2. Considerato che nell’ordinanza cautelare n. 229 del 12 maggio 2023 erano state sollevate perplessità in ordine alla giurisdizione di questo Tribunale, è anzitutto opportuno precisare che, a un più approfondito esame della questione, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in materia.
2.1. Sul punto il Collegio ritiene di richiamare, condividendoli, i principi di diritto espressi dal Consiglio di Stato in una recente decisione, essendo peraltro idonei a offrire una ricostruzione normativa e sistematica del provvedimento di disposizione: “ 2.2. Al fine del decidere il primo motivo il Collegio ritiene necessaria una breve premessa sulla natura del “Provvedimento di disposizione” perché dalla stessa consegue non solo l’individuazione del giudice competente a decidere la controversia instaurata per l’accertamento della sua illegittimità ma anche la sua immediata impugnabilità; con la precisazione che è, infatti, al “Provvedimento di disposizione” che occorre far riferimento per decidere e non al silenzio formatosi sul ricorso gerarchico proposto dal Patronato, atteso che l’oggetto del ricorso giurisdizionale non è il silenzio ma il provvedimento originario già impugnato in sede gerarchica (Cons. Stato, sez. II, 17 dicembre 2020, n. 8122).
L’art. 14, d.lgs. 23 aprile 2004, n. 124 – nel testo modificato dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120 – prevede che il personale ispettivo dell’Ispettorato del lavoro può adottare nei confronti del datore di lavoro un “provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo” in tutti i casi in cui “le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali e amministrative”. La norma qualifica dunque l’atto in questione come “provvedimento” e precisa che lo stesso è “immediatamente esecutivo”. La definizione di “verbale” di tale atto è dunque generata dalla prassi, trattandosi in realtà di un provvedimento amministrativo a contenuto ordinatorio, espressione di un potere pubblicistico, che la norma definisce “immediatamente esecutivo”, ovvero efficace e vincolante per il destinatario, il quale deve necessariamente conformarsi alle statuizioni contenute nello stesso, pena l’applicazione di una sanzione pecuniaria per il caso di eventuale inottemperanza.
Che tale sia la natura dell’atto in questione lo si evince ancora con maggiore evidenza ove lo si ponga a raffronto con il potere esercitato ai sensi del precedente art. 13, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 124 del 2004, che culmina – questo sì – con il rilascio del “Verbale di primo accesso”, il quale richiede un previo atto di diffida (comma 2) al datore di lavoro trasgressore.
2.3. Corollario obbligato di tale premessa è che il potere esercitato dagli Ispettori del lavoro ai sensi dell’art. 14, d.lgs. n. 124 del 2004 si manifesta con un provvedimento amministrativo che ha i connotati della definitività e della immediata lesività per la parte alla quale lo stesso è indirizzato e che, in quanto tale, è impugnabile dinanzi al giudice amministrativo. Il provvedimento, infatti, fa scattare immediatamente l’obbligo del datore di lavoro di mettersi in regola e chiude il procedimento e – differentemente da quanto assume parte appellante – incide sulla sfera giuridica del destinatario imponendogli un facere, pena la comminatoria di una sanzione. La lesione, dunque, è insita nel comando di mettersi in regola con le norme violate.
Ad ulteriore riprova della correttezza di tale conclusione è che il d.lgs. n. 124 non ha inteso derogare ai criteri generali in materia di individuazione del giudice naturale ad offrire tutela contro gli atti degli Ispettori del Lavoro, introducendo solo forme di previ esperimenti di definizione amministrativa della controversia. E così, all’art. 14, comma 2, ha introdotto la possibilità (esercitata nel caso all’esame del Collegio) di impugnare il provvedimento, adottato ai sensi del precedente comma 1, dinanzi al direttore dell’Ispettorato Territoriale, con formazione del silenzio-rigetto ove non sia deciso con provvedimento espresso entro quindici giorni dalla proposizione del gravame; l’art. 16 prevede, invece, la proposizione del ricorso avverso gli atti adottati ex art. 13, comma 7; il successivo art. 17 ha disciplinato il ricorso al Comitato per i rapporti di lavoro avverso gli “atti di accertamento ispettivo” degli Ispettori del Lavoro. Nulla prevedendo il d.lgs. n. 124 sulla tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 14, ne consegue che la stessa segue le regole generali, e cioè il ricorso al giudice del potere pubblico, id est il giudice amministrativo. Tale conclusione non sembra smentita dalla circostanza che l’attività svolta dall’Ispettorato impinge sul rapporto di lavoro privatistico, atteso che ciò che rileva è che l’irregolarità sia riscontrata dall’Ispettore del Lavoro nell’esercizio del potere pubblico conferitogli dalla norma. Come chiarito dal Consiglio di Stato (sez. VI, 24 marzo 2003, n. 1499) – sebbene con riferimento ad altra fattispecie (ma con argomentazioni ben estensibili al caso sottoposto all’esame del Collegio) – “il provvedimento dell’Ispettorato del lavoro che dispone l’astensione obbligatoria dal lavoro di una dipendente, incide dall’esterno, unilateralmente e autoritativamente sul rapporto di lavoro tra datore e lavoratrice – madre, sicché le situazioni di diritto soggettivo degradano ad interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo. Non si controverte di un atto posto in essere dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, ma di un provvedimento della Pubblica amministrazione, che impone un divieto ad un datore di lavoro, nell’esercizio di un tipico controllo pubblico su attività private”.
3. Le argomentazioni spese sub 1 per individuare il giudice competente a decidere il ricorso portano il Collegio a dichiarare anche l’ammissibilità del gravame, stante il carattere definitivo del “Provvedimento di disposizione” e, dunque, la sua immediata lesività ed impugnabilità (Cons. Stato, sez. III, 22 marzo 2023, n. 2901). L’inflizione della sanzione amministrativa prevista dal comma 3 è solo eventuale, scattando soltanto nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non ottemperi al “Provvedimento di disposizione”; il decreto, infatti, non ha voluto sanzionare l’omissione o l’irregolarità rilevate ma soltanto la volontà di non conformarsi all’ordine di fare o di ripristinare la regolarità. In altri termini, l’organo ispettivo intima al datore di lavoro di eliminare l’irregolarità rilevata, concedendo un termine per adempiere e solo in caso di mancata ottemperanza si applica la sanzione. Da tale premessa consegue.
a) che è la mancata osservanza dell’ordine inibitorio o ripristinatorio dell’Ispettore a portare ad infliggere la sanzione e non la condotta stessa, non essendo infatti per la condotta prevista tale sanzione;
b) che, correlativamente, in caso di mancata impugnazione del “Provvedimento di disposizione”, il contenuto di quest’ultimo, e segnatamente le “irregolarità” con esso accertate, non potrebbero essere rimessi in discussione in sede di impugnazione della successiva sanzione” (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2778 del 21 marzo 2024).
2.2. Tanto premesso sulla natura giuridica dell’istituto in esame, ritenuta pertanto sussistente la giurisdizione di questo T.A.R. e la ammissibilità del ricorso, è possibile passare all’esame del merito.
3. In via preliminare di merito è necessario rilevare il difetto di legittimazione passiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
3.1. Il provvedimento è stato infatti emesso dall’articolazione territorialmente competente dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, soggetto pubblico creato con d.lgs. 149 del 2015 e avente personalità giuridica di diritto pubblico, oltre che piena autonomia organizzativa e contabile (art. 1, comma 3 del citato d.lgs.).
Rispetto a tale ente il Ministero esercita unicamente funzioni di vigilanza sull’attività complessiva (“ne monitora periodicamente gli obiettivi e la corretta gestione delle risorse finanziarie”) e non può considerarsi legittimo contraddittore nel presente giudizio, avente ad oggetto uno specifico atto.
4. Passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo motivo di ricorso parte ricorrente censura la violazione dell’art. 2 l.n. 241/1990 nonché dell’art. 14 l.n. 689/1981 e dell’art. 24 Cost.; in particolare deduce che per i procedimenti sanzionatori dell’Ispettorato del Lavoro, il legislatore ha previsto un termine massimo di durata del procedimento, di natura decadenziale, di cui nel caso di specie non sarebbe neanche verificabile il rispetto, posto che non è espressamente indicato nel provvedimento impugnato un atto di inizio delle attività ispettive.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. Anche su questo profilo il Collegio intende richiamare, aderendovi, quanto statuito dal Consiglio di Stato, nella pronuncia poc’anzi esaminata: “Il motivo con il quale si deduce che il “Provvedimento di disposizione” è stato adottato oltre i termini previsti dall’art. 2, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241, è privo di pregio.
Come si è detto sub 2, l’art. 14, comma 1, d.lgs. n. 124 del 2004 disciplina un procedimento amministrativo che si chiude con il “Provvedimento di disposizione” degli Ispettori del lavoro.
La l. n. 241 del 1990 ha portata generale, anche in relazione ai termini del procedimento. Si applicano i termini dell’art. 2, salvo che non sia espressamente previsto da altra legge. Il termine generale entro il quale il procedimento deve essere concluso, qualora non siano previsti dall’ordinamento giuridico specifici e diversi termini, è quello di trenta giorni indicato dall’art. 2, comma 2, l. n. 241 del 1990, il quale ha disposto che, “nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni”.
Il termine di conclusione del procedimento ha però natura ordinatoria e non decadenziale perché assolve ad una funzione acceleratoria e la sua inosservanza non fa perdere il potere all’Amministrazione di agire.
Dalla natura ordinatoria del termine consegue che il mancato rispetto del medesimo non vizia l’atto adottato tardivamente, salvo che la legge di settore o la giurisprudenza lo qualifichino come perentorio (Cons. Stato, sez. VI, 20 giugno 2023, n. 6018; id., sez. V, 7 marzo 2023, n. 2354). Circostanza non sussistente nel caso di specie, non essendovi una regola legale o di elaborazione giurisprudenziale che assegni natura perentoria al termine di conclusione del procedimento ex art. 14, d.lgs. n. 124 del 2004”.
4.3. Poiché il procedimento in esame non è soggetto a termine decadenziale, non è possibile predicare l’annullabilità del provvedimento finale che violi il termine di cui all’art. 2 l.n. 241/1990.
5. Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente contesta, in estrema sintesi, il difetto di motivazione del provvedimento impugnato.
5.1. Il motivo è fondato.
5.2. Anche per questo motivo è opportuno previamente richiamare le linee interpretative generali offerte dal Consiglio di Stato nella sentenza già citata: “Con la seconda censura, anch’essa dedotta con il secondo motivo, il Patronato afferma l’insufficienza dell’istruttoria che ha portato a ritenere non regolari gli inquadramenti dei signori -OMISSIS-.
Prima di esaminare le censure nelle quali si articola il secondo motivo giova chiarire che stante la natura provvedimentale del cd. “Provvedimento di accertamento” esso segue i principi dettati dalla legge sul procedimento amministrativo e, in particolare, le regole relative alla necessità che l’Amministrazione motivi congruamente le proprie determinazioni e che le stesse, specie ove impingano negativamente sulla sfera giuridica del suo destinatario, siano adottate all’esito di una adeguata e puntuale istruttoria.
Ciò premesso, la censura è suscettibile di positiva valutazione.
Il “Provvedimento di disposizione” è motivato ob relationem con il richiamo alla documentazione di lavoro e “dichiarazioni acquisite”. Il Collegio non nega la possibilità di motivare con riferimento ad atti o fatti non riportati nello stesso provvedimento, criterio questo ritenuto sufficiente ad assolvere il precetto introdotto dall’art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241. È noto, infatti, che ove il provvedimento amministrativo sia preceduto da atti istruttori o da pareri, l’obbligo della motivazione può ritenersi adeguatamente assolto anche con il mero richiamo ad essi, giacché sottintende l’intenzione dell’Autorità emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa della determinazione adottata. Condizione indefettibile di tale operazione, sovente giustificata anche da esigenze di economia e celerità procedimentali, è che essi risultino menzionati nel testo del provvedimento e resi accessibili al privato, in modo da consentirgli di prenderne visione anche in ossequio alla normativa sul diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Questa situazione non ricorre però nel caso in esame, atteso che il “Provvedimento di disposizione” si limita a fare generico riferimento a dichiarazioni rese, senza riportare ulteriori specificazioni e senza, dunque, consentire di capire le ragioni che hanno portato a ritenere erroneo l’inquadramento del personale (signori -OMISSIS-) effettuato dal patronato”.
5.3. L’argomentazione della sentenza esaminata deve essere condivisa e applicata anche al caso in esame.
Infatti il nucleo centrale della motivazione del provvedimento impugnato è il seguente: “Dagli accertamenti ispettivi definiti in data odierna, in particolare dall’esame del libro unico del lavoro, dal riscontro delle dichiarazioni rilasciate dai testi indicati dal predetto denunciante e dalle disposizioni di servizio del 14.09.16, del 19.01.18, del 09.05.18 disposte dall’Azienda Sanitaria Prov.le di Cosenza, (trasmesse alla SEATT ed al sig. Ventura ) per lo svolgimento dei compiti di addetto alla segreteria emerso che il dip. Ventura Ivan nato a Napoli il 20.07.81 ha prestato attività lavorativa in qualità di impiegato addetto alla segreteria corrispondente al livello B1 per come previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per le lavoratrici e lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario assistenziale-educativo e di inserimento lavorativo e non quelle rientranti nel livello A1 per come riconosciute dal datore di lavoro”.
Scomponendo la motivazione, la conclusione del ragionamento dell’Ispettorato è che “Il dip. Ventura (…) ha prestato attività lavorativa in qualità di impiegato addetto alla segreteria corrispondente al livello B1”.
Va detto sul punto che sulla base del CCNL applicato dalla Seatt, presente in atti il livello A1 riguarda: “Addetta/o alle pulizie, addetta/o alla sorveglianza e custodia locali, addetta/o all’assolvimento di commissioni generiche, addetta/o ai servizi generali di aiuto domiciliare, addetta/o ai servizi di spiaggia, ausiliaria/o”; invece il livello B1 riguarda: “Operaia/o qualificata/o anche all’utilizzo di strumentazione e macchinari, manutentore, conducente con patente B/C di mezzi ed automezzi, aiuto cuoca/o, addetta/o all’infanzia con funzioni non educative, addetta/o alla segreteria, assistente domiciliare e dei servizi tutelari, operatrice/ore socio-assistenziale, addetta/o all’assistenza di base o dell’accoglienza non formata/o, facilitatore linguistico altrimenti definito non formato”.
A supporto della conclusione per cui il dipendente Ventura avrebbe svolto attività di addetto alla segreteria, il provvedimento impugnato si limita a richiamare genericamente “quanto emerso”: a) dall’esame del libro unico; b) dal riscontro delle dichiarazioni rilasciate dai testi indicati dal predetto denunciante; c) dalle disposizioni di servizio del 14 settembre 2016, del 19 gennaio 2018 e del 9 maggio 2018, disposte dall’A.S.P. Cosenza.
Una tale motivazione, tuttavia, non è conforme all’art. 3 l.n. 241/1990 in quanto vengono richiamati più atti e documenti senza specificare in quali parti di essi, e per quali ragioni, si evinca lo svolgimento di prestazioni lavorative rientranti in un livello diverso.
In altre parole, se da un lato è ammissibile ai sensi dell’art. 3, comma 2, l.n. 241/1990 una motivazione per relationem, dall’altro lato essa non può limitarsi a rinviare a “quanto emerso” da determinati documenti, ma deve specificamente indicare i concreti presupposti di fatto che emergono dei documenti stessi. Diversamente opinando il “quanto emerso” cui si riferisce il provvedimento impugnato finisce per coincidere con la conclusione del ragionamento, rendendo la motivazione tautologica, vale a dire inesistente.
Nel caso di specie non è dunque evincibile per il destinatario del provvedimento (come per questo giudicante) l’iter logico che ha dato luogo all’adozione del provvedimento.
Infatti l’amministrazione avrebbe dovuto dar conto nella motivazione di due distinti passaggi logici: a) in che modo dai documenti in possesso, e da quali parti di essi, si ricavava lo svolgimento in concreto, da parte del dipendente, di determinate mansioni; b) per quale motivo queste mansioni dovessero essere interpretate come afferenti alla funzione di addetto alla segreteria e non invece, ad esempio, di addetto all’assolvimento di commissioni generiche (rientrante nel livello A1).
Ciò è del tutto mancato, dando luogo ad un salto logico incolmabile, in particolare considerato che alcune delle mansioni che emergono dagli atti richiamati (effettuazione di fotocopie, ricezione degli utenti presso l’Ufficio Segreteria delle Commissioni d’Invalidità Distretto Rende, ecc.) non sono di per sé univocamente sussumibili nel concetto di “addetto alla segreteria”, almeno in mancanza di congrua motivazione in tal senso.
Il motivo deve essere pertanto accolto.
6. L’accoglimento del secondo motivo di ricorso, siccome idoneo di per sé a caducare il provvedimento impugnato, comporta l’assorbimento dei restanti motivi, secondo quanto stabilito dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5/2015.
7. Le spese del giudizio devono essere compensate, considerate le particolarità del caso, anche per quanto riguarda la fase cautelare, con ciò riformando quanto precedentemente statuito nell’ordinanza n. 229/2023, come reso possibile dall’art. 57, comma 1, secondo periodo, c.p.a.
TAR CALABRIA – CATANZARO, II – sentenza 02.10.2025 n. 1546