1. Ma.Gi. articola in ricorso un unico motivo con il quale denuncia: ” violazione e falsa applicazione sotto il profilo di cui all’art. 360 comma 1 n. 3) c.p.c. (violazione di norme di diritto) dell’art. 2909 c.c. e 474, 480 c.p.c. in relazione all’art. 12 delle Preleggi e dell’art. 132 c.p.c. e 329 c.p.c.”, nella parte in cui il giudice d’appello ha interpretato l’inciso “per l’intero” con riferimento alle somme nella loro totalità e da decurtarsi alla metà. E, così facendo, avrebbe erroneamente interpretato il titolo esecutivo, in difformità dei principi sanciti dalla Legge e dal codice di procedura civile ed in contrasto con gli elementi extratestuali acquisiti al processo, così a lui inibendo di procedere ad esecuzione forzata per la maggior somma indicata nell’atto di precetto.
Premette che il titolo esecutivo, per cui era stato intimato il precetto, era costituito dalla sentenza n. 489/2019 con cui la Corte d’Appello di Napoli, in riforma della sentenza n. 725/2013 del Tribunale di Torre Annunziata, aveva accolto parzialmente l’appello proposto dall’arch. Re.Fi. (suo assistito) contro il Condominio “(Omissis)”.
In sintesi, secondo il ricorrente, partendo dalla lettura della sentenza del Tribunale in primo grado con la condanna del condominio al pagamento di 1/3 delle spese di lite, pari ad Euro 800,00 (elemento extratestuale), passando per la motivazione contenuta nel titolo esecutivo che aveva aumentato ad ½ la condanna alle spese di lite, si giunge alla corretta interpretazione del dispositivo e del titolo: la somma di Euro 1.200,00 avrebbe dovuto liquidarsi per intero, perché già decurtata alla metà.
2. Il ricorso non può trovare accoglimento.
Esso, essendo incentrato su una presunta violazione di legge derivante da un’interpretazione del titolo esecutivo, pone il seguente quesito: la corretta interpretazione del giudicato può richiedere il ricorso agli elementi extratestuali per evitare un esito processuale illegittimo come la reformatio in pejus.
In argomento, sono ormai decorsi tredici anni da quando le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 11066/2012) hanno affermato che “Il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell’art. 474, secondo comma, n. 1, cod. proc. civ., non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, essendo consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato”.
Sul solco tracciato dalle Sezioni Unite, la successiva giurisprudenza di legittimità a sezioni semplici ha poi precisato (a partire da Cass. n. 1027/2013 e Cass. n. 9161/2013) che della questione deve essersi dibattuto e che sulla stessa deve potersi dire intervenuta una decisione, sebbene non esplicitata: non si deve, cioè, trattare di questioni sconosciute alle parti.
Ne è derivata la massima – ormai consolidata (Cass. nn. 1027/2013 e 9161/2013; nn. 9488, 23159 e 25676/2014; n. 19641/2015; nn. 23148, 24635 e 26567/2016; n. 14267/2017) – secondo cui “il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell’art. 474, co. 2, n. 1, c.p.c., non si esaurisce nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, in quanto è consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui si è formato, purché le relative questioni siano state trattate nel corso dello stesso e possano intendersi come ivi univocamente definite, essendo mancata, piuttosto, la concreta estrinsecazione della soluzione come operata nel dispositivo o perfino nel tenore stesso del titolo”.
L’interpretazione che precede realizza un equo contemperamento di una triplice esigenza:
– l’esigenza di non avallare la tecnica della ricostruzione ab externo dell’atto giudiziale (tecnica che sovraccarica i protagonisti del processo di esecuzione forzata di un ruolo che ad essi non compete);
– l’esigenza di consentire l’eterointegrazione del titolo ogniqualvolta ciò costituisca estrinsecazione di argomentazioni che hanno formato oggetto del processo cognitivo, che ha preceduto la formazione del titolo, ma che, per qualsiasi ragione, sono letteralmente rimaste estranee ad esso (eterointegrazione che consente di valorizzare l’attività già posta in essere, evitandone la vanificazione);
– l’esigenza di contenere il rischio che si insinui in sede esecutiva una fase cognitiva che in un certo qual modo stride con le dinamiche meramente attuative dell’esecuzione.
Occorre qui ribadire che l’eterointegrazione del titolo esecutivo giudiziale è ammissibile soltanto nel caso in cui si risolva in un’attività integrativa univoca, che non involga attività cognitive suppletive o integrative, rimaste estranee al giudizio che ha preceduto la formazione del titolo.
Tale consolidato principio non è rimasto scalfito neppure dal recente intervento nomofilattico di Cass. Sez. U. n. 5633/22, che ha innovato sulla qualificazione del giudicato giudiziale (assimilandolo alla norma, quand’anche del caso concreto); ma non è affatto intervenuto sulla limitata eterointegrabilità e, quindi, sulla preclusione di una rivisitazione del comando stesso. Dunque, resta fermo che, come di recente ribadito (Cass. nn. 14234 e 1942/2023), “né alla stregua dell’orientamento inaugurato dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 11066/12, né alla stregua del successivo intervento delle stesse Sezioni Unite con sentenza n. 5633/22, è consentita un’integrazione, tanto meno extratestuale, del titolo esecutivo quando è univoca e certa la struttura del suo comando e quando gli ulteriori elementi potevano essere sottoposti nel giudizio in cui quel titolo è stato reso, al giudice della relativa cognizione e, se del caso, con l’idoneo gravame avverso il medesimo”.
Tale principio di diritto è stato correttamente applicato nel caso di specie dal Tribunale di Torre Annunziata, che, quale giudice di appello dell’opposizione all’esecuzione – dopo aver puntualmente ripercorso (pp. 7-8) i criteri giuridici che regolano l’estensione ed i limiti cui il giudice dell’opposizione all’esecuzione è soggetto nell’interpretazione del titolo esecutivo – ha ritenuto (pp. 8-10) che:
a) “Dalla lettura congiunta e complessiva delle statuizioni del dispositivo e delle enunciazioni della parte motiva contenuta nel titolo esecutivo … emerge senza dubbio che le spese indicate in dispositivo fossero poste a carico del Condominio nella misura della metà”;
b) “non ricorrendo ambiguità ed incertezza di sorta era ed è precluso fare ricorso ad altri elementi extratestuali anche indicati dall’appellante (liquidazione conforme alla tariffa professionale, valore della controversia, appello parzialmente accolto con conseguente rimodulazione delle spese di lite in melius)”;
c) “Ogni diversa interpretazione comporterebbe una inammissibile e vietata sovrapposizione nella valutazione eseguita dal giudice di merito, consentita eventualmente – fatte salve le decorrenze dei termini – solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione o di correzione dell’errore materiale”.
L’argomento, pur suggestivo, dell’effetto in apparenza stridente con quanto possa apparire dall’andamento complessivo del giudizio cui la liquidazione delle spese si riferisce, infine, non costituisce valida ragione per discostarsi dalla conclusione della necessità del rispetto rigoroso di quanto letteralmente risulta dal tenore testuale del titolo esecutivo giudiziale definitivo: poiché ad ogni eventuale aporia o incongruenza sarebbe stato indispensabile porre rimedio coi rimedi ordinari avverso il titolo stesso e non in sede di esecuzione di quello e, meno che mai, di opposizione all’esecuzione sulla sua base.
In definitiva, il motivo viene deciso alla base del seguente principio di diritto:
“L’interpretazione di un titolo esecutivo di formazione giudiziale, diretta a determinarne l’esatta portata precettiva, rappresenta compito istituzionalmente devoluto al giudice dell’esecuzione (oppure al giudice adito con opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ.). Detta interpretazione: se il titolo non è passato in giudicato, si risolve nell’apprezzamento di un fatto, come tale incensurabile in sede di legittimità qualora esente da vizi motivazionali; mentre, se il titolo è già passato in giudicato, si risolve in una norma del caso concreto, interpretabile coi criteri ermeneutici propri delle norme ed in linea con gli elementi ritualmente acquisiti e trattati nel giudizio in cui si è formato il titolo, ma comunque senza poter mai superare il tenore letterale del comando”.
3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna alle spese del ricorrente in favore della controparte – contenute in misura prossima al minimo per la peculiare semplicità della vicenda e con la distrazione chiesta dal difensore del controricorrente condominio – e la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il pagamento dell’importo, previsto per legge ed indicato in dispositivo, se dovuto (Cass. Sez. U. 20 febbraio 2020 n. 4315).
Cass. civ., III, ord. 03.11.2025, n. 29062