1. L’appellante ha impugnato la sentenza del Tar Piemonte, sezione III, n. 294 del 6 febbraio 2025, nella sola parte relativa alla liquidazione delle spese in € 500,00 ritenuta non conforme parametri di cui alla Tabella n. 21 dell’Allegato 1 al decreto ministeriale 10 marzo 2014. n. 55.
Il Ministero appellato si è costituito solo formalmente.
Con atto depositato il 1° luglio 2025 la parte appellante ha chiesto la decisione della causa sugli scritti.
Alla camera di consiglio del giorno 8 luglio 2025 la causa è stata trattenuta in decisione.
2. L’appellante ha proposto ricorso innanzi al Tar Piemonte per l’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza n. 1701 del 2023 del Tribunale di Vercelli che, in accoglimento del ricorso, ha ordinato al Ministero dell’istruzione e del merito l’attribuzione della carta elettronica, prevista dall’art. 1, comma 121, della legge n. 107 del 2015, con accredito sulla medesima carta dell’importo complessivo di € 2.500,00, da utilizzare esclusivamente tramite la piattaforma dedicata per attività formative.
Quanto alla statuizione sulle spese, con la sentenza indicata in epigrafe, il Tar, in considerazione del carattere seriale e del non elevato livello di complessità della causa anche in relazione ai numerosi, analoghi, precedenti, ha stabilito la liquidazione in euro 500,00 (cinquecento), oltre spese generali nella misura del 15%, spese anticipate e accessori come per legge, disponendone la distrazione in favore dei difensori dichiaratisi antistatari.
3. L’appellante critica la sentenza impugnata in relazione alla statuizione sulle spese di lite, deducendo, in sintesi, che la liquidazione è avvenuta per un importo inferiore ai parametri tariffari minimi.
Più in particolare, secondo l’appellante la sentenza è censurabile in quanto, pur accogliendo integralmente la domanda formulata, ha riconosciuto solo euro 500,00 a titolo di spese legali, in violazione della disciplina di riferimento, che non consentirebbero di liquidare un importo inferiore al 50% delle tariffe medie, sicché il primo giudice avrebbe dovuto liquidare un importo minimo (pari al tabellare ridotto del 50%) ammontante ad euro 1.189,00 oltre Iva e Cpa, nonché il contributo unificato e le c.d. “spese forfetarie” nella misura del 15%.
In tale quadro, l’appellante ha, tra l’altro, censurato il difetto assoluto di motivazione, dovendosi ritenere – in tesi – che i riferimenti al carattere seriale della causa e al non elevato livello di complessità delle questioni controverse integrano una motivazione meramente apparente e stereotipata, tale, comunque, da non soddisfare il rigoroso onere motivazionale richiesto dall’art. 26, comma 1, del c.p.a. e dall’art. 88, comma 2, lett. d), nonché dagli artt. 91 e 92 del c.p.c.
L’appellante ha, quindi, conclusivamente richiesto di accogliere il ricorso e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannare l’amministrazione appellata a versare alla ricorrente originaria, a titolo di spese di lite del giudizio di primo grado, l’importo complessivo di € 1.189,00, oltre Iva e Cpa, spese generali e contributo unificato, o il diverso importo, anche maggiore, risultante dovuto, con distrazione, ai sensi dell’art. 93 del c.p.c., in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari.
4. L’appello è fondato, per le ragioni e nei termini di seguito esposti.
Deve farsi riferimento per la motivazione, ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d), c.p.a., ai precedenti della sezione n. 4431 del 22 maggio 2025 e n. 3897 del 7 maggio 2025 resi su casi simili a quello in esame.
Preliminarmente si richiama il principio secondo il quale il giudice amministrativo è tenuto a motivare la decisione sulla liquidazione delle spese processuali solo qualora decida di discostarsi dalla regola della soccombenza (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5947 del 2024).
Pur essendo la quantificazione del compenso e delle spese processuali espressione di un potere discrezionale riservato al giudice, è fatto salvo l’obbligo di non attribuire somme simboliche, lesive del decorso professionale (cfr. Cass. civ., sez. II, n. 34842 del 2023).
Quanto all’applicazione dei valori tabellari, nel parere reso dal Consiglio di Stato, sezione consultiva, n. 2703 del 27 dicembre 2017, in relazione allo schema di decreto del Ministro della giustizia recante “modifiche al decreto del Ministro della giustizia 10 marzo 2014, n. 55”, viene chiarito che le modifiche ai parametri erano, fra l’altro, dirette proprio a «superare l’incertezza applicativa ingenerata dalla possibilità, nell’attuale sistema parametrale, che il giudice provveda alla liquidazione del compenso dell’avvocato senza avere come riferimento alcuna soglia numerica minima, rendendo inadeguata la remunerazione della prestazione professionale», sicché il decreto intendeva «limitare il perimetro di discrezionalità riconosciuto al giudice, individuando delle soglie minime percentuali di riduzione del compenso rispetto al valore parametrico di base al di sotto delle quali non è possibile andare». La sezione consultiva ha conseguentemente rimarcato che l’intenzione di fissare soglie minime non derogabili da parte degli organi giudicanti doveva essere meglio esplicitata, evitando di far ricorso, nel decreto ministeriale n. 55 del 2014, artt. 4, comma 1, 12, comma 1 e 19, comma 1, alla locuzione “di regola”, pure per gli aumenti percentuali ed ha escluso che l’obiettivo della inderogabilità dei minimi tariffari contravvenisse con la sentenza n. 427 del 23 novembre 2017 della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, deve ritenersi non corretta la quantificazione delle spese operata dal primo giudice, che si pone al di sotto dei valori tariffari approvati con il decreto ministeriale n. 147 del 2022 per lo scaglione da € 1.101 a € 5.200, pur tenendo conto della riduzione prevista dall’art. 4, comma 4 del medesimo decreto.
Tuttavia, l’assenza di difese dell’amministrazione resistente se, da una parte, smentisce l’affermazione del Tar secondo cui la difesa erariale avrebbe rappresentato in giudizio la oggettiva situazione di difficoltà operativa in cui versa l’amministrazione intimata nell’esecuzione dei titoli giudiziali della specie (la difesa erariale in primo grado, come già detto, ha depositato solo una costituzione formale e non è stata presente in udienza), dall’altra si è riflessa sull’attività della difesa della ricorrente, in particolare nella fase decisionale, limitata alla mera presenza in camera di consiglio di un sostituto di uno dei difensori per chiedere la decisone, senza previo deposito di ulteriori scritti defensionali.
Inoltre deve rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, la motivazione posta a fondamento della liquidazione disposta nella sentenza impugnata non può ritenersi apodittica, venendo in rilievo un contenzioso oggettivamente non connotato di profili di complessità e, inoltre, seriale, stanti i «numerosi, analoghi, precedenti».
In conclusione, il Collegio ritiene che, in accoglimento dell’appello, per le ragioni sopra esposte, la sentenza di primo grado deve essere riformata, determinando l’importo di euro 800,00 (ottocento) quale equa liquidazione delle spese processuali, oltre accessori come per legge e oltre alla rifusione del contributo unificato, con distrazione in favore dei difensori dichiaratisi antistatari.
5. Le spese del grado di appello vanno liquidate in favore dell’appellante secondo il principio di soccombenza.
Tenuto conto che il valore della controversia, in secondo grado, è solo quello delle spese legali del primo grado (essendo stato impugnato unicamente il capo della sentenza relativo alle spese di lite) le spese del secondo grado si liquidano in euro 300,00 oltre agli accessori dovuti per legge.
Resta fermo il diritto della parte appellante e, per essa, dei difensori dichiaratisi anticipatari, alla rifusione del contributo unificato, ove versato, a carico del Ministero appellato.
CONSIGLIO DI STATO, VII – sentenza 09.09.2025 n. 7251