il personale di P.G. ha rilevato visivamente in data 12 dicembre 2016 che da una autovettura BMW provento di furto ai danni di tale Antonino Spera erano discesi di notte alcuni soggetti tra cui Ti.Ni. che avevano provveduto al trasbordo di borse in nylon nero dal baule della BMW al bagagliaio della Golf;

d) il fatto che il borsone, trovato poi dagli inquirenti nel bagagliaio della BMW, tra il 14 ed il 16 dicembre fosse stato rilevato nei pressi dei luoghi ove erano stati compiuti alcuni furti è altresì dato irrilevante poiché – lo si ribadisce – non è contestato agli imputati il compimento di alcun furto né è indicato alcun elemento probatorio al riguardo.

Il nucleo principale dell’impalcatura accusatoria, come si evince dalle sentenze di merito, risiede infatti:

a) negli esiti delle perquisizioni effettuare in data 16 dicembre 2016 negli appartamenti di B, via (omissis) e di C , via (Omissis) e via (Omissis) che hanno portato al rinvenimento di un elevato numero di beni (borse, gioielli, orologi, pietre preziose, apparati informatici di valore) di provenienza delittuosa dei quali gli imputati non sono stati in grado di indicare la provenienza od il titolo di possesso;

b) che le chiavi di veicoli di provenienza delittuosa quali la BMW di cui si è detto e una Audi sono state rinvenute nell’appartamento di via (Omissis) in uso agli imputati Ti.Ni. e Ti.Kr.;

c) che l’imputato Nd.Au. è stato trovato il 16 dicembre 2016 all’interno dell’appartamento di via (Omissis) del quale era pure in possesso di una ricevuta relativa alla locazione;

d) che lo stesso Nd.Au. era stato trovato anche in possesso delle chiavi dell’appartamento di via (Omissis;

e) che le chiavi della Golf sono state rinvenute all’interno dell’appartamento di via (Omissis);

f) che nell’appartamento di via Bazzanese erano peraltro stati reperiti due orologi uno dei quali di marca di marca Patek Philippe ritenuto provento di furto ai danni di tale Ze.An.;

g) che la refurtiva denunciata come sottratta alla persona offesa Di.Ri. parte di essa è stata rinvenuta nell’appartamento di via (Omissis) ed altra parte in quello di via (omissis);

h) che i collegamenti tra gli imputati e tra gli imputati ed i luoghi ove sono stati rinvenuti i beni di provenienza illecita sono stati ricavati non dagli spostamenti dell’autovettura o del borsone (quest’ultimo neppure contestato dalla difesa del ricorrente) ma dalla omogeneità della refurtiva rinvenuta nei tre appartamenti, nel fatto che tutti gli imputati avevano viaggiato con la Golf, nel fatto che benché le chiavi della Golf sono state rinvenute nell’appartamento di via (Omissis) sulla stessa viaggiavano anche coloro che occupavano l’appartamento di via (Omissis) nonché il Du.Sa., nel fatto che nell’appartamento di via (Omissis) vi erano le chiavi della BMW che conteneva una borsa con attrezzi da scasso, nel fatto che, come detto, i beni sottratti alla Lauro sono stati trovati in parte in via (Omissis) ed in parte in via (Omissis).

Da ciò ne consegue la sostanziale irrilevanza dei dati estrapolati dai sistemi GPS ai fini probatori, in quanto l’eliminazione degli stessi dal compendio probatorio non ha finito per intaccare l’impalcatura accusatoria che consiste in ben altri elementi.

La corte di appello ha, quindi, fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale “Il giudice dell’impugnazione non è tenuto a dichiarare preventivamente l’inutilizzabilità della prova contestata qualora ritenga di poterne prescindere per la decisione, ricorrendo al cosiddetto “criterio di resistenza”, applicabile anche nel giudizio di legittimità” (Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, De Matteis, Rv. 270303 – 01).

Né, infine, si potrebbe sostenere – neppure la difesa del ricorrente lo deduce – che l’eventuale inutilizzabilità dei dati che hanno portato alla localizzazione degli immobili dove sono stati rinvenuti i beni di provenienza illecita, inficerebbe la validità degli esiti dei sequestri compiuti, essendo consolidato il principio secondo il quale l’eventuale illegittimità dei presupporti e degli atti di perquisizione compiuti ad opera della polizia giudiziaria non comporta effetti invalidanti sul successivo sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, che costituisce un atto dovuto.

4. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso risultano meritevoli di trattazione congiunta e sono tutti manifestamente infondati.

Occorre, innanzitutto, evidenziare che la sentenza del Tribunale e quella di appello relativamente alla affermazione della penale responsabilità dell’imputato Nd.Au. costituiscono una cd. “doppia conforme” e ricordare che, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).

Osserva il Collegio che, quanto al reato associativo, di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni sia il Tribunale che la Corte di appello hanno debitamente illustrato le ragioni, in fatto ed in diritto, per le quali hanno ritenuto la sussistenza del sodalizio e la partecipazione allo stesso dell’imputato Nd.Au.

In particolar modo sia il Tribunale che la Corte di appello hanno nel dettaglio incrociato tutti gli elementi emersi nel corso delle indagini che consentono di ricondurre ad unità le azioni contestate agli imputati, ivi compreso Nd.Au., evidenziando come “il gruppo poteva contare su appartamenti composseduti o comunque a cui gli appellanti potevano accedere e su auto – anche provento di furti – in cui e con cui trasportare e detenere oggetti che erano provento di attività predatorie” altresì precisando che “si tratta di un tipo di attività che non necessita di una particolare o raffinata organizzazione o suddivisione in ruoli, in quanto consistente – nella sua manifestazione – nel semplice acquisto, ricezione, trasporto e custodia di beni derivanti da imprese delittuose”.

Osserva il Collegio che corretta appare la valutazione in diritto compiuta sul punto dai Giudici di merito avendo questa Corte di legittimità, fin da tempi remoti, stabilito che “Per la configurazione del delitto di associazione per delinquere è irrilevante la sussistenza, o meno, di una specifica e complessa organizzazione di mezzi, essendo bastevole anche una semplice e rudimentale predisposizione di mezzi, ovvero il valersi di mezzi già esistenti, purché tutto ciò si dimostri, in concreto, sufficiente alla realizzazione del programma delinquenziale, per il quale il vincolo associativo si è instaurato ed è perdurato” (Sez. 1, n. 3161 del 05/12/1994, del 1995, Semeraro, Rv. 200684 – 01).

Non è, poi, elemento essenziale per la configurabilità del reato associativo una ripartizione e diversificazione dei ruoli dei singoli associati ben potendo gli stessi partecipare al sodalizio con condotte identiche e paritarie, tra loro interscambiabili a seconda delle necessità.

Il Tribunale ha, poi, debitamente evidenziato che nel caso in esame ci si trovava in presenza di un programma delinquenziale indeterminato che spaziava da un luogo ed un obbiettivo all’altro il che porta a ritenere che se i soggetti non fossero stati fermati avrebbero proseguito nelle loro imprese criminali.

Analoga valutazione risulta essere stata effettuata dalla Corte di appello.

A nulla rileva, poi, la circostanza che la provata durata del vincolo associativo non sia stata particolarmente elevata essendo le indagini state portate a conclusione non molto tempo dopo il loro inizio dato che “Ai fini della configurabilità del reato di partecipazione a un’associazione per delinquere comune o di tipo mafioso, non è necessario che il vincolo tra il singolo e l’organizzazione si protragga per una certa durata, ben potendo, al contrario, ravvisarsi il reato anche in una partecipazione di breve periodo” (Sez. 5, n. 18756 del 08/10/2014, dep. 2015, Buondonno, Rv. 263698 – 01).

Quanto, poi, alla questione dedotta nel ricorso in esame circa il fatto che al più ci si potrebbe trovare in presenza di un concorso di persone nel reato continuato (nella specie di ricettazione) e non di una fattispecie associativa, deve essere evidenziato che, come emerge dalle sentenze di merito ci si trova in presenza di un elevato numero di beni provento di azioni predatorie compiute in tempi diversi il che, unito agli altri elementi sopra evidenziati, è forte indice della permanenza di una struttura delinquenziale stabile che prescinde dalla consumazione dei singoli reati scopo, con la conseguenza che risulta essere stata fatta corretta applicazione del principio secondo il quale “Nel concorso di persone nel reato continuato l’accordo criminoso è occasionale e limitato, in quanto volto alla sola commissione di più reati ispirati da un medesimo disegno criminoso, mentre le condotte di partecipazione e promozione dell’associazione per delinquere presentano i requisiti della stabilità del vincolo associativo e dell’indeterminatezza del programma criminoso, elementi che possono essere provati anche attraverso la valutazione dei reati scopo, ove indicativi di un’organizzazione stabile e autonoma, nonché di una capacità progettuale che si aggiunge e persiste oltre la consumazione dei medesimi” (Sez. 2, n. 22906 del 08/03/2023, Bronzellino, Rv. 284724 – 01).

Quanto agli elementi che ricollegano Nd.Au. al reato associativo ed ai consociati non possono poi che richiamarsi gli elementi ampiamente indicati nelle sentenze di merito non senza aggiungere che “In tema di associazione per delinquere, la esplicita manifestazione di una volontà associativa non è necessaria per la costituzione del sodalizio, potendo la consapevolezza dell’associato essere provata attraverso comportamenti significativi che si concretino in una attiva e stabile partecipazione” (Sez. 2, n. 28868 del 02/07/2020, De Falco, Rv. 279589 – 01).

Anche quanto agli elementi che ricollegano l’imputato Nd.Au. alle ricettazioni contestate, i Giudici del merito risultano averli adeguatamente illustrati (v. pagg. da 11 a 14 della sentenza del Tribunale e da 17 a 18 della sentenza di appello) e la Corte territoriale ha anche fornito adeguata risposta alla questione degli orologi (marche Patek Philippe e Belmont) di cui ha parlato il teste Ze.An.

A ciò si aggiunge che nessuno degli imputati (ivi compreso Nd.Au.) risulta avere fornito attendibili spiegazioni alternative circa la ricostruzione delle vicende e circa le ragioni del possesso di beni di illecita provenienza e che, per prova logica, le modalità di detenzione dei beni in sequestro, la commistione tra gli stessi, unite alla già menzionata assenza di elementi giustificativi legati alla loro acquisizione, porta a ritenere la provenienza illecita di tutti i beni sequestrati.

Non ritiene, infine, il Collegio di ravvisare, in relazione a quanto segnalato nel ricorso in esame, alcun travisamento degli elementi probatori tale da incidere sulla tenuta dell’impalcatura accusatoria che ha portato alla condanna dell’imputato, ricordando, peraltro, che in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965).

Dal punto di vista processuale rimane, innanzitutto, da evidenziare la manifesta infondatezza del profilo di ricorso nel quale è stata dedotta l’inutilizzabilità per violazione dell’art. 195 cod. proc. pen. delle dichiarazioni del teste di polizia giudiziaria Di. laddove lo stesso ha riferito che, in una occasione, alcuni suoi colleghi avrebbero rinvenuto Nd.Au. nell’abitazione di via Bazzanese ove sono stati trovati due orologi provento di reato e che è stata rinvenuta nell’abitazione di via (Omissis) una chiave corrispondente all’appartamento di via (Omisssis).

Ritiene il Collegio che nessun vizio è ravvisabile nell’utilizzazione delle predette dichiarazioni testimoniali, ed osserva che la Corte di appello (pag. 18) ha, da un lato, dato atto che, pur trattandosi di dichiarazioni de relato, la difesa dell’imputato non ha avanzato richiesta ai sensi dell’art. 195, comma 1, cod. proc. pen. e, dall’altro, che gli elementi desumibili dalle dichiarazioni del teste Di. sono comunque ricavabili da altri elementi procedimentali.

Sul punto questa Corte di legittimità ha, comunque, chiarito che “Nel giudizio di appello sono utilizzabili, senza che ciò determini violazione dell’art.195, comma 1, cod. proc. pen., le dichiarazioni “de relato”, qualora nel giudizio di primo grado la difesa non avesse richiesto l’audizione del teste diretto, per implicito rinunciando ad avvalersi del diritto a procedere al suo esame” (Sez. 6, n. 12982 del 20/02/2020, L., Rv. 279259 – 01).

Quanto, poi, all’ulteriore questione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni del teste Ze.An. per mancato rispetto delle regole di cui all’art. 63 cod. proc. pen. è sufficiente rilevare che detta questione è stata sollevata solo con la memoria difensiva in data 17 giugno 2025 il che la rende inammissibile per tardività.

A ciò si aggiunge che, come risulta dai verbali di audizione del predetto teste (richiamati dalla difesa) il teste Ze.An., dopo averlo comunque riconosciuto con certezza come di sua proprietà, ha parlato di un orologio “replica” (concetto che non necessariamente coincide con il concetto di “falso”) del quale non sono dati conoscere ulteriori caratteristiche e che la valutazione difensiva di assenza di valore del predetto bene è rimasta a livello meramente assertivo in quanto anche un eventuale modesto valore del bene di provenienza furtiva rinvenuto in possesso dell’imputato (e dei correi), non consente di escludere la configurabilità del reato di ricettazione in capo al ricorrente.

5. Manifestamente infondato, oltre che sotto certi profili direttamente inammissibile è, infine, anche il quinto ed ultimo motivo di ricorso formulato nell’interesse dell’imputato Nd.Au. nel quale si contesta il trattamento sanzionatorio riservato all’imputato con particolare riguardo alla dedotta carenza di motivazione con riferimento agli aumenti di pena a titolo di continuazione in relazione ai reati contestati.

Deve, innanzitutto, evidenziarsi la sostanziale genericità del predetto motivo di ricorso in quanto la difesa del ricorrente si limita a sostenere la mancanza di motivazione ma non indica alcun profilo dal quale potersi desumere l’interesse a coltivare tale doglianza.

È infatti, un principio consolidato richiamato e fatto proprio anche dalle Sezioni Unite “Pizzone” di questa Corte (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Rv. 282269 – 01) quello secondo il quale “In tema di determinazione della pena, è ammissibile il ricorso per cassazione contro la sentenza che non abbia specificato il “quantum” dei singoli aumenti inflitti a titolo di continuazione in relazione a ciascun reato satellite, a condizione che venga dedotto un interesse concreto ed attuale a sostegno della doglianza” (Sez. 2, n. 26011 del 11/04/2019, PG C/Cuocci, Rv. 276117 – 01).

Nel caso in esame la difesa del ricorrente non risulta avere indicato alcun concreto elemento a sostegno del fatto che l’aumento della pena operato per la ritenuta continuazione tra il reato di cui al capo 4 e quelli di cui ai capi 1 e 3 sia incongruo o comunque sproporzionato rispetto alla complessiva valutazione dei fatti per i quali è intervenuta condanna od in relazione alla personalità dell’imputato ed agli altri criteri di cui all’art. 133 cod. pen.

A ciò si aggiunge che, nel caso in esame, ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio la Corte di appello ha stabilito poi una pena per il reato più grave (capo 4) in misura inferiore al medio edittale ed ha, infine, operato un aumento di pena ex art. 81, comma 2, cod. pen. per i reati di cui ai capi 1 e 3 non di certo sproporzionato (3 mesi di reclusione e 100,00 Euro di multa) o in contrasto con le motivazioni generali adottate in sentenza sul trattamento sanzionatorio.

D’altro canto nella decisione delle Sezioni Unite “Pizzone” non si è certo sostenuto che sol perché difetti una motivazione relativa all’aumento di pena per un solo reato ritenuto in continuazione ciò comporta una nullità sul punto della sentenza impugnata, quanto, piuttosto, si è osservato che l’astratto rigore che assiste la decisione del Giudici di merito nell’operazione di calcolo dei vari aumenti, deve essere di volta in volta calato nel caso concreto, visto che il grado di impegno nel motivare richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all’entità degli stessi e deve essere funzionale sia alla verifica del rispetto del rapporto di proporzione esistente tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, con particolare riferimento ai limiti previsti dall’art. 81 cod. pen., sia ad evitare che non si sia stato operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene.

In sostanza, la sentenza “Pizzone” citata, pur rilevando come il peso in concreto assegnato dal giudice a ciascun reato satellite concorra a determinare un razionale trattamento sanzionatorio con la conseguente necessità che siano palesati gli elementi che hanno condotto al risultano cui si è pervenuti, ha tuttavia precisato che l’obbligo della motivazione non può essere astrattamente circoscritto secondo canoni predeterminati, non potendosi ritenere che il vizio renda nulla la decisione sul punto allorché la pena irrogata sia stata determinata in prossimità del minimo piuttosto che al massimo edittale (principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui il mero richiamo ai “criteri di cui all’art. 133 cod. pen.” deve ritenersi motivazione adeguata per dimostrare l’intervenuta ponderazione della pena rispetto all’entità del fatto). Una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena da irrogare è, pertanto, necessaria allorché la determinazione avvenga in misura prossima al massimo edittale” (in proposito, v. Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Pasquali, Rv. 258356).

Gli stessi principi governano la determinazione della pena e la relativa motivazione in ordine ai reati in continuazione, dovendosi ritenere (evenienza rilevante per il ricorso sottoposto a scrutinio) che la pena determinata per i reati in continuazione in misura ampiamente inferiore nel minimo edittale previsto per tali reati esclude l’abuso del potere discrezionale conferito dall’art. 132 cod. pen. e depone per una ponderata valutazione degli elementi posti a base della decisione in ordine al trattamento sanzionatorio.

Tali principi sono stati ribaditi da questa Corte di legittimità anche in epoca successiva alla sentenza “Pizzone” allorquando si è affermato che “In tema di reato continuato, il giudice di merito, nel calcolare l’incremento sanzionatorio in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall’art. 132 cod. pen.” (Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022, Spampinato, Rv. 284005 – 01).

Resta solo da aggiungere, con riguardo al complessivo trattamento sanzionatorio, che la Corte di appello ha evidenziato di aver tenuto conto del numero e del valore dei beni ricettati e che il Tribunale nella propria scelta del trattamento sanzionatorio ha già sostanzialmente adottato una soluzione più favorevole all’imputato operando solo aumenti di pena per i reati in continuazione “esterna” tra loro senza tenere conto della continuazione “interna” contestata per i reati di cui ai capi 3 e 4.

Per il resto è sufficiente ricordare che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e, come nel caso in esame, sia sorretta da sufficiente motivazione.

6. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, tutti i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.

Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, quanto a ciascuno di essi, ai sensi dell’art. 616 cod. proc.

pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dai ricorsi (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) al versamento della somma ritenuta equa di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

7. L’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D., Rv. 217266; Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Ciaffoni, Rv. 256463), nella specie la prescrizione del reato associativo di cui al capo 1 della rubrica delle imputazioni maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso e non dedotta dai ricorrenti.

Cass. pen., II, ud. dep. 25.07.2025, n. 27513

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