1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito indicate.
2. Invero, il comma 2-bis dell’art. 442 del codice di rito, introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022 prevede che quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna (pronunciata all’esito del rito abbreviato), la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione.
2.1. Secondo il giudice dell’esecuzione la norma in questione non consentirebbe, contestualmente alla riduzione in questione, di disporre la revoca della interdizione temporanea dai pubblici uffici nonostante, solo per effetto di tale riduzione, la pena risulti contenuta entro i limiti che escludono l’applicazione di detta pena accessoria a norma dell’art. 29 cod. pen.
2.2. Deve, anzitutto, ricordarsi che la Corte costituzionale con la sentenza n. 208 del 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici; inoltre ha dichiarato in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.
2.3. Orbene, come chiarito dal Giudice delle leggi con la sentenza sopra richiamata (resa in tema di sospensione della pena e di non menzione della condanna) il meccanismo sopra indicato produce effetti anche nella generalità delle ipotesi in cui il codice di procedura penale prevede riduzioni di pena finalizzate a incentivare, a scopi deflativi del contenzioso, definizioni processuali alternative rispetto al dibattimento (rito abbreviato, patteggiamento, procedimento per decreto). In tutte queste fattispecie, la diminuzione di pena connessa al rito si opera sulla pena già determinata in base alle regole generali del codice penale. Pertanto, la diminuzione della pena conseguente a scelte processuali individuali non è una concessione al condannato, ma riflette la precisa logica sinallagmatica adottata dal legislatore, che garantisce un minor carico sanzionatorio a chi volontariamente rinunci a esercitare parti integranti del proprio diritto costituzionale di difesa, fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso: il che non è senza significato nemmeno ai fini della valutazione della “necessità di pena” del singolo condannato. Ne consegue che è del tutto logico che (come già ritenuto dalla Corte costituzionale in tema di sospensione condizionale e non menzione con la sopra richiamata decisione) che anche la valutazione sui presupposti per l’applicazione delle pene accessorie venga operata rispetto alla pena così come determinata “a valle” delle scelte processuali dell’Imputato, che costituiscono, esse pure, elementi significativi nella “commisurazione in senso lato” della pena a lui applicabile.
2.4. In particolare, l’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., stabilisce un meccanismo premiale, per effetto del quale la pena viene ridotta di un sesto nell’ipotesi in cui il condannato in esito a un giudizio abbreviato non proponga impugnazione contro la sentenza. Tale riduzione è espressamente indicata quale “ulteriore” rispetto a quella della metà o di un terzo prevista dal comma 2.
2.5. In entrambi i meccanismi normativi, la pena originariamente determinata dal giudice sulla base degli ordinari criteri di cui agli artt. 133 e 133-bis cod. pen. subisce una modificazione ex lege, in omaggio a logiche deflattive del contenzioso penale: rispetto all’ipotesi del comma 2, al fine di incentivare il ricorso al rito abbreviato, caratterizzato dalla rinuncia alle garanzie del contraddittorio nella formazione della prova; rispetto a quella, ora all’esame, del comma 2-bis, allo scopo di indurre il condannato a rinunciare ad impugnazioni miranti unicamente a una riduzione della pena inflittagli (così la relazione finale della Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al disegno di legge A.C. 2435, pagina 27). Nell’una e nell’altra ipotesi, il legislatore si ripromette dunque di ottenere un risparmio di tempi e di energie per il già sovraccaricato sistema penale italiano, riducendo per quanto possibile – rispettivamente – il numero di giudizi dibattimentali e di impugnazioni.
2.6. La peculiarità della riduzione “ulteriore” di pena di cui al comma 2-bis risiede, però, nella circostanza che alla rideterminazione della pena è chiamato il giudice dell’esecuzione, anziché il giudice della cognizione. Ciò, da un lato, è conseguenza necessaria del meccanismo normativo, che presuppone la rinuncia all’impugnazione nei termini di legge da parte del condannato e, dunque, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna; dall’altro lato, questa peculiarità pone, sul piano esegetico, il quesito se, nel silenzio del legislatore, anche il giudice dell’esecuzione abbia il potere (o il dovere) di revocare la pena accessoria, quando soltanto per effetto della nuova riduzione vengano meno i requisiti per la stessa pena accessoria.
3. Ciò posto, questo Collegio, tenuto conto di quanto statuito dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n.208/2024, ritiene che una risposta negativa a tale quesito sia incompatibile con i principi costituzionali in materia.
3.1. Anzitutto, chi rinunci al proprio diritto all’impugnazione della sentenza di condanna pronunciata all’esito di un giudizio abbreviato, in cambio di un ulteriore sconto di pena rispetto a quello già ottenuto per effetto della scelta del rito, si troverebbe in una posizione significativamente deteriore rispetto a tutti coloro che si avvalgano di analoghi sconti di pena, in cambio della rinuncia a proprie facoltà processuali parimenti coperte dal diritto costituzionale di difesa e dai principi del giusto processo. Rispetto a tutti costoro, è la pena determinata “a valle” della riduzione di pena connessa al rito – e non già quella determinata dal giudice “a monte” di tale riduzione – a costituire il presupposto per la revoca della eventuale pena accessoria.
3.2. Invero, una tale disparità di trattamento non sarebbe giustificabile sulla base dell’art. 3 Cost. E ciò tanto più in quanto, come già osservato, la rinuncia all’impugnazione della sentenza di condanna, dalla quale dipende la riduzione di un sesto della pena, è sacrificio diverso e ulteriore rispetto alla rinuncia alle garanzie del dibattimento, che è già “compensata” dalla riduzione della metà o di un terzo prevista dal comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen.
3.3. Inoltre, la tesi sostenuta dal giudice dell’esecuzione con l’ordinanza impugnata si pone in contrasto con le ordinarie regole di “commisurazione in senso lato” della pena, a loro volta espressione del principio della finalità rieducativa di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.
3.4. Ne consegue che, come statuito dalla Corte costituzionale in tema di sospensione condizionale della pena e di non menzione, la regola di sistema vigente nel nostro ordinamento è che la misura finale della pena (e non già quella irrogata in sede di cognizione) costituisce il presupposto circa la valutazione delle condizioni per la revoca della pena accessoria. Deve poi ricordarsi che, il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost., esige l’individualizzazione della sanzione rispetto al singolo fatto di reato e alla situazione del singolo condannato (ex multis, sentenze n. 91 del 2024, punto 9 del Considerato in diritto; n. 86 del 2024, punto 5.8. del Considerato in diritto; n. 197 del 2023, punto 5.5.1. del Considerato in diritto; n. 195 del 2023, punto 6.1. del Considerato in diritto; n. 40 del 2023, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 222 del 2018, punti 7.1. e 7.2. del Considerato in diritto).
3.5. Infine, la soluzione sostenuta nella ordinanza impugnata finirebbe per minare gravemente l’effettività dell’incentivo alla rinuncia all’impugnazione, per chi sia stato condannato a una pena che, grazie alla riduzione di un sesto, impedisce l’applicazione della pena accessoria. In tal caso, infatti, il condannato avrebbe ogni incentivo per proporre appello, mirando a ottenere in quella sede una riduzione della pena, anche grazie al meccanismo del concordato con rinuncia ai motivi di appello di cui all’art. 599-bis cod. proc. pen.
4. Pertanto, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in questione (consentita in forza di quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza sopra richiamata) deve ritenersi che il giudice dell’esecuzione, in forza dei poteri riconosciutigli dall’art. 676, commi 1 e 3-bis, del codice di rito, possa procedere alla revoca della pena accessoria nella ipotesi in cui la pena – a seguito della riduzione del sesto – scenda al di sotto dei tre anni di reclusione.
4.1. Invero, il Giudice delle leggi ha precisato che una simile interpretazione è possibile non solo in considerazione del silenzio serbato sul punto dal legislatore (e dunque dell’assenza di dati testuali incompatibili con tale interpretazione), ma anche alla luce dei principi gradatamente enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, dai quali emerge che tra i poteri del giudice dell’esecuzione – fondati che siano su espresse disposizioni normative, su applicazioni analogiche di tali disposizioni ovvero su un’analogia iuris che muova dal principio generale del necessario adeguamento del titolo esecutivo a fatti sopravvenuti al giudicato stesso – rientra il potere di effettuare ogni valutazione conseguente alla rideterminazione della pena irrogata nella sentenza irrevocabile, a sua volta imposta dalle disposizioni di legge di volta in volta rilevanti.
4.2. In simili ipotesi, il giudizio di esecuzione è chiamato a ospitare un «frammento di cognizione» (sentenza n. 183 del 2013, punto 6 del Considerato in diritto), sulla base del materiale raccolto in precedenza o – eventualmente -delle nuove evidenze necessarie a compiere le valutazioni in parola, sì da adeguare le statuizioni relative alla pena nel loro complesso alla mutata situazione sopravvenuta al giudicato, e alla quale il giudicato stesso deve essere conformato.
5. In conclusione, la ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio con la revoca della pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici essendo venuto meno il relativo presupposto; infatti, poiché le pene accessorie costituiscono effetti penali di determinate condanne, la statuizione della sentenza che le prevede o che determina la loro durata, ove ciò non comporti una valutazione discrezionale, può essere esclusa o modificata anche in sede di legittimità nelle ipotesi di mancanza originaria o sopravvenuta del loro presupposto legale (Sez. 2, n. 13221 del 20/11/1998, Rv. 211967 – 01).
Cass. pen., I, ud. dep. 24.10.2025, n. 34776