1. Il ricorso è fondato, limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
2. Il primo motivo muove da un equivoco e, complessivamente, deduce una ragione di ricorso che non ha basi solide.
La sentenza impugnata ha evocato genericamente l’appello dell’imputato, con un riferimento lessicale prodromico alla trattazione dei motivi, idoneo a comprendere sia l’atto di impugnazione personale proposto, che l’atto di appello del difensore del ricorrente, di cui la difesa lamenta la totale non considerazione.
Ebbene, dal testo del provvedimento impugnato non può desumersi con certezza che la motivazione della Corte di appello sia stata costruita senza il confronto con l’atto di appello proveniente dal difensore, data la sovrapponibilità sostanziale dei motivi che entrambe le impugnazioni dedicano a contestare la configurabilità del reato di diffamazione aggravata.
I giudici di secondo grado si sono dilungati sulla sussistenza degli elementi del reato di diffamazione, che è stato ben delineato con riguardo al tenore offensivo della reputazione delle espressioni pubblicate sul profilo “P.F.” del social network facebook ed alla loro non corrispondenza al vero, nonché con riferimento alla diffusività del mezzo usato per propagare le parole denigratorie, tanto che esse sono state riprese da testate giornalistiche online.
In tal modo si è fornita risposta sia all’appello dell’imputato, sia a quello del suo difensore, che, nel proprio atto di impugnazione, aveva proposto la questione, manifestamente infondata alla luce delle evidenze di prova emerse, della capacità di un piccolo “blog” di diffondere la notizia.
Puntuale risulta, poi, ancorchè sintetica, la quota di motivazione dedicata dalla Corte territoriale a far comprendere come, nel caso di specie, difettino i presupposti per qualsiasi ipotizzabilità della scriminante del diritto di critica o del diritto di cronaca.
La Corte di merito, dunque, ha tenuto conto anche, per quel che è dato evincere, dell’appello della difesa dell’imputato, sicchè il primo motivo di ricorso, con cui si eccepisce la pretermissione dell’esame dell’intero atto di impugnazione, è infondato.
3. Appare fondato, invece, il secondo motivo di ricorso, che, in qualche modo, completa la censura genericamente formulata nel primo motivo e dedicata a contestare un difetto di esame dell’atto di appello del difensore in quanto tale.
Ed infatti, non vi è dubbio che l’atto di impugnazione a firma dell’avvocato difensore contemplasse anche una ragione di critica molto ampia, con cui si rappresentava l’illogicità della scelta sanzionatoria del Tribunale, che ha optato per una pena detentiva da infliggere al ricorrente, piuttosto che, come possibile in virtù dell’alternatività dell’editto di cui all’art. 595 cod. pen., per una pena soltanto pecuniaria.
A tale secondo motivo di appello la Corte territoriale non ha risposto affatto, nonostante la specificità degli argomenti difensivi con i quali si contestava la scelta della pena detentiva, alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide e che vanno in senso opposto.
Questa Sezione ha ritenuto che il ricorso alla pena detentiva come risposta sanzionatoria al delitto di diffamazione, a mezzo stampa o non, sia consentito soltanto ove ricorrano circostanze eccezionali (Sez. 5, n. 13993 del 17/02/ 2021, Scaffidi, Rv. 281024 – 01).
Secondo un’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata della norma, invero, l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il delitto di diffamazione commesso, anche al di fuori di attività giornalistica, mediante mezzi comunicativi di rapida e duratura amplificazione (nella specie via “internet”), deve essere connessa alla grave lesione di diritti fondamentali, come nel caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
Ove non sia motivata la situazione eccezionale connessa alla grave lesione dei diritti fondamentali che l’ordinamento pone in bilanciamento con il diritto alla libera manifestazione del pensiero ex art. 21 Costituzione, la determinazione della pena come detentiva non è costituzionalmente giustificata, secondo un’ispirazione ermeneutica che proviene dalle affermazioni anche della giurisprudenza del giudice delle leggi (cfr. ord. n. 131 del 2020 e sent. n. 150 del 2021 Corte cost.) ed è stata traslata dalla giurisprudenza di legittimità dalla diffamazione a mezzo stampa sino a qualsiasi forma di diffamazione.
Il reato di cui all’art. 595 cod. pen., infatti, è, tout court, al centro di un delicato e difficile equilibrio tra il diritto alla reputazione personale e il fondamentale diritto alla libertà di manifestazione del pensiero.
E’ vero che la giurisprudenza della Corte EDU, cui si richiamano le pronunce della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, è stata elaborata con precipuo riferimento alla proporzione della pena detentiva nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica giornalistica, per l’effetto dissuasivo (c.d. chilling effect) che può determinare sulla libertà di espressione della stampa in generale, considerato il “watch -dog” della democrazia.
Tuttavia, la giurisprudenza europea ha attribuito sistematicamente rilievo anche al rischio di effetto dissuasivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero critico anche in relazione all’esercizio del diritto di critica non connesso con la libertà di stampa (cfr., proprio per un caso di critica diretta nei confronti degli organi giudiziari, Corte EDU, GC, Morice c. Francia, del 23 aprile 2015 e Corte EDU, L.P. e Carvalho c. Portogallo, del 8 ottobre 2019), che, sotto il profilo della natura e della severità della sanzione che fa da contrappeso alla condotta di critica diffamatoria, si traduce in un monito a limitare la necessità della pena detentiva ai soli casi eccezionali.
Tali considerazioni valgono anche qualora si sia verificata una rapida e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks, come nella fattispecie in esame e in quella decisa dalla citata sentenza n. 13993 del 2021.
Per tali ragioni, il Collegio ritiene che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, il social network facebook ), anche se non commesso nell’ambito dell’attività prettamente giornalistica, possa essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.
Va rilevato che escludere la pena detentiva – riservandola soltanto ai c.d. discorsi d’odio – soltanto nelle ipotesi di diffamazione commessa nell’esercizio dell’attività giornalistica rischierebbe di generare frizioni con il principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) e con il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 2, Cost.), prevedendo un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva offensività, rispetto a quelli commessi nell’esercizio dell’attività giornalistica.
Pertanto, è fondato il motivo di ricorso riferito alla censura di eccessiva gravosità del trattamento sanzionatorio, con speciale riguardo alla necessità di motivare espressamente e puntualmente l’eccezionale gravità della condotta diffamatoria, sola caratteristica che la Corte costituzionale ritiene capace di fondare la valutazione di meritevolezza della sanzione detentiva per il reato di diffamazione.
La Corte di cassazione ha chiarito anche come sia compito del giudice di merito accertare la ricorrenza dell’eccezionale gravità della condotta diffamatoria attributiva di un fatto determinato – che implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio -, cui soltanto si riconnette la possibilità di applicare una pena detentiva, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata (Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, Carchidi, Rv. 279468) .
4. Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte di Appello di Reggio Calabria, ed il rigetto del ricorso nel resto.
Cass. pen., V, ud. dep. 27.08.2025, n. 29840