Giurisdizione e competenza – Giudicato – Violazione al diritto di difesa accertato dalla Corte EDU e rimozione giudicato

Giurisdizione e competenza – Giudicato – Violazione al diritto di difesa accertato dalla Corte EDU e rimozione giudicato

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

1.1. Prima di trattare le ragioni per le quali la richiesta ex art. 628-bis cod. pen. non può essere accolta è bene premettere che la difesa ha proposto istanza di trattazione orale del processo, istanza che, tuttavia, è stata rigettata dalla Presidente Titolare della Quinta Sezione Penale, con provvedimento del 28 aprile 2025.

Il rigetto è stato stabilito in coerenza con il dettato degli artt. 628-bis, quarto comma, cod. pen. e 611 cod. proc. pen.

La prima norma disciplina la procedura per trattare le richieste di eliminazione degli effetti pregiudizievoli, facendo richiamo alla decisione da assumere in camera di consiglio, ai sensi proprio della seconda disposizione contenuta nel codice di rito, vale a dire l’art. 611 cod. proc. pen.

Il provvedimento di rigetto ha fatto notare come la trattazione orale non rientrasse in alcuna delle ipotesi che il citato art. 611 cod. proc. pen. contempla e che, dunque, il contraddittorio, nelle richieste ex art. 628-bis cod. pen., volte all’eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte EDU, è assicurato in forma esclusivamente scritta.

L’attuale formulazione dell’art. 611 cod. proc. pen. stabilisce, infatti, che la Cassazione provvede ordinariamente sui ricorsi in camera di consiglio e che, se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall’art. 127 cod. proc. pen., giudica sui motivi, sulle richieste del procuratore generale e sulle memorie senza la partecipazione dello stesso procuratore generale e dei difensori.

Ebbene, la norma assicura la possibilità di accedere ad una trattazione partecipata in camera di consiglio soltanto in due casi, e cioè quando:

– si tratti di ricorsi per i quali è stabilita, dallo stesso legislatore, l’osservanza delle forme previste dall’articolo 127 cod. proc. pen. (cfr. art. 611, comma 1 -bis, lett. a, cod. proc. pen.);

– si tratti di ricorsi avverso sentenze pronunciate all’esito di udienza in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti, a norma dell’articolo 598-bis cod. proc. pen., salvo che l’appello abbia avuto esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione fra circostanze, o l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di pene sostitutive, della sospensione della pena o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (cfr. art. 611, comma 1-bis, lett. b, cod. proc. pen.).

In mancanza di indicazioni legislative nell’art. 628-bis cod. proc. pen., quindi, non può essere disposta la celebrazione del processo in camera di consiglio partecipata.

Questa Corte, peraltro, ha già avuto modo di evidenziare che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 628-bis, comma 4, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3,111 e 117 Cost., nella parte in cui, disponendo che la richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli della decisione adottata in violazione della CEDU sia trattata in camera di consiglio, non prevede che le parti possano discutere oralmente dinanzi alla Corte di cassazione (Sez. 5, n. 47183 del 12/10/2023, K., Rv. 285398).

Si condivide, in particolare, oltre che la conclusione cui è giunta a suo tempo la Quinta Sezione Penale, anche la ragione fondante dell’esclusione di qualsiasi dubbio di legittimità costituzionale, vale a dire la non manifesta irragionevolezza della disposizione di cui al comma 4 dell’art. 628-bis cod. proc. pen.

L’unico limite alla ampia discrezionalità attribuita al legislatore dalla consolidata giurisprudenza costituzionale nel disciplinare gli istituti processuali, infatti, è proprio quello di operare secondo parametri di non manifesta irragionevolezza (ex multis, cfr. le sentenze nn. 250 del 201865 del 201410 del 2013216 del 2013304 del 2012 Corte cost. e le ordinanze nn. 48 del 2014 e 190 del 2013 Corte cost.).

E tale carattere di non manifesta irragionevolezza della previsione di legge in esame si apprezza – come è stato affermato – ponendo mente al fatto che il contraddittorio non viene affatto mortificato o compresso, bensì semplicemente modulato secondo una forma che riesce comunque efficacemente, ancorché solo cartolarmente, ad assicurare la piena espansione dei diritti difensivi, mediante la possibilità di depositare memorie e motivi aggiunti.

Deve concludersi, pertanto, che, ai sensi degli artt. 611 cod. proc. pen. e 628-bis, comma 4, cod. proc. pen., la richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della CEDU deve essere trattata dinanzi alla Corte di cassazione in camera di consiglio, senza possibilità di trattazione orale.

1.2. Quanto alle osservazioni contenute nella memoria di replica difensiva depositata il 12 maggio 2025, con cui, tra l’altro, si rimette genericamente al Collegio di verificare l’opportunità di rifissare il processo per consentire la comunicazione delle conclusioni del Procuratore generale “nel rispetto dei termini”, si rappresenta l’intempestività dell’atto e l’approssimazione con cui approccia all’attuale regime processuale vigente per il giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di cassazione.

Invero, nel procedimento cartolare novellato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la cui disciplina è vigente dal 1 luglio 2024, la comunicazione, a cura della cancelleria, delle conclusioni del pubblico ministero alle altre parti, diversamente da quanto stabilito per il previgente rito cartolare “pandemico”, non è più prevista né per il procedimento di appello ex art. 598-bis cod. proc. pen. né per quello di cassazione ex art. 611 cod. proc. pen., essendo stabilito esclusivamente che le richieste del Procuratore generale siano presentate quindici giorni prima dell’udienza e che le parti possano presentare motivi nuovi, memorie e, fino a cinque giorni prima dell’udienza, memorie di replica, sicché le richieste avanzate dalla parte pubblica sono a disposizione delle altre parti, che possono richiederne copia alla cancelleria, mentre eventuali comunicazioni relative al deposito devono considerarsi di mera “cortesia”, non sussistendo più alcun obbligo al riguardo (Sez. 2, n. 15245 del 06/03/2025, Berisha, Rv. 287897 – 01).

Dunque, nessuna comunicazione era dovuta alla difesa riguardo alle conclusioni della Procura generale e, anzi, il difensore avrebbe dovuto preoccuparsi di prendere visione tempestivamente del fascicolo processuale al fine di depositare la memoria entro il termine massimo consentito di cinque giorni precedenti all’udienza, a pena di inammissibilità.

A prescindere dall’intempestività della memoria difensiva e dalla manifesta infondatezza della prospettazione di rinvio dell’udienza, comunque formulata in via dubitativa rimettendosi al Collegio e non come reale eccezione, nel merito, la memoria si limita a riproporre sinteticamente gli argomenti della richiesta principale, che verranno affrontati di seguito approfonditamente.

2. Venendo, quindi, ad esaminare i contenuti della richiesta di eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti dalle violazioni accertate dalla Corte di Strasburgo nei confronti dell’istante, è bene svolgere alcune osservazioni sistematiche utili, in merito al nuovo istituto introdotto con l’art. 628-bis cod. proc. pen. dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

2.1. Il nostro ordinamento processual-penalistico, introducendo la “richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei Protocolli addizionali”, oggi prevista dall’art. 628-bis cod. pen., si è finalmente dotato di uno specifico strumento in grado potenzialmente anche di incidere il giudicato penale, qualora questo sia l’epilogo di un procedimento interno riconosciuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contrario alle disposizioni della CEDU.

Secondo la nuova norma, il condannato e la persona sottoposta a misura di sicurezza possono richiedere alla Corte di cassazione di revocare la sentenza penale o il decreto penale di condanna pronunciati nei loro confronti, di disporre la riapertura del procedimento o, comunque, di adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quando hanno proposto ricorso per l’accertamento di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dai Protocolli addizionali alla Convenzione e la Corte europea ha accolto il ricorso con decisione definitiva, oppure ha disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso ai sensi dell’articolo 37 della Convenzione, a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato.

Già oltre vent’anni fa, peraltro, con la raccomandazione del 19 gennaio 2000, R (2000) 2, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva invitato gli Stati membri a prevedere «adeguate possibilità di riesame di un caso, ivi compresa la riapertura di procedimenti» per il caso in cui la Corte EDU abbia accertato una violazione della Convenzione.

Ebbene, anche grazie alla lungimirante opera giurisprudenziale, con cui si sono rappresentati e fronteggiati i principali problemi interpretativi posti dall’esigenza di dare effettività alle decisioni adottate dalle sentenze della Corte EDU che stabiliscano la violazione di diritti umani fondamentali, il legislatore ha rimediato alla lacuna normativa presente nell’ordinamento italiano oramai da troppo tempo; una lacuna che aveva costretto, appunto, i giudici nazionali ad interventi di adattamento di strumenti già presenti nel nostro sistema, sia pure pensati originariamente per altri fini, per corrispondere alle esigenze di garantire attuazione alle decisioni della Corte europea.

Secondo le esigenze, si sono utilizzati, nel corso degli anni, gli istituti: della restituzione nel termine per l’imputato contumace ex art. 175, commi 2 e 2-bis, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 1, n. 8784 del 12/02/2008, Ay, Rv. 239141; Sez. 5, n. 4395 del 15/11/2006, dep. 2007, Cat Berrò, Rv. 235446); del ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. (cfr. Sez. 6, n. 45807 del 12/11/2008, Drassich, Rv. 241753); Sez. 5, 11/02/2010, n. 16507, Scoppola, Rv. 247244); dell’incidente di esecuzione di cui all’art. 670 cod. proc. pen. (cfr. Sez. 1, n. 2800 del 01/12/2006, dep. 2007, Dorigo, Rv. 235447); della cd. “revisione europea”, in seguito alla sentenza n. 113 del 2011 Corte cost.

Soprattutto con tale sentenza, i giudici delle leggi hanno aperto un varco alla necessità che l’ordinamento processuale penale interno si modelli in maniera tale da offrire un rimedio attuativo per i ricorrenti vittoriosi a Strasburgo, nei confronti dei quali sia stata accertata la violazione di un diritto protetto dalla Convenzione.

La decisione ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione e dell’art. 46CEDU, l’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 § 1 CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte EDU.

La Corte costituzionale ha sottolineato che l’obbligo di conformarsi alle sentenze definitive emesse dalla Corte EDU, sancito a carico delle Parti contraenti della Convenzione, comporta, infatti, anche l’impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla CEDU (particolarmente in tema di equo processo, aggiungeva la Corte).

Consapevole di tale assioma fondamentale, il legislatore ha dovuto ricercare, dunque, un adeguato bilanciamento tra i due fondamentali valori in gioco: la certezza e la stabilità della cosa giudicata, da un lato, e, dall’altro, la necessità di assicurare un rimedio effettivo alle compromissioni delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona “di particolare pregnanza” (così si esprime la sentenza n. 113 del 2011 Corte cost.), accertate dalla Corte di Strasburgo e che trovano, del resto, riscontro nella stessa Carta costituzionale.

Da ultimo, poco prima che si intervenisse con il d.lgs. n. 150 del 2022, la sentenza Sez. 5, n. 16226 del 04/02/2022, Frascati, Rv. 283395, ha costituito il preludio interpretativo alla decisione legislativa di rendere azionabile il rimedio, non già solo in conseguenza dell’accertamento di una violazione dei diritti della Convenzione contenuto in una sentenza di condanna della Corte EDU nei confronti dello Stato italiano, ma anche quando tale accertamento derivi da una decisione di cancellazione dal ruolo della Corte di Strasburgo emessa ai sensi dell’art. 37 CEDU.

In tale sentenza, la Cassazione, in materia di “revisione europea”, ha stabilito la natura ricognitiva, di riconoscimento della violazione della norma convenzionale, della decisione di cancellazione dal ruolo adottata ai sensi degli artt. 37 CEDU e 62 del Regolamento CEDU – quest’ultima norma disciplina la dichiarazione unilaterale dello Stato di avvenuta violazione – ritenendola vincolante per lo Stato contraente della Convenzione, pur non costituendo detta decisione una condanna.

La cancellazione della causa dal ruolo, seguendo il citato art. 37 CEDU, può essere disposta in ogni momento della procedura, quando le circostanze permettono di concludere: (a) che il ricorrente non intende più mantenere fermo il ricorso; oppure (b) che la controversia è stata risolta; oppure (c) che per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata.

Nella disposizione di chiusura, contenuta nella lettera (c) appena richiamata, la Corte EDU fa rientrare, come accaduto anche nel caso di specie, la procedura di dichiarazione unilaterale del Governo con cui si riconosca la violazione di un diritto convenzionale e si disponga un adeguato risarcimento, coerente con le indicazioni della stessa giurisprudenza di Strasburgo sul tema di volta in volta al centro della violazione accertata.

L’istituto di nuovo conio dà forma, dunque, ad un passaggio fondamentale di quel processo osmotico che ha portato il nostro ordinamento processuale interno a diventare uno strumento multilivello, in cui le fonti interne si intersecano con quelle sovranazionali ed unionali – per come vivono nell’interpretazione della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia – disegnando gli spazi di una nuova legalità, costantemente in divenire.

Ed è così che la complessità del dialogo tra le fonti sovranazionali e le fonti interne e tra la giurisprudenza europea e quella nazionale diventa quasi moltiplicatore degli spazi di tutela dei diritti fondamentali.

2.2. La Corte di cassazione ha già analizzato i caratteri principali del nuovo istituto previsto dall’art. 628-bis cod. proc. pen. ed è bene sintetizzare preliminarmente l’elaborazione interpretativa sin qui avutasi, per potere apprezzare al meglio analogie e differenze delle questioni che apre la richiesta oggi all’esame del Collegio.

Due sentenze principalmente rappresentano le linee guida interpretative della giurisprudenza di legittimità riguardo al tema in esame:

1) la sentenza Sez. 5, n. 39801 del 13/7/2023, Viola, Rv. 286810, derivata dalla richiesta dell’interessato di dare esecuzione alla decisione della Corte EDU, Viola c. Italia, del 13 giugno 2019 (con cui è stata dichiarata la violazione dell’art. 3 CEDU, quanto alle modalità di esecuzione della pena dell’ergastolo, in relazione all’impossibilità di accedere, in mancanza di collaborazione con la giustizia, alla liberazione condizionale o anticipata, per l’operare di una presunzione assoluta di pericolosità sociale);

2) la già citata sentenza Sez. 5, n. 47183 del 12/10/2023, K., Rv. 285398, relativa alla posizione di un’imputata (per il reato di calunnia nell’ambito di una nota vicenda di omicidio), la quale, con la sentenza del 24 gennaio 2019, Knox c. Italia, ha visto riconosciuta nei suoi confronti, dalla Corte di Strasburgo, la violazione dell’art. 3 CEDU, nel suo aspetto processuale, e dell’art. 6, § 1 e 3, lett. c ed e, CEDU.

Da tali sentenze risultano indicazioni varie: sulla natura del rimedio; sul suo ambito di applicabilità e sulla legittimazione ad azionarlo; sulla procedura da seguire e, anche, sui contenuti effettivi del potere di incisione delle situazioni processuali, alle quali si abbina la violazione accertata dalla Corte europea, attribuito alla Corte di cassazione dall’art. 628-bis cod. pen.

Molto sinteticamente, lo strumento processuale idoneo a consentire di dare attuazione alle statuizioni della Corte EDU è stato ritenuto di natura straordinaria, per la sua collocazione sistematica – successiva alle impugnazioni ordinarie per cassazione, antecedente alla revisione e, come quest’ultima, capace di destabilizzare il giudicato e di rimuoverlo – e per il suo atteggiarsi anche a mezzo di impugnazione peculiare (si pensi alla duttilità degli esiti decisori previsti, non specificati, ma descritti mediante il riferimento funzionale al fatto che essi debbano essere funzionali ad eliminare gli effetti pregiudizievoli derivati dall’accertata violazione dei diritti della Convenzione).

Sulla natura straordinaria del rimedio concordano entrambe le sentenze capofila dell’interpretazione giurisprudenziale ed il Collegio intende ribadire tale indicazione, peraltro in linea con la dottrina espressasi sul punto.

Il giudice funzionalmente competente è stato individuato dal legislatore nella Corte di cassazione; e ciò risponde alla necessità, sicuramente giustificata, di garantire più possibile il sedimentarsi di una giurisprudenza coesa, per assicurare omogeneità alle decisioni, in piena adesione alla vocazione nomofilattica della Corte.

Sotto un profilo procedurale, la richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni, di cui all’art. 628-bis cod. proc. pen., può essere presentata dall’interessato o da un suo procuratore speciale (sul tema v. infra § 3.1.).

I soggetti legittimati sono, seguendo il testo normativo, il condannato e la persona sottoposta a misura di sicurezza.

La locuzione utilizzata dal legislatore ha fatto sì che la richiamata sentenza Sez. 5, n. 39801 del 2023 escludesse dal novero dei legittimati coloro i quali avessero riportato un accertamento di violazione di un diritto tutelato dalla Convenzione nell’ambito di un procedimento di sorveglianza.

Rifacendosi alle affermazioni delle Sezioni Unite Nunziata (Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016, Nunziata, Rv. 269789), la sentenza appena citata ha evocato il concetto di “stabilizzazione del giudicato”, quale criterio-discrimine per valutare se una decisione determina o meno l’irrimediabilità del pregiudizio.

Le Sezioni Unite, infatti, sebbene rispetto a un altro mezzo dì impugnazione straordinaria – il ricorso di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. – avevano concluso che esso può essere proposto dal condannato anche per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione dichiara inammissibile o rigetta il ricorso contro la decisione della Corte d’appello che, a sua volta, abbia dichiarato inammissibile ovvero rigettato la richiesta di revisione dello stesso condannato: la nozione di “condannato” cui si riferisce la disposizione, infatti, ricomprende anche il soggetto titolare della facoltà di chiedere la revisione della condanna, in quanto il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità della richiesta contribuisce alla “stabilizzazione” del giudicato.

Allo stesso modo, la sentenza Nunziata ha ragionato anche per estendere l’applicabilità del rimedio ex art. 625-bis cod. pen. alle ordinanze del giudice dell’esecuzione, quando tali decisioni, intervenendo a stabilizzare il giudicato, determinano l’irrimediabilità del pregiudizio derivante dall’errore di fatto.

A titolo esemplificativo, le Sezioni Unite si sono riferite: a) alla decisione che abbia ad oggetto le procedure di cui agli artt. 671 e 673 cod. proc. pen.; b) alla decisione sul ricorso avverso l’ordinanza negativa del giudice dell’esecuzione chiamato a decidere, ex art. 670 cod. proc. pen, una questione riguardante la validità della notifica della sentenza di condanna di merito; c) alla decisione sull’ordinanza che respinga una richiesta di restituzione nel termine per impugnare una sentenza di condanna.

Come è evidente, si tratta di ipotesi problematiche, alle quali la giurisprudenza antesignana delle Sezioni semplici della Corte ha, in parte, esteso il rimedio dell’art. 670 cod. proc. pen. per corrispondere all’esigenza di assicurare tutela all’accertamento di una violazione da parte dei giudici Strasburgo.

Su tali basi, la citata sentenza n. 39801 del 2023 ha, dunque, affermato che i provvedimenti di sorveglianza, non destinati neppure a formare “giudicato”, perché sempre adottati “rebus sic stantibus” e ad istanza riproponibile, non sono suscettibili di essere impugnati ai sensi dall’art. 628-bis cod. pen.

Sotto un profilo più propriamente procedurale, va invece evidenziato che la Corte di cassazione, accertata l’effettiva incidenza della violazione convenzionale sul provvedimento censurato, può disporre la riapertura del processo nei casi e nei modi indicati dall’art. 628-bis, comma 5, cod. proc. pen., anche nell’ipotesi in cui la Corte EDU abbia già riconosciuto all’interessato un equo indennizzo, ovvero non abbia indicato detta riapertura quale rimedio alle violazioni accertate.

In caso di accoglimento della richiesta di cui all’art. 628-bis cod. proc. pen., qualora sia necessario revocare una sentenza della Corte di cassazione, vi provvede la stessa Corte, che, ove siano necessarie verifiche di merito, al fine di valutare la tenuta della decisione interna alla luce delle accertate violazioni convenzionali, provvederà ad annullare con rinvio il provvedimento del giudice di merito.

Al giudice di merito è preclusa, nel nuovo giudizio di rinvio, la rivalutazione della natura, della gravità e dell’effettiva incidenza della violazione, che è riservata all’esclusiva valutazione della Corte di cassazione.

Quanto agli esiti del giudizio valutativo spettante alla Corte di cassazione, e dunque al cuore della nuova disciplina, raccoglimento della richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni – quali che siano i provvedimenti che la Cassazione intende adottare per corrispondere all’esigenza di dare attuazione alla sentenza della Corte europea – presuppone, ai sensi dell’art. 628-bis, comma 5, cod. proc. pen., che la violazione convenzionale abbia avuto effettiva incidenza, per natura e gravità, sul provvedimento pronunciato nei confronti del richiedente, tale per cui, se quella violazione non vi fosse stata, l’esito del procedimento sarebbe stato ragionevolmente diverso (cfr. Sez. 5, n. 47183 del 12/10/2023, cit.).

3. Svolte le necessarie premesse di inquadramento sistematico, può essere analizzata la richiesta di eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti dall’accertata violazione degli artt. 8 e 13 CEDU proposta al Collegio.

Anzitutto, va compreso il contenuto della decisione della Corte EDU emessa il 17 ottobre 2024 nel caso in esame.

Tale sentenza ha fatto richiamo alla giurisprudenza consolidata di Strasburgo per rilevare l’esistenza di una violazione degli artt. 8 e 13 CEDU subita dal richiedente, riconosciuta dallo Stato italiano, in conseguenza dell’essergli stato negato il diritto a vedersi inoltrata la corrispondenza del suo difensore, relativa ad atti giudiziari che lo riguardavano.

Nessun altro profilo di accertamento vincolante deriva dal testo della decisione con cui la Corte europea ha statuito la cancellazione dal ruolo della causa, ai sensi dell’art. 37 (c) CEDU, in disparte il riconoscimento del diritto all’adeguato indennizzo, indicato dallo Stato italiano nella dichiarazione unilaterale in modo giudicato congruo dalla Corte di Strasburgo.

La Corte non si è pronunciata, invero, sulla sussistenza di una violazione del diritto ad un equo processo e alla difesa, derivata dalla violazione dei due diritti già richiamati.

3.1. Alla luce dei contenuti della decisione presupposto dell’istanza, possono ora esaminarsi le ragioni difensive.

Ancora in via preliminare, tuttavia, per il necessario vaglio di ammissibilità formale, deve riaffermarsi il principio secondo cui la richiesta di cui all’art. 628-bis cod. proc. pen. può essere presentata dall’interessato o da un suo procuratore speciale (cfr. Sez. 5, n. 47183 del 2023, cit., Rv. 285398-02).

La formulazione della disposizione sul punto è stata giudicata non molto chiara (cfr. la citata sentenza n. 47183 del 2023).

Il significato prescelto dalle prime applicazioni giurisprudenziali e oggi ribadito è quello che garantisce maggiormente un accesso razionale ad un rimedio straordinario, che rappresenta, al tempo stesso, un fondamentale baluardo della declinazione concreta dei diritti convenzionali.

Si legge, infatti, nella disposizione di cui al comma 2 dell’art. 628-bis del codice di rito che la richiesta «è presentata personalmente dall’interessato o, in caso di morte, da un suo congiunto, a mezzo di difensore munito di procura speciale», con espressione da intendersi quale indicazione di possibile presentazione in alternativa da parte dell’interessato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale.

Nel caso in esame, la richiesta è stata validamente proposta dal difensore e procuratore speciale del richiedente, sicché è ammissibile.

3.2. È necessario, a questo punto, esaminare il caso sottoposto al Collegio, che presenta aspetti e questioni differenti rispetto alle fattispecie al centro delle prime sentenze interpretative della Corte di cassazione, già analizzate al par. 2.2.

Sebbene in generale valga, infatti, il criterio già enunciato da Sez. 5, n. 47183 del 2023, secondo cui l’accoglimento della richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni presuppone, ai sensi dell’art. 628-bis, comma 5, cod. proc. pen., che la violazione convenzionale abbia avuto effettiva incidenza, per natura e gravità, sul provvedimento pronunciato nei confronti del richiedente, tale per cui, se quella violazione non vi fosse stata, l’esito del procedimento sarebbe stato ragionevolmente diverso, nel caso oggi all’esame del Collegio vengono in rilievo due ulteriori questioni.

Prima ancora di soffermarsi su di esse, si impone, però, un’osservazione: per le violazioni processuali accertate dalla Corte europea può essere non sempre facile identificare concretamente il dato della necessaria «incidenza» del vizio sul contenuto della sentenza emessa.

Tuttavia, le violazioni del diritto di difesa nelle sue varie possibili manifestazioni (quali soprattutto il diritto a partecipare al giudizio; il diritto ai modi ed ai tempi corretti per preparare la propria difesa, che viene in rilievo nel caso sottoposto all’esame del Collegio; il diritto alla parità di armi tra le parti) costituiscono l’esempio più autoevidente di possibile incidenza di una violazione processuale accertata dalla Corte EDU sulla sentenza di condanna, ai fini della possibilità di ricorrere al rimedio ex art. 628-bis cod. proc. pen.

Quanto alle due questioni che rappresentano la cifra specifica della fattispecie in esame, esse possono essere sintetizzate come segue.

a) Anzitutto, va stabilito se sia possibile conferire valore, ai fini dell’attivazione del rimedio ex art. 628-bis cod. proc. pen., all’incidenza sull’esito del procedimento non già (come nelle sentenze di questa sezione in precedenza richiamate) delle violazioni direttamente accertate dalla Corte EDU – il diritto alla vita privata (art. 8 CEDU) e il diritto ad un ricorso effettivo (art. 13) -, bensì dell’asserita violazione di un altro, diverso diritto della Convenzione (il diritto ad un processo equo/diritto alla difesa, previsto dall’art. 6 CEDU), con cui quelle violazioni accertate si pongono in rapporto di strumentalità, secondo la prospettazione della richiesta.

Tale rapporto, tuttavia, nel caso sottoposto al Collegio, non è stato esplicitato nella sentenza ex art. 37 CEDU, che costituisce il presupposto dell’istanza ex art. 628-bis cod. proc. pen., e, in verità, neppure è stata evocata in alcun modo, dai giudici europei, la lesione di diritti collegati all’art. 6 CEDU.

In caso si opti per l’applicabilità del rimedio straordinario alle ipotesi di accertamento di violazioni di diritti strumentali all’attuazione di quello che si lamenta inciso, andranno valutati, in concreto, i presupposti normativamente richiesti della loro effettiva incidenza su di esso, per natura e gravità.

Il che equivale a dire che deve essere chiarito se, tra gli “effetti pregiudizievoli” derivanti dalla violazione accertata dalla Corte EDU, possano rientrare anche quelli conseguenti alla lesione di un diritto diverso e collegato a quelli violati, inciso dalla violazione di questi ultimi.

b) In secondo luogo, andrà verificato se vi sia stata incidenza indiretta, ancora una volta, delle violazioni accertate sulla determinazione del trattamento sanzionatorio, e cioè se queste abbiano causato un deficit all’esercizio ottimale del diritto di difesa, che, in conseguenza di ciò, sia stato compromesso.

In particolare, viene in rilievo l’effetto delle violazioni degli artt. 8 e 13 CEDU sulla lamentata, mancata riduzione di pena per il rito abbreviato, che nella prospettazione difensiva viene collegata al non aver avuto l’istante la possibilità di decidere compiutamente di chiedere tempestivamente il rito premiale, in ragione del deficit di informazione sul procedimento derivato dalla mancata trasmissione del plico difensivo illegittimamente trattenuto dall’amministrazione penitenziaria.

3.3. Ebbene, l’ampiezza del disposto normativo con cui è stato costruito il nuovo rimedio straordinario in esame e la necessità di offrirne una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata, che conferisca la massima espansione alla tutela dei diritti, la violazione dei quali sia stata accertata dalla Corte di Strasburgo, impongono di ritenere possibile, in linea astratta, che lo strumento previsto dall’art. 628-bis cod. proc. pen. si applichi anche nel caso in cui l’accertata violazione abbia evidenti ricadute su altri, differenti diritti collegati, derivandone “effetti pregiudizievoli” di questi.

Ovviamente, come si è già messo in risalto, deve trattarsi di violazioni il verificarsi delle quali abbia natura tale da plasmare in negativo il volto del principio, diverso, che si ritiene violato e che viene, quindi, azionato.

Il diritto ad un equo processo e quello ad un esercizio effettivo e pieno del diritto di difesa sono sicuramente influenzati dalle modalità di esplicazione dell’esercizio di diritti funzionali ad essi, come può ipotizzarsi che sia stato, nell’ipotesi in esame, per il diritto all’esercizio di facoltà connesse alla vita privata e per il diritto ad un ricorso effettivo.

La Corte costituzionale ha stabilito in modo netto il nesso di strumentalità inscindibile tra il diritto alla libertà e segretezza delle comunicazioni del detenuto e il diritto di difesa, nella sentenza n. 18 del 2022, sebbene in materia diversa da quella entro cui si muove la richiesta sottoposta al Collegio, che verte in tema di trattenimento di corrispondenza disposto interpretando l’art. 18-ter ord. pen. secondo canoni ritenuti, poi, alla fine della vicenda, illegittimi dai magistrati di sorveglianza.

Con la citata sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 24 Cost., l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

La misura si è ritenuto che limitasse vistosamente il diritto di difesa, rivelandosi anche inidonea a impedire che il detenuto o l’internato possano continuare a intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza; inoltre, essa è apparsa anche eccessiva rispetto allo scopo perseguito, in quanto sottoponeva a controllo preventivo tutte le comunicazioni del detenuto con il difensore, in assenza di qualsiasi elemento concreto che consentisse di ipotizzare condotte illecite di quest’ultimo, finendo per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso.

Nel giungere a tali affermazioni, la Corte costituzionale ha evidenziato come la garanzia costituzionale del diritto di difesa – qualificato come «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale (sentenze n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982) – comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore (sentenza n. 216 del 1996), «allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti» (sentenza n. 212 del 1997 Corte cost.); la Corte ha, altresì, evidenziato come tale diritto «assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l’esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio delle facoltà difensive» (sentenza n. 143 del 2013 Corte cost.).

Tali principi trovano precise corrispondenze nel diritto internazionale dei diritti umani, con particolare riguardo al contesto europeo (raccomandazione R (2006) 2 del Consiglio d’Europa sulle “Regole penitenziarie europee”, adottata dal Comitato dei Ministri l’11 gennaio 2006).

Secondo la Corte EDU (cfr. sentenze 25 marzo 1992, Campbell contro Regno unito, e 24 maggio 2018, Laurent contro Francia), l’esercizio del diritto alla riservatezza delle proprie comunicazioni, tutelato dall’art. 8 CEDU, è funzionale ad esercitare il diritto alla difesa tecnica sancito dall’art. 6, paragrafo 3, lettera c), CEDU in capo ad ogni persona accusata di un reato, diritto il cui esercizio implica la possibilità di comunicare liberamente con il proprio avvocato (Corte EDU, 20 giugno 1988, Schonenberger e Durmaz contro Svizzera; Corte EDU, 21 febbraio 1975, Golder contro Regno Unito, paragrafo 45; per i detenuti, cfr. Corte EDU 28 novembre 1991, S. contro Svizzera e, più di recente, Corte EDU, 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia, nonché Corte EDU, GC, 12 maggio 2005, Ocalan contro Turchia, paragrafi 133 e 135).

Pertanto, secondo la Corte costituzionale, ancorché il diritto del detenuto ad avere (colloqui e) comunicazioni, ivi compresa la forma della corrispondenza, con il proprio difensore non sia assoluto, ma soggetto a possibili bilanciamenti con altri interessi costituzionalmente garantiti, entro i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, in ogni caso, la condizione essenziale di tali limiti è che da essi non risulti compromessa l’effettività del diritto alla difesa.

Nel nostro sistema processuale penale costituzionalmente orientato, il diritto di difesa vive e si nutre anche della garanzia di rendere possibili rapporti effettivi tra l’assistito detenuto e il suo difensore.

Lo Stato italiano si è mosso sulla scia della pronuncia della Corte costituzionale n. 18 del 2022 quando ha dato vita alla dichiarazione unilaterale di riconoscimento della violazione degli artt. 8 e 13 nel procedimento instaurato a Strasburgo dall’istante, cui era stato impedito per un significativo periodo di tempo di prendere visione del plico di corrispondenza legale a lui indirizzato dal suo avvocato, mediante un provvedimento di trattenimento della corrispondenza risultato poi ingiustificato (e, peraltro, generato da un banale disguido formale: l’assenza dell’indicazione del numero del procedimento penale cui si riferivano gli atti trasmessi nel plico, che avrebbe giustificato al più un provvedimento di visto di censura al fine della verifica dei suoi contenuti, come sottolineato dal Tribunale di sorveglianza di Bologna e dal Tribunale di Messina nei provvedimenti che, infine, hanno sbloccato l’inoltro della corrispondenza).

Può concludersi, pertanto, che le violazioni strumentali al diritto di difesa accertate dalla Corte EDU – nella peculiare fattispecie all’esame del Collegio riferita alla mancata consegna, in virtù di un provvedimento di trattenimento di corrispondenza, della documentazione relativa alla misura cautelare emessa nei confronti del richiedente, all’epoca detenuto – possono, in astratto, essere poste alla base di una richiesta ex art. 628-bis cod. proc. pen., quando il loro collegamento funzionale e le loro ricadute, per natura e gravità, abbiano avuto un evidente effetto pregiudizievole sulle prerogative difensive nel processo nell’ambito del quale si sono manifestate e un’incidenza effettiva, ancorché indiretta o mediata, sulla sentenza di condanna.

3.4. Ammessa la possibilità in linea teorica di agire ex art. 628-bis cod. proc. pen. in ipotesi di rapporto funzionale tra diritto la cui violazione sia stata accertata dalla Corte EDU e diritto di cui si invoca la violazione ai fini del rimedio, nel caso all’esame del Collegio non si rivelano concrete ricadute sul diritto di difesa del ricorrente – derivate dalla violazione del diritto alla vita privata declinato nelle forme della tutela del diritto dell’imputato detenuto a ricevere corrispondenza dal proprio difensore, o dalla violazione del suo diritto a ricevere rimedio effettivo dall’illegittimo trattenimento di tale corrispondenza – tali da incidere effettivamente sul provvedimento pronunciato, per natura e gravità, e tali da far ritenere che, se quelle violazioni non vi fossero state, l’esito del procedimento sarebbe stato ragionevolmente diverso.

La richiesta rivela iati contenutistici che incidono sull’esito dell’istanza, che rimane superficialmente costruita mediante il richiamo generico alla circostanza di non aver ricevuto, l’istante, atti relativi alla fase cautelare del procedimento e a tale mancata ricezione connette – con un salto logico inspiegato e non colmabile dal Collegio – la lesione del proprio diritto di difesa, evocando l’impossibilità di indicare con compiutezza i propri testimoni, per avere ricevuto detti atti dopo il decorso del termine per la presentazione della lista testimoniale.

Emergono plurimi deficit di specificità della richiesta di “eliminazione degli effetti pregiudizievoli”, che non spiega come abbia influito la mancata consegna del plico sul diritto di informazione in generale del detenuto in ordine al suo procedimento, attivabile in altre forme di collegamento con il suo difensore o mediante richiesta diretta al giudice o al pubblico ministero.

Non è rappresentato, infatti, se il richiedente, il quale non lamenta ostacoli ulteriori al proprio diritto di incontrare o tenere colloqui o corrispondenza con il proprio difensore di fiducia, rispetto a quelli al centro della sua denuncia dinanzi alla Corte EDU, non abbia ricevuto notizie diverse e più precise del procedimento a suo carico, di cui gli atti della fase cautelare rappresentano una documentazione embrionale e superata dagli adempimenti processuali prodromici all’udienza preliminare, primo tra tutti l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Ed è del tutto evidente che l’istante, nel nostro sistema ordinamentale e processuale, non è plausibile che sia rimasto per oltre un anno all’oscuro dei dettagli del procedimento cui si riferivano gli atti oggetto del provvedimento di trattenimento di corrispondenza.

Né è plausibile che non abbia avuto modo, in tale ampio lasso temporale, di approntare la sua difesa tecnica al meglio, con riguardo al tema dedotto della scelta dei testimoni difensivi.

Senza contare che di tali testimoni nulla viene evidenziato – né i nominativi possibili e i soggetti pretermessi, né i contenuti delle loro eventuali deposizioni -al fine di consentire il vaglio di effettiva incidenza in concreto sulla decisione di condanna delle violazioni accertate dalla Corte europea e della loro natura e gravità, che, per giunta, nel caso di specie, hanno anche una valenza mediata sul processo in cui vengono azionate, agendo come leve strumentali della violazione del diritto di difesa lamentata dall’istante, ma non al centro del diretto accertamento da parte dei giudici di Strasburgo.

A maggior ragione, in caso di istanze ex art. 628-bis cod. proc. pen. costruite, come nel caso di specie, partendo da una violazione accertata collegata in via strumentale a quella che si aziona effettivamente, è necessario che, sia a fini di ammissibilità, sia per fondare l’eventuale accoglimento dell’istanza, il richiedente prospetti adeguatamente l’incidenza effettiva, per natura e gravità, della violazione accertata sugli esiti del procedimento e sulla decisione di condanna.

Nella richiesta oggi in esame, tale “adeguata prospettazione” manca né è possibile trarla automaticamente o direttamente da parte della Corte di cassazione, operazione pure consentita qualora si sia in presenza di evidenti ricadute pregiudizievoli per il condannato della violazione accertata, sia essa diretta o solo mediata e strumentale alla violazione del diritto di difesa.

Si tratta di fissare, dunque, in capo al richiedente ex art. 628-bis cod. proc. pen., oneri di specificità della costruzione dell’istanza che sono funzionali alla stessa indagine affidata dal legislatore alla Corte di cassazione sulla natura e gravità della violazione accertata dalla Corte EDU rispetto agli “effetti pregiudizievoli” lamentati, avuto riguardo agli esiti del procedimento e ai contenuti della sentenza di condanna divenuta definitiva.

La stessa sentenza con cui la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso di G.G. – Sez. 1, n. 39090 del 15 marzo 2022 – ha dichiarato, del resto, infondata un’analoga censura formulata già in quella sede, motivando in senso sostanzialmente corrispondente a quanto sin qui esposto.

La Prima Sezione penale, invero, ha chiarito che nessun vizio del procedimento può essere derivato da un trattenimento del plico inviato al G.G. dalla difesa e contenente atti processuali relativi alla fase cautelare, in vista dell’udienza preliminare, in ragione del fatto che esisteva una modalità alternativa di consegna di tali atti – tramite colloquio diretto – che il difensore avrebbe potuto e dovuto attivare, aspetto sulla cui impossibilità di realizzazione nessuna allegazione è stata introdotta (v. pag. 72, della citata sentenza n. 39090 del 2022, che richiama il punto 4.4.4. della parte narrativa).

Anche l’eccezione difensiva che è stata svolta nel corso dell’udienza preliminare, identica a quella oggi in esame ai fini della richiesta ex art. 628-bis cod. proc. pen., è stata rappresentata, sia allora (come risulta dal verbale prodotto) che dinanzi al Collegio, in modo approssimativo, solo “enunciativo”, senza riferimenti concreti alle lesioni derivate al diritto di difesa dalla ritardata ricezione degli atti della fase cautelare; ed invece, proprio in sede di udienza preliminare, il richiedente poteva sviluppare istanza di termini a difesa per eventualmente sopperire a bisogni di maggiore informazione dell’accusa a lui rivolta e degli atti sui quali essa si fondava, concordando la linea difensiva con l’avvocato difensore, necessariamente presente.

3.5. Sotto il diverso profilo dell’incidenza delle violazioni accertate – artt. 8 e 13 CEDU – sul diritto dell’imputato di accedere tempestivamente agli atti del proprio procedimento cautelare, per valutare congruamente la possibilità di chiedere di definire il giudizio nei suoi confronti attraverso il rito abbreviato, deve concludersi, per le stesse ragioni già evidenziate al §3.4., che non sono stati rappresentati effetti pregiudizievoli di tale natura e gravità, derivati da dette violazioni, idonei ad aver determinato il suo mancato accesso al rito premiale.

Il risultato della verifica non cambia se dette violazioni vengono viste nel prisma della loro strumentalità con il diritto ad una tempestiva difesa.

Ancora una volta, infatti, deve sottolinearsi come non sia stata rappresentata la mancata conoscenza aliunde degli atti del procedimento, conoscenza invece del tutto presumibile, in ragione della sequenza obbligata di atti che precedono l’udienza preliminare, momento in cui si cristallizza il termine per proporre richiesta di rito abbreviato e che rappresenta essa stessa il luogo in cui l’imputato, tramite il suo difensore, può far valere le proprie esigenze difensive anche chiedendo termini proprio per valutare le sue prospettive di risoluzione del processo diverse dall’esito del rinvio a giudizio ordinario.

Di conseguenza, non è possibile per il Collegio agire, come pure ha fatto la Terza Sezione penale nella sentenza Sez. 3, n. 20026 del 8 marzo 2024, non mass., citata dalla difesa, dando spazio alla richiesta di rideterminazione della pena e concedendo la diminuente per il rito illegittimamente negata, quale diretta derivazione dall’accertata violazione di un diritto convenzionale da parte della Corte EDU. Nella fattispecie decisa dalla Terza Sezione, la violazione accertata era proprio quella dell’art. 6 CEDU, sotto il profilo della mancata conoscenza del processo dell’imputato, restituito nel termine per proporre appello ma non ammesso a formulare istanza di riti alternativi.

Nel caso oggi sottoposto al Collegio non si verte di una violazione accertata del diritto del condannato alla difesa sotto il profilo della mancata possibilità di richiedere il rito abbreviato. Viene, invece, in rilievo una violazione del diritto a ricevere la corrispondenza dal proprio difensore (e del conseguente rimedio effettivo contro i provvedimenti che hanno siglato la mancata consegna) che non è dato comprendere – ancora una volta per le ragioni di genericità già illustrate – come abbia influito sul diritto di difesa e sulla “non scelta” dell’allora imputato per il rito premiale di cui oggi ci si lamenta, invocando la rideterminazione della sanzione in chiave più favorevole.

E del resto la richiesta di accedere alla rimodulazione della pena per il rito abbreviato viene formulata in modo estemporaneo oggi per la prima volta, in sede di richiesta ex art. 628-bis cod. proc. pen., senza che nel ricorso proposto nel giudizio principale sia stata mai sollevata una simile eccezione collegata alla pur dedotta mancata ricezione del plico difensivo da parte del condannato.

L’unico profilo di critica all’epoca sollevato dalla difesa, in relazione all’illegittimo trattenimento di quella corrispondenza, fu, genericamente, la sua incidenza sul procedimento, senza che fosse evocato l’accesso al rito premiale.

Ecco, dunque, come anche da tale indicatore si rivela la pretestuosità dell’istanza oggi proposta.

4. Alla luce di tutto quanto sin qui esposto, pertanto, la richiesta ex art. 628-bis di G.G. deve essere rigettata ed al rigetto segue la condanna dell’istante al pagamento delle spese processuali.

Cass. pen., V, ud. dep. 03.09.2025, n. 30182

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