Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva di Cassa Depositi e Prestiti, che deve essere disattesa in quanto infondata.
Nel ricorso, infatti, Poste ha sostenuto che il collocamento dei BFP segue le regole del procedimento di imputazione organica e i relativi atti dovrebbero dunque essere imputati alla persona giuridica di riferimento, anche considerato che la disciplina di settore qualifica in termini di “avvalimento” il rapporto intercorrente tra Poste e CDP (art. 2, co. 3, del d.lgs. n. 284/1999, secondo cui Cassa depositi e prestiti si avvale di Poste italiane s.p.a. per la raccolta di risparmio attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi).
Da qui la conclusione per cui l’attività (i.e. gli atti e gli effetti) posta in essere dall’ente che svolge l’attività oggetto di avvalimento (nel caso di specie: Poste) dovrebbe essere giuridicamente imputata al titolare effettivo della funzione amministrativa concretamente esercitata (nel caso di specie CDP).
Su tale base, Poste ha notificato il ricorso a CDP postulando la riferibilità a quest’ultima delle attività contestate, circostanza sufficiente ad evidenziarne la legittimazione passiva, risultando poi questione di merito la fondatezza o meno di tale assunto.
Nel merito il ricorso è infondato.
Con il primo motivo la ricorrente ha contestato che le segnalazioni da cui era originato il procedimento risalivano al 2018-2019, mentre la preistruttoria si era conclusa solo a distanza di oltre tre anni, con la notifica all’odierna ricorrente dell’atto di avvio del 24 marzo 2022, con conseguente violazione sia dell’art. 14 della l. 689/1981, sia dell’art. 6 del Regolamento sulle procedure istruttorie, sia del criterio del “tempo ragionevole”.
In merito deve preliminarmente osservarsi come la circostanza che il Consiglio di Stato abbia recentemente rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea una questione interpretativa dell’art. 14 l. 689/1981 risulta ininfluente sull’odierno giudizio: invero, quell’ordinanza (Cons. Stato, sez. VI, ord., 14 maggio 2025, n. 4151) afferisce ad una violazione del diritto antitrust (segnatamente, un’intesa vietata dall’art. 101 Tfue), mentre nell’odierno giudizio viene in rilievo una pratica commerciale scorretta (di cui agli artt. 20 ss. cod. cons.).
Inoltre, considerato che la Corte di giustizia ha piú volte rammentato che qualora «la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o […] la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbî» il giudice nazionale non è tenuto a rimettere la questione ai sensi dell’art. 267 Tfue (Corte giust. Ue, 6 ottobre 2021, causa C-561/19), deve ritenersi che si possa decidere la causa senza dover attendere l’ulteriore pronunciamento del giudice europeo (come tra l’altro già avvenuto in ipotesi analoghe, cfr. Tar Lazio, sez. I, 1° luglio 2025, n. 12941; 26 agosto 2025, n. 15795; Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2025, n. 5357).
Deve infatti rilevarsi che, pronunciandosi sulla questione dell’applicabilità dell’art. 14 della l. n. 689/81, e del relativo termine di 90 giorni per la contestazione delle violazioni, ai procedimenti sanzionatori in materia di pratiche commerciali scorrette, con sentenza del 30 gennaio 2025 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che: “Gli articoli 11 e 13 della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»), letti alla luce del principio di effettività, devono essere interpretati nel senso che: essi ostano a una normativa nazionale che, nell’ambito di un procedimento diretto all’accertamento di una pratica commerciale sleale condotto da un’autorità nazionale responsabile dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori, da un lato, impone a tale autorità di avviare la fase istruttoria in contraddittorio del procedimento, mediante la comunicazione degli addebiti all’impresa interessata, entro un termine di 90 giorni a decorrere dal momento in cui essa viene a conoscenza degli elementi essenziali dell’asserita violazione, potendo questi ultimi esaurirsi nella prima segnalazione dell’illecito, e, dall’altro, sanziona l’inosservanza di tale termine con l’annullamento integrale del provvedimento finale di detta autorità in esito alla procedura d’infrazione, nonché con la decadenza dal potere di quest’ultima di avviare una nuova procedura d’infrazione riguardante la stessa pratica”.
Per addivenire a tale conclusione la Corte ha premesso che gli Stati membri, nell’adozione e l’applicazione di tali norme, sono tenuti ad esercitare tale competenza nel rispetto del diritto dell’Unione e del principio di effettività, di tal che “essi non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’attuazione di tale diritto” (§ 36 sent.); a tal fine, i termini procedurali fissati devono “far sì che, nel rispetto del principio della certezza del diritto, le cause siano trattate entro un termine ragionevole, senza compromettere l’effettiva attuazione della direttiva 2005/29 nell’ordinamento giuridico interno” (§ 38 sent.); tutto ciò tenendo conto “delle peculiarità dei casi riguardanti la lotta contro le pratiche commerciali sleali che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2005/29 e, in particolare, del fatto che tali casi possono richiedere una complessa analisi materiale ed economica” (§ 40 sent.).
La Corte ha precisato, altresì, che “al fine di adempiere efficacemente il loro obbligo di applicare il diritto dell’Unione in materia di tutela dei consumatori, le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa in detta materia devono essere in grado di attribuire un diverso grado di priorità alle denunce ad esse indirizzate, disponendo, a tal fine, di un ampio margine di discrezionalità” (§ 49 sent.), onde poter “procedere a tutte le misure istruttorie preliminari nonché alle valutazioni di fatto e di diritto spesso complesse, necessarie per valutare se l’avvio della fase istruttoria in contraddittorio sia giustificato, ma anche di scegliere, in funzione del grado di priorità che, nell’esercizio della sua indipendenza operativa, intende accordare a una procedura d’infrazione in corso, il momento più opportuno per avviare, se del caso, la fase istruttoria in contraddittorio di quest’ultima” (§ 52 sent.).
Richiamando le conclusioni dell’avvocato generale, la Corte ha osservato che “l’applicazione del termine in questione rischia di obbligare l’AGCM a dover trattare in maniera indifferenziata l’insieme delle procedure d’infrazione di cui è investita, prendendo in considerazione non già le circostanze proprie di ciascuna procedura, ma seguendo unicamente un ordine cronologico, impedendole così di stabilire e attuare priorità per le sue procedure in materia di tutela dei consumatori. Tale autorità potrebbe quindi essere costretta ad avviare procedimenti istruttori su basi di fatto e di diritto incerte o a privilegiare il trattamento di talune categorie di casi che le sue risorse disponibili le consentano di trattare superata la fase dell’indagine preliminare, a scapito magari di casi particolarmente complessi e dannosi per gli interessi dei consumatori. Un siffatto pregiudizio all’indipendenza operativa dell’AGCM è tanto più verosimile in una situazione in cui il dies a quo del termine, le cui modalità di avvio appaiono, del resto, poco precise, poco chiare e poco prevedibili tanto per tale autorità quanto per l’impresa interessata, coincide con la prima segnalazione dell’asserita violazione presso tale autorità, la quale è quindi obbligata ad istruire immediatamente il fascicolo” (par. 58).
Tali principi, affermati, come detto, nell’esaminare la questione di compatibilità con il diritto eurounitario dell’applicazione della disciplina dell’art. 14 della l. n. 689/1981, che prevede un termine di 90 giorni per la contestazione delle violazioni amministrative al trasgressore, nella loro portata generale inducono però a ritenere contrastante con la disciplina comunitaria, sussistendo una eadem ratio della regolamentazione in materia, anche un’interpretazione che attribuisca natura perentoria al termine per l’avvio dell’istruttoria fissato dalla stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato nel proprio Regolamento sulle procedure istruttorie in materie di pratiche commerciali scorrette, comportando l’annullamento del provvedimento conclusivo a fronte della scadenza di tale termine.
Del resto, in senso contrario rispetto alla tesi della perentorietà del termine per l’avvio dell’istruttoria depongono una serie di fattori: da un lato, nessuna disposizione di legge (o di regolamento) qualifica espressamente in tal modo il termine in questione, né prescrive la decadenza dell’Autorità dal potere di accertare l’illecito, laddove, secondo i criteri generali di interpretazione, tali connotazioni devono risultare esplicitamente dal disposto normativo; dall’altro, lo stesso regolamento prevede che l’Agcm, anche dopo lo spirare del ridetto termine, possa avviare l’istruttoria (v. art. 5, comma 2, secondo periodo del. 25411/2015), in tal modo evidentemente negando la consumazione del potere di provvedere in materia che conseguirebbe alla decadenza.
Deve quindi concludersi per la natura non perentoria, ma piuttosto sollecitatoria, anche del termine di 180 stabilito dall’art. 6 del Regolamento per l’avvio dell’istruttoria.
In ogni caso, deve anche considerarsi che nella fattispecie, benché le prime segnalazioni siano pervenute all’Autorità fin dal 2019-2020, solo successivamente, a seguito della ricezione di ulteriori segnalazioni e dell’acquisizione di informazioni dalla ricorrente, è stato possibile ricostruire con maggiore precisione l’illecito denunciato.
Come rilevato dalla difesa dell’Autorità, infatti, le richieste di informazioni dalla stessa inviate non possono ritenersi ininfluenti ai fini del decorso del procedimento: le stesse miravano ad ottenere una descrizione di tutti i canali e le modalità informative utilizzati da Poste per fornire al consumatore le informazioni essenziali sui buoni fruttiferi, prima della relativa sottoscrizione e nelle fasi contrattuali successive, con particolare riferimento alla data di scadenza del buono e al relativo termine prescrizionale; alla ricorrente è stato richiesto, inoltre, di indicare da quale annualità di emissione del prodotto sono state adottate tali modalità informative; infine, con riferimento agli anni 2020 e 2021, è stato richiesto di indicare se si sono verificati casi di richieste di rimborso di BFP cartacei rigettate perché effettuate oltre il termine di prescrizione, specificandone il numero, indicando se e con quali modalità Poste aveva “informato e tuttora informa” i consumatori intestatari dei Buoni dell’intervenuta prescrizione degli stessi, al fine di acquisire tutti gli elementi idonei a delineare le condotte scorrette segnalate.
Pertanto solo a fine dicembre 2021, a seguito del riscontro di Poste alla richiesta di informazioni dell’Autorità, quest’ultima ha avuto piena contezza degli elementi necessari a configurare la fattispecie di illecito contestata, e rispetto a tale data non può dirsi irragionevole il tempo decorso prima di procedere all’avvio di istruttoria, in quanto il procedimento è stato avviato in data 24 marzo 2022, sicché non può dirsi che il lasso di tempo utilizzato per le indagini della fase preistruttoria, ove ancorato all’effettivo accertamento della condotta da sanzionare, fuoriesca dai canoni della ragionevolezza.
Ciò tanto più se si considera che nel passo della sentenza sopra riportato la Corte di Giustizia ha anche precisato che far decorrere il termine per l’avvio del procedimento dalla prima segnalazione dell’asserita violazione presso tale autorità può comportare un effettivo pregiudizio all’indipendenza operativa dell’Autorità.
Inoltre, la ricorrente non in alcun modo indicato il pregiudizio, in termini di lesione dei diritti di difesa, che le sarebbe derivato dall’inutile decorso del termine in questione e dall’avvio non tempestivo del procedimento, elemento che secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia assume rilievo decisivo ai fini dell’accoglimento della censura di tardività dell’attività procedimentale.
Ed infatti in più occasioni la Corte di giustizia UE ha affermato che il superamento del termine ragionevole può costituire motivo di annullamento delle decisioni che accertano infrazioni solo se risulti provato che la violazione del principio del termine ragionevole ha pregiudicato i diritti della difesa delle imprese interessate; al di fuori di tale specifica ipotesi, il mancato rispetto dell’obbligo di decidere entro un termine ragionevole non incide sulla validità del procedimento amministrativo (Tribunale UE, 18.11.2020, cause T-814/17, p.ti 357-359; e in senso conforme, Tribunale UE, 6.12.2020, T-515/18, p.to 91 e Corte di giustizia, 21.1.2021, causa C-466/19 P, p.to 32 e 21.9.2006, Gebied, C 105/04).
Né tale pregiudizio può essere individuato nel fatto che la parte interessata, non essendo notiziata dell’avvio del procedimento sanzionatorio, continuerebbe nella pratica ipoteticamente illecita, andando incontro a conseguenze di maggiore entità, poiché tale affermazione postulerebbe che l’inerzia dell’Amministrazione ingeneri un affidamento che consentirebbe la prosecuzione della condotta illecita mentre, come è evidente, il soggetto che pone in essere una pratica commerciale scorretta o, comunque, una condotta sanzionabile, non può certo efficacemente sostenere di aver perseverato nell’illecito sol perché non gli sarebbe stata contestata la violazione.
Del resto, anche il Consiglio di Stato ha recepito i passaggi principali della sentenza della Corte di giustizia (Cons. Stato, sentenza n. 2979/2025), affermando che i principî espressi dalla Corte comportano che ai procedimenti antitrust di AGCM si applica solo il principio del termine ragionevole e che in ogni caso, per dar luogo ad una ipotesi di annullamento del provvedimento finale, la parte deve dimostrare il pregiudizio che l’eventuale eccessiva durata della fase preistruttoria ha determinato sui propri diritti di difesa.
Venendo all’esame delle doglianze sostanziali, deve premettersi che i buoni fruttiferi postali sono disciplinati dal decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 6 ottobre 2004.
L’art. 5 del d.l. n. 269/2003 prevede: – al comma 7, lettera a), che “la CDP S.p.A. finanzia, sotto qualsiasi forma: lo Stato, le regioni, gli enti locali, gli enti pubblici e gli organismi di diritto pubblico, utilizzando fondi rimborsabili sotto forma di libretti di risparmio postale e di buoni fruttiferi postali, assistiti dalla garanzia dello Stato e distribuiti attraverso Poste italiane S.p.A. o società da essa controllate […]”; – al comma 11, lettere a), b) e c) che il Ministro dell’economia e delle finanze determini con propri decreti di natura non regolamentare i criteri per la definizione delle condizioni generali ed economiche dei libretti di risparmio postale e dei BFP, nonché i criteri per la definizione delle condizioni generali ed economiche degli impieghi e le norme in materia di trasparenza, pubblicità, contratti e comunicazioni periodiche.
In attuazione della predetta delega, l’art. 1, co. 1, del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 6 ottobre 2004 definisce il “Risparmio Postale” quale raccolta di fondi sotto forma di buoni fruttiferi postali e di libretti di risparmio postale, con obbligo di rimborso assistito dalla garanzia dello Stato, effettuata da CDP avvalendosi di Poste. Nello svolgimento di tale attività, qualificata dalla normativa medesima come “servizio di interesse economico generale”, CDP, in qualità di emittente dei buoni, definisce le condizioni di emissione e le caratteristiche dei BFP, mentre Poste effettua tutte le attività occorrenti al collocamento degli stessi presso i risparmiatori/sottoscrittori, alla gestione e al rimborso dei buoni stessi.
Ai sensi dell’art. 6 del D.M. 6.10.2004, inoltre: “Per il collocamento dei buoni postali fruttiferi Poste italiane S.p.a. mette a disposizione del cliente nei locali aperti al pubblico, fogli informativi contenenti informazioni analitiche sull’emittente, sui rischi tipici dell’operazione, sulle caratteristiche economiche dell’investimento e sulle principali clausole contrattuali (di seguito il «Foglio Informativo»)”. In riferimento al collocamento dei buoni postali fruttiferi rappresentati da documento cartaceo, Poste consegna al sottoscrittore, oltre al documento rappresentante il buono, anche il regolamento del prestito; gli schemi della documentazione prescritta devono essere preventivamente approvati da CDP.
L’art. 6-ter del D.M. 6.10.2004 disciplina infine la prescrizione dei BFP e stabilisce che i diritti dei titolari dei buoni fruttiferi postali si prescrivono trascorsi dieci anni dalla data di scadenza del buono per quanto riguarda il capitale e gli interessi. È inoltre previsto che: “Detti diritti si prescrivono in favore dello Stato per i buoni fruttiferi postali emessi fino alla data del 13 aprile 2001 ed in favore del Fondo per indennizzare i risparmiatori rimasti vittime di frodi finanziarie ai sensi dell’art. 1, comma 345- quinquies della legge 23 dicembre 2005, n. 266, quanto ai buoni fruttiferi postali emessi a far data dal 14 aprile 2001”.
In merito alla titolarità dei BFP, il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 5 dicembre 2003, adottato in attuazione dell’art. 5, co. 3, del d.l. n. 269/2003 – con il quale CDP è stata trasformata in società per azioni – ha trasferito nel patrimonio del MEF i “buoni fruttiferi postali relativi alle serie e sottoscritti nei termini indicati nell’allegato elenco n. 2”, ossia tutti i BFP emessi nell’arco temporale compreso tra il 18 novembre 1953 e il 13 aprile 2001; i buoni così individuati dal predetto decreto sono dunque passati al MEF, mentre i BFP emessi a far data dal 14 aprile 2001 sono rimasti nella titolarità dell’emittente Cassa Depositi e Prestiti.
Dalla disciplina così delineata emerge che è demandata a Poste l’attività di concreta distribuzione dei buoni fruttiferi, così come l’esecuzione di tutte le attività relative al collocamento degli stessi presso i risparmiatori/sottoscrittori, alla gestione e al rimborso dei titoli, con la conseguente assunzione di specifici obblighi nei confronti degli stessi; a fronte di tali attività, CDP corrisponde a Poste una remunerazione annua per lo svolgimento delle attività connesse alla raccolta del risparmio postale, parametrata alla giacenza media dei BFP, tale da generare un utile per il servizio, coerente con le regole del mercato.
Di conseguenza, Poste è il soggetto responsabile dell’attività di collocamento e gestione dei BFP, cui fanno capo gli obblighi di diligenza, trasparenza e correttezza informativa nei confronti dei sottoscrittori; l’utilizzo del termine “avvalimento” nelle disposizioni sopra citate deve essere inteso in senso ampio, volto ad indicare che l’infrastruttura, le risorse e la rete capillare di Poste sono utilizzate ai fini del collocamento dei buoni emessi da CDP, essendo comunque demandata a Poste sia l’attività di concreta distribuzione dei buoni, sia quella di gestione diretta dei medesimi, con la conseguente assunzione di specifici obblighi in merito, anche in termini di trasparenza informativa sulle caratteristiche dei BFP.
Ciò premesso, la ricorrente ha sostenuto di non potere essere qualificata, nello svolgimento di tale attività, come professionista secondo la disciplina del Codice del consumo.
Tale tesi, tuttavia, si pone in contrasto con la ratio sottesa alla normativa in tema di tutela del consumatore dettata dagli articoli 18 e seguenti del d.lgs. n. 206/2005.
Tale disciplina, come noto, configura una nozione ampia di professionista, in correlazione con il particolare dovere di protezione a carico di un soggetto che svolge un’attività destinata a incidere sulla sfera giuridica dei consumatori, innalzando lo standard di protezione offerto da altri plessi normativi.
Come già evidenziato da questa Sezione (Tar Lazio, 3 giugno 2019, n. 7122), in tale prospettiva è innanzitutto irrilevante che il professionista ottenga dall’attività svolta abitualmente un lucro, sia esso diretto o indiretto, giacché la definizione normativa di “professionista”, rilevante ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. b), cod. cons., “rinviando al concetto di “attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”, allude all’esercizio di una attività, sia di tipo imprenditoriale che libero-professionale, che non necessariamente deve essere connotata da scopo di lucro, essendo tale finalità caratteristica solo delle società, e non di ogni tipo di attività imprenditoriale”; ciò che conta “è che si tratti di una attività deputata allo scambio di beni o servizi, esercitata in maniera “ordinaria”, svolta con continuità, mediante una organizzazione tendenzialmente stabile”, a favore del cittadino-consumatore. Rientra nella nozione di attività “di scambio” lo svolgimento di un servizio per la cui fruizione il “cittadino- consumatore” deve corrispondere delle somme a titolo di tassa e non di prezzo (nel medesimo senso Tar Lazio, I, 9 novembre 2021).
Inoltre, la nozione di “professionista” ex art. 18, lett. b), del predetto Codice deve essere intesa in senso estensivo al fine di garantire l’effetto utile della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, facendo in modo che all’attività di chi viene in contatto con il consumatore siano correlati degli accresciuti oneri di diligenza e di informazione a protezione di chi opera, al contrario (il consumatore), al di fuori dell’esercizio della sua attività professionale – ed è per tale ragione in posizione di tendenziale debolezza contrattuale.
Nella fattispecie, per l’attività di collocamento dei buoni postali Poste riceve commissioni annue da Cassa Depositi e Prestiti; inoltre, quale soggetto deputato alla distribuzione dei BFP, è Poste che entra in contatto con i consumatori, ai quali deve assicurare trasparenza, correttezza e completezza informativa sulle caratteristiche essenziali del titolo (tra cui scadenza e prescrizione) per garantire scelte consapevoli del consumatore finale, sia ai fini della sottoscrizione del buono che della successiva fase di rimborso dello stesso.
Quanto alla qualificazione del risparmiatore, sottoscrittore del buono, come consumatore, deve poi osservarsi che due condizioni debbono concorrere perché un soggetto possa qualificarsi come tale, ovvero che si tratti di una persona fisica, e che agisca al di fuori di una attività commerciale, industriale, artigianale o professionale.
Nella specie, il risparmiatore interessato alla sottoscrizione del titolo può essere inquadrato in tale nozione in quanto l’investimento del proprio risparmio (perlopiù piccolo risparmio) al fine di salvaguardarne il valore ed il potere di acquisto, e senza finalità speculative, rappresenta una delle più tipiche attività di un soggetto che, ai sensi dell’articolo 18 del Codice del Consumo, “agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”.
Le disposizioni contenute nel Codice citato concernono quindi in generale chi viene in contatto, in maniera non professionale, con il professionista e, dunque, anche il contraente risparmiatore, assicurato, investitore ecc.
Del resto, in linea con tale interpretazione risultano le modifiche al Codice del Consumo apportate con l’art. 9 del d.lgs. 23 ottobre 2007, n. 221, che ha introdotto un’apposita sezione, la IV bis (comprendente gli articoli da 67 bis a 67 vicies bis), dedicata integralmente alla disciplina della commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori.
Sia sotto il profilo dell’assimilazione di Poste al professionista, quanto alla qualifica dei risparmiatori come consumatori, quindi, la ricostruzione operata dall’Agcm risulta corretta e rispondente ai principi della disciplina citata.
Quanto alla sussistenza delle pratiche accertate, l’Autorità ha rilevato, ai parr. 51 e ss. del provvedimento, che il contenuto dei documenti pre-contrattuali e contrattuali relativi ai BFP risultava caratterizzato da ambiguità ed omissioni che potevano indurre in errore il consumatore riguardo alle caratteristiche dei BPF.
In particolare, nel provvedimento si è dato conto del fatto che la “Scheda di sintesi”, elaborata in relazione ad ogni specifica tipologia di buoni, riportava la seguente frase: “Capitale investito sempre rimborsabile”, mentre non riportava alcuna indicazione sul termine di prescrizione del titolo, la cui maturazione avrebbe reso non più rimborsabile nemmeno il capitale investito; pertanto tale documento, nella sua complessiva formulazione, poteva lasciare intendere che il diritto al rimborso del buono non avesse scadenza.
Anche il richiamo alla “durata” del buono presentava una portata decettiva, essendo inserito nel riquadro della Scheda di sintesi dedicato alle “Condizioni economiche”, accanto ad un grafico che riportava il tasso nominale annuo lordo; di conseguenza, correttamente l’Agcm ha ritenuto che il consumatore potesse essere indotto a ritenere che la “durata” fosse rilevante solo ai fini della maturazione degli interessi rimborsabili insieme al capitale investito, senza ricollegare ad essa le ulteriori e ben più gravi conseguenze che potevano derivare dallo spirare del termine di scadenza (ossia, l’inizio di decorrenza del termine di prescrizione del suo diritto di credito).
Del tutto logica è anche l’osservazione dell’Agcm nella parte in cui ha rilevato che le ambiguità presenti nella “Scheda di sintesi” dovevano ritenersi ancor più rilevanti laddove si consideri che, trattandosi di un documento riepilogativo delle principali caratteristiche del titolo, come suggerisce la stessa denominazione del documento, il consumatore avrebbe potuto essere indotto a non leggere il Regolamento del prestito, le cui disposizioni erano formulate in modo più analitico e con un linguaggio più tecnico, nella convinzione che la Scheda di sintesi contenesse le disposizioni più rilevanti (e tra queste non può non annoverarsi il termine entro il quale devono essere esercitati i diritti di credito connessi al buono, pena la perdita irrimediabile del capitale investito e degli interessi maturati) (par. 53 provv.).
Il Regolamento del prestito rinviava poi a sua volta alla Scheda di sintesi per le informazioni relative alle “condizioni di emissione dei buoni, ivi incluse la durata, l’importo massimo di buoni sottoscrivibile da un unico soggetto in una giornata lavorativa, i tagli, i tassi di interesse” (v. art. 4 – Condizioni di emissione), sicché anche questa clausola poteva indurre il consumatore a ritenere che la Scheda di sintesi fosse una fonte esaustiva con riguardo alle principali caratteristiche dei buoni.
Alla luce di quanto esposto l’Agcm ha ritenuto, altresì, che l’attuale apposizione sul buono della specifica data di scadenza dello stesso non fosse idonea, da sola, ad assicurare la consapevolezza del consumatore sulle conseguenze giuridiche derivanti dalla scadenza del titolo, in mancanza di una chiara indicazione del decorso del termine di prescrizione a partire da tale scadenza e della perdita delle somme investite e degli interessi maturati in mancanza di riscossione del buono entro il termine di prescrizione.
Anche tali conclusioni si palesano immuni da vizi logici o travisamenti, essendo ancorate alle emergenze istruttorie ed a presupposti di fatto incontestati, dal momento che le argomentazioni difensive della ricorrente si sono appuntate sulla considerazione secondo cui sarebbe stato agevole per il risparmiatore computare la prescrizione dalla data di scadenza.
Né può sostenersi che l’ascrivere alla ricorrente la responsabilità per le omissioni informative vanifichi il contenuto del D.M. del 6 ottobre 2004, che già prevede espressamente gli obblighi facenti capo a Poste Italiane; tale normativa, infatti, oltre ad individuare alcune incombenze specifiche (quale l’approvazione della documentazione contrattuale da parte di CDP) stabilisce anche, in via generale, che in sede di collocamento Poste fornisca “informazioni analitiche” (tra l’altro) sui “rischi tipici dell’operazione” e sulle “principali clausole contrattuali”, sicché non può essere intesa come ostativa rispetto all’inserimento di informazioni ulteriori nella documentazione fornita all’interessato.
Inoltre, come rilevato dalla difesa erariale, non è nemmeno condivisibile quanto affermato dal professionista in ordine all’impossibilità di adottare ulteriori iniziative rispetto a quanto previsto dal citato D.M., dal momento che tale argomentazione è smentita dalla stessa adozione della Scheda di Sintesi sopra descritta, documento non previsto dal citato D.M.
Peraltro va evidenziato che sono numerose le ipotesi in cui le norme in materia di contrasto alle pratiche commerciali scorrette richiedono ai professionisti l’adozione di modelli di comportamento desumibili non solo dalla disciplina di settore, ma anche dall’esperienza propria del settore di attività, nonché dalla finalità di tutela perseguita dal Codice del Consumo, di modo che il rispetto della disciplina specifica non risulta esaustivo rispetto agli obblighi di diligenza sussistenti nei confronti della platea dei consumatori con cui il professionista viene in contatto.
Quanto alla sentenza della Corte di Cassazione n. 3963/2019, deve evidenziarsi che tale pronuncia non riguarda l’applicabilità della disciplina del Codice del consumo ai sottoscrittori dei buoni postali, ma la disciplina sostanziale del rapporto in essere con Poste, ovvero l’applicabilità di una variazione in corso di rapporto del tasso di rendimento dei BFP disposta con Decreto Ministeriale e l’idoneità di tale evento a legittimare il titolare del buono ad esercitare un diritto di recesso ai sensi del codice civile.
Quanto, infine, al fatto che la ricorrente non disporrebbe di alcun potere unilaterale di procedere in autonomia alla modifica, integrazione o disciplina né delle modalità di collocamento dei BFP ai risparmiatori, né della documentazione a questi ultimi fornita, poiché i documenti previsti dall’art. 6 del D.M. 6 ottobre 2004 sono tutti «preventivamente approvati dalla CDP S.p.a.», si ribadisce che la stessa ricorrente ha elaborato una scheda di sintesi non prevista e, comunque, nella fase di ottemperanza alla decisione qui impugnata, al fine di far inserire una didascalia relativa alla possibilità per l’avente diritto di ottenere il rimborso entro il relativo periodo di prescrizione, ha richiesto e ottenuto da CDP un’apposita determina.
Anche con riferimento alla pratica B le risultanze istruttorie riportate nel provvedimento hanno confermato che Poste ha omesso di adottare iniziative finalizzate ad informare i risparmiatori dell’imminente scadenza del periodo di prescrizione per il riscatto dei buoni in loro possesso; tale circostanza risulta pacificamente dagli atti, avendo la ricorrente dedotto di non essere tenuta a tale adempimento.
Tuttavia, anche sotto tale profilo le valutazioni dell’Autorità appaiono corrette, essendo incentrate sulla considerazione della prescrizione ogni anno di decine di migliaia di buoni, di cui il professionista era pienamente consapevole, che avrebbero dovuto indurre lo stesso a individuare misure, quantomeno informative che, al di là del rispetto degli obblighi specificamente previsti dalle norme di settore, fossero in grado di tutelare la sfera degli interessi patrimoniali dei risparmiatori e primariamente l’interesse degli stessi ad assumere decisioni di natura commerciale consapevoli ed informate, come quella di attivarsi tempestivamente per chiedere il rimborso del buono fruttifero postale prima della prescrizione dello stesso.
Ciò tanto più tenuto conto della tipologia di risparmiatori interessati, quasi tutti piccoli risparmiatori propensi ad un bassissimo livello di rischio, che confidavano nella sicurezza dell’investimento, e del settore di attività del professionista (caratterizzato da una particolare complessità dei servizi e prodotti offerti e da una rilevante asimmetria informativa tra professionista e consumatore).
Anche in questo caso, il rispetto della normativa di settore non vale ad esonerare il professionista dal porre in essere quei comportamenti ed accorgimenti ulteriori che, pur non espressamente previsti, discendono comunque dall’applicazione del più generale principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali in corso con la vasta platea dei consumatore/risparmiatori; ciò soprattutto a fronte del numero elevato e costante di segnalazioni ricevute in un lungo arco temporale e del numero di buoni caduti in prescrizione (713.066 dal 2018 al 24 marzo 2022).
Del resto la ricorrente è colei che ha collocato sul mercato i titoli, secondo quanto previsto dalla disciplina sopra riportata, e dunque, indipendentemente dal fatto che non possa esser ritenuta titolare del diritto sottostante (e dunque non in grado di disporre dello stesso), non può negarsi che su di essa gravava il principale obbligo precontrattuale di informazione circa il contenuto della posizione ceduta.
Quanto alla quantificazione della sanzione, contestata con il quarto motivo di gravame, deve osservarsi come nella sua determinazione l’Autorità si è attenuta ai parametri di riferimento individuati dall’art. 11 della legge n. 689/81, in virtù del richiamo previsto all’articolo 27, co. 13, del d.lgs. n. 206/05, e quindi ha considerato la gravità della violazione, l’opera svolta dall’impresa per eliminare o attenuare l’infrazione, la personalità dell’agente e le condizioni economiche dell’impresa stessa.
Con riferimento alla gravità, si è tenuto conto, oltre che della natura delle condotte, aventi ad oggetto l’omissione e/o la formulazione decettiva di informazioni essenziali, quali sono quelle relative al termine di scadenza e di prescrizione dei BFP e alle relative conseguenze giuridiche, della dimensione economica della società (al 31 dicembre 2021 i ricavi da raccolta del risparmio postale sono stati pari a 1.753 milioni di euro) e del suo livello di notorietà in ambito nazionale, essendo tra gli operatori più importanti nel settore dei servizi finanziari in Italia, e dell’ampiezza di diffusione della pratica (i Buoni rappresentati da documento cartaceo collocati da Poste dal 2018 al primo semestre del 2022 sono pari a 3.115.961).
Per la pratica A, sono state poi applicate la circostanza aggravante della recidiva, essendo il professionista già destinatario di provvedimenti di accertamento di violazioni del Codice del Consumo, e l’attenuante relativa all’attuazione di iniziative idonee a migliorare l’informativa fornita ai consumatori, determinando la sanzione nella misura di 560.000 euro.
Quanto alla pratica B, l’Agcm ha tenuto conto dell’ampiezza di diffusione della pratica (i buoni caduti in prescrizione dal 2018 al 24 marzo 2022 sono stati 713.066), nonché del pregiudizio economico per i consumatori (dal 2018 al 24 marzo 2022 l’importo devoluto al Fondo per le vittime di frodi finanziarie è pari a circa 225 milioni di euro); anche in questo caso si è applicata sia la recidiva, che l’attenuante per le iniziative idonee a migliorare l’informativa fornita ai consumatori sul decorso del termine di prescrizione dei buoni posseduti, giungendo ad una sanzione finale di euro 840.000.
La sanzione comminata risulta dunque congrua e del tutto proporzionata alla gravità, alla durata dell’infrazione e alle condizioni economiche dell’impresa.
Il ricorso deve quindi essere respinto.
La peculiarità e novità delle questioni controverse giustificano, comunque, la compensazione delle spese tra tutte le parti del giudizio.
TAR LAZIO – ROMA, I – sentenza 01.09.2025 n. 15916