Il ricorso va dichiarato inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato, oltre che generico per omesso confronto con la motivazione della sentenza impugnata, la quale ha posto in rilievo come la verifica delle fonti da parte dell’imputato non sia stata adeguata per ritenere che possa operare la scriminante invocata. Infatti, la Corte di appello, nell’individuare la cifra dell’onere di verifica delle fonti dalle quali è stata tratta, in concreto, la notizia diffamatoria, ha considerato come detta verifica presupponesse un adeguato confronto con la motivazione delle sentenze citate nei post pubblicati, il contenuto delle quali non poteva sfuggire al ricorrente, laureato in giurisprudenza, e lettore abituale di sentenze penali.
Invero, dalla lettura delle predette fonti – ha evidenziato la Corte di appello, ma lo aveva già sottolineato il primo giudice, – emergeva che l’assoluzione nei confronti di un terzo soggetto che, come l’odierno imputato, aveva indicato la
p.o. come dedita alle droghe, non era intervenuta per l’insussistenza del fatto diffamatorio – ciò che avrebbe potuto legittimare le frasi incriminate per la verità della notizia – quanto, piuttosto, per i dubbi sulla riconducibilità al predetto della condotta diffamatoria o quanto alla prova, non certa e univoca, in merito alla consapevolezza di comunicare con più persone, nella diffusione delle frasi diffamatorie.
La Corte di appello ha, dunque, correttamente valutato come insufficientemente assolto dal ricorrente, nel caso di specie, l’onere di verifica delle fonti dalle quali ha tratto la notizia diffamatoria, e parimenti corretta è l’osservazione conclusiva sul punto del Giudice a quo, che ha stigmatizzato come, nell’insistere nella tesi della veridicità dei giudizi espressi sul web, l’imputato ha mancato di citare la fonte dalla quale avrebbe appreso le notiziediffamatorie ingiustificatamente diffuse, né ha saputo indicare le circostanze che gli avrebbero creato il legittimo convincimento della veridicità delle informazioni diffamatorie riportate in danno della parte civile, così da potersi ritenere integrata la c.d. scriminante putativa di cui all’art. 51 cod. pen.. , per la quale, sussistendo i limiti inerenti a tale scriminante (diritto di critica), si richiede, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorché erroneamente) convinto di quanto afferma.
1.1. Invero, come è noto, il diritto di critica – esercitabile a prescindere dall’essere un giornalista – rappresentando l’esternazione di un’opinione relativamente a una condotta ovvero a un’affermazione altrui, si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Carta costituzionale e dall’art. 10 della Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminate, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., rispetto al reato di diffamazione, purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. Si vuole dire che, benchè la nozione di “critica” rimandi non. solo all’area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore, detti limiti sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 2 Cost., onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né
trasmodare nell’invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico (Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866).
La denunciata contraddittorietà della motivazione non trova riscontro nella lettura della sentenza, con conseguente infondatezza del primo motivo di ricorso.
2. E’ parimenti infondato il secondo motivo.
In tema di diffamazione tramite “internet”, ai fini della individuazione del “dies a quo” rilevante per la tempestività della querela, occorre considerare che la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano immesse sul “web”, nel momento in cui il collegamento sia attivato, di guisa che l’interessato, normalmente, ha notizia della immissione in internet del messaggio offensivo o accedendo direttamente in rete o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne siano venuti a conoscenza. Ne deriva se non la assoluta contestualità tra immissione in rete e cognizione del diffamato, almeno una prossimità temporale di essi, sempre che l’interessato non dia dimostrazione del contrario. (Sez. 5, n. 23624 del 27/04/2012, Rv. 252964; Sez. 5, n. 38099 del 29/05/201, Rv. 264999 Sez. 5, n. 22787 del 30/04/2021, Rv. 281261).
2.2 Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha dato atto che la persona offesa non ha preso diretta cognizione dei post diffamatori, essendone stata informata da alcuni assessori, che come lui frequentavano, in ragione degli incarichi ricoperti, la sede del Comune di Genova, presso il quale svolgeva la sua attività di manager alla cultura. In tal modo, la persona offesa ha adeguatamente assolto al proprio onere probatorio, fornendo congrua dimostrazione della acquisita conoscenza degli atti diffamatori in un’epoca successiva alla loro pubblicazione e, di conseguenza, della tempestività della proposta querela.
3. Manifestamente infondato risulta anche il terzo motivo, c,he omette il dovuto confronto con gli argomenti con i quali la Corte di appello ha fornito adeguata motivazione del diniego delle attenuanti generiche, evidenziando tra l’altro che l’imputato è gravato da ben due precedenti penali specifici per diffamazione e calunnia e da un precedente per atti persecutori.
4. Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge ( art. 616 cod.proc.pen.), la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo fissare in euro tremila.
Cass. pen., V, ud. dep. 05.08.2025, n. 28621