1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Bologna confermava la sentenza con cui il tribunale di Bologna, in data 11.2.2022, aveva condannato M.M. alla pena pecuniaria ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, la cui liquidazione veniva rimessa al giudice civile competente, in relazione al reato di cui all’art. 595, co. 3, cod. pen.
All’imputato si contesta, in particolare, di avere usato il proprio profilo “(OMISSIS)”, nel replicare a una missiva che gli era stata inviata in forma privata dalla ex moglie, attribuendole di avere partecipato a una serata a luci rosse, nel corso della quale la stessa avrebbe acquistato oggetti erotici.
2. Avverso la sentenza di primo grado, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, lamentando, violazione di legge e vizio di motivazione in punto di: 1) assenza di carattere diffamatorio nell’attribuzione di particolari costumi sessuali alla persona offesa, che, nell’impostazione accusatoria, vengono ritenuti offensivi sol perché diffusi via social, a prescindere dal contenuto del messaggio inoltrato in rete; 2) mancato riconoscimento della scriminante della provocazione, configurabile perché l’imputato è stato destinatario, nello stesso giorno in cui ha lanciato il suo commento via social, di una lettera offensiva da parte della moglie; 3) mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis, c.p., che erroneamente il giudice di appello ha escluso solo facendo riferimento alla potenzialità diffusiva del messaggio pubblicato via “(OMISSIS)”
3. Con requisitoria scritta del 20.4.2025, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, nella persona della dott.ssa Sabrina Passafiume, chiede che la sentenza impugnata venga annullata, agli effetti penali, senza rinvio, per compiuto decorso del termine massimo di prescrizione del reato; agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente, stante la fondatezza del terzo motivo di impugnazione.
Con conclusioni del 22.4.2025, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia e procuratore speciale della costituita parte civile, avv. M. R. B., chiede la conferma della sentenza di secondo grado e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalla parte civile.
Con memoria di replica pervenuta a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia dell’imputato, avv. Claudio Cenacchi, reiterando le proprie doglianze, chiede, in via principale, l’annullamento senza rinvio della sentenza oggetto di ricorso; in via subordinata, aderisce alle conclusioni del pubblico ministero.
3. In via preliminare va rilevato che, ai sensi di quanto previsto dagli artt. 157,160 e 161, cod. pen., il termine di prescrizione del reato per cui si procede, commesso, come da imputazione, il 3.4.2017, nella sua massima estensione, tenuto conto, cioè, degli atti interruttivi intervenuti, pari a sette anni e sei mesi, e in presenza di cause di sospensione del relativo decorso per un periodo pari a 126 giorni, risulta sicuramente perento alla data del 6.2.2025.
Si è pertanto verificata, successivamente alla pronuncia della sentenza di appello, intervenuta il 13.11.2024, una causa di estinzione del reato, che compete al Collegio rilevare, non potendosi considerare inammissibile il ricorso presentato dall’imputato, in quanto incentrato su questioni di diritto non manifestamente infondate, né apparendo generici o esclusivamente versati in fatto i motivi di impugnazione.
Come è noto, infatti, il principio della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, sancito dall’art. 129, co. 2, cod. pen., opera anche con riferimento alle cause estintive del reato, quale è la prescrizione, rilevabili nel giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Sez. 3, 01/12/2010, n. 1550, Rv. 249428; Sez. U., 27/02/2002, n. 17179, Rv. 221403; Sez. 2, n. 6338 del 18/12/2014, Rv. 262761). Logico corollario di tale affermazione sulla piena operatività dell’art. 129, cod. proc. pen., è che anche nel giudizio di legittimità sussiste l’obbligo di dichiarare una più favorevole causa di proscioglimento ex art. 129, co. 2, cod. proc. pen., pur ove risulti l’esistenza della causa estintiva della prescrizione, obbligo che, tuttavia, in considerazione dei caratteri tipici del giudizio innanzi la Corte di Cassazione, sussiste nei limiti del controllo del provvedimento impugnato, in relazione alla natura dei vizi denunciati (cfr. Sez. 1, 18/04/2012, n. 35627, Rv. 253458). Il sindacato di legittimità che, pertanto, si richiede alla corte in questo caso deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire a una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte dall’art. 129, co. 2, cod. proc. pen.: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità a esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini e ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129, cod. proc. pen., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo (cfr. Sez. 4, 05/11/2009, n. 43958, F.). In presenza di una causa di estinzione del reato, infatti, la formula di proscioglimento nel merito (art. 129, comma 2, cod. proc. pen.) può essere adottata solo quando dagli atti risulti “evidente” la prova dell’innocenza dell’imputato, sicché la valutazione che in proposito deve essere compiuta appartiene più al concetto di “constatazione” che di “apprezzamento” (cfr. Sez. 2, 11/03/2009, n. 24495, G.), circostanza che non può ritenersi sussistente nel caso in esame, in ragione della complessità della vicenda portata all’attenzione del Collegio e delle articolate doglienze prospettate dall’imputato attraverso il suo difensore.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio, agli effetti penali, per essere il reato per cui si procede estinto per prescrizione.
4. Agli effetti civili, invece, su cui questo giudice deve comunque pronunciarsi, stante la costituzione di parte civile, ai sensi dell’art. 578, co. 1, cod. proc. pen., il ricorso va accolto, essendo fondati i primi due motivi di ricorso, in essi assorbita ogni ulteriore doglianza.
4.1. Invero, fondato appare il primo motivo di ricorso.
La questione giuridica da affrontare attiene al valore da attribuire all’espressione, pacificamente veicolata dall’imputato attraverso il social network “(OMISSIS)”, altrettanto pacificamente rivolta a commentare la condotta della ex moglie, F. C. del seguente tenore: “(OMISSIS)”.
Allo specifico motivo di appello con cui il M.M. aveva eccepito che il riferimento alle abitudini sessuali della moglie non implicasse nessuna offesa all’onore o al decoro della stessa, la corte territoriale aveva replicato, rilevando che le espressioni utilizzate contenessero “un riferimento a pratiche sessuali se non hard della donna ben capaci di denigrarla quale persona dedita a festini a luci rosse e con l’uso di oggetti sessuali e quindi di suggerire, in chi leggesse il post, l’idea di una donna “facile” e disinibita al di là del normale limite” (cfr. p. 2 della sentenza oggetto di ricorso).
Premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di Cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva dell’altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, (cfr. Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, Rv. 278145), la concisa motivazione resa dalla corte territoriale non appare soddisfacente.
Il giudice di secondo grado, invero, ha desunto dalla rivelata partecipazione della C. ad una sola “serata a luci rosse”, nel corso della quale quest’ultima avrebbe acquistato degli oggetti destinati a un uso di carattere sessuale, la circostanza che con il post incriminato l’imputato abbia attribuito alla persona offesa di essere “dedita a festini a luci rosse e con l’uso di oggetti sessuali”, espressione che, alla luce del significato proprio delle parole utilizzate dal giudice di appello, stanno a indicare non una condotta isolata, ma la condotta di una persona che si dedica assiduamente, per scelta personale, a frequentare occasioni di incontro, caratterizzate da finalità erotiche.
Appare, pertanto, evidente l’esistenza di una frattura logica nel percorso argomentativo seguito dal giudice di secondo grado tra la premessa (il contenuto del post, circoscritto alla partecipazione della persona offesa a una sola “serata”) e le conseguenze che ne sono state tratte, in termini di abitualità del comportamento della C., tale da integrare il vizio della manifesta illogicità della motivazione, deducibile ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. e), cod. proc. pen., (cfr. Sez. I, 12.5.1999, n. 9539, Rv. 215132; Sez. 5, n. 19318 del 20/01/2021, Rv. 281105).
Ma vi è di più.
La stessa corte territoriale ha escluso che il M.M. abbia inteso fare riferimento a pratiche sessuali “hard”, vale a dire estreme e aggressive, con la conseguenza che, una volta ricondotta la condotta della C. come resa nota dall’imputato alla partecipazione a una sola serata “a luci rosse”, non si comprende perché il lettore del post ne dovesse ricavare l’idea di una donna “disinibita al di là del normale limite”, anche perché la corte di appello non indica quale sia il limite entro il quale le condotte sessuali di una donna possono considerarsi “normali”, dunque tali da non suscitare riprovazione nel comune sentire, travalicato in ipotesi dalla persona offesa nella rappresentazione fattane dal ricorrente. Sotto questo profilo, dunque, la valutazione sul carattere offensivo di quanto reso noto dal M.M. non tiene sufficientemente conto dell’esatto contesto al quale hanno fatto riferimento le espressioni utilizzate dall’imputato, di cui, invece, occorre sempre tenere conto, in quanto, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, In tema di diffamazione, il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – e non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato.
Nella fattispecie portata al suo esame, come ricordato dalla difesa dell’imputato, la Suprema Corte ha ritenuto che l’utilizzo del termine “(OMISSIS)” in un contesto familiare, da parte di una donna nei confronti del coniuge dopo che la stessa ne aveva scoperto una convivenza “more uxorio”, non esorbiti di per sé dai limiti della critica consentiti, avendo lo stesso una accezione, comune per la lingua italiana, di “donnaiolo, playboy o uomo alla ricerca di avventure passeggere”, compatibile con il requisito della continenza (cfr. Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866, nonché, con particolare riferimento all’attribuzione di una qualità personale attinente alle preferenze sessuali, Sez. 5, n. 50659 del 18/10/2016, Rv. 268604).
4.2. Anche il secondo motivo di ricorso deve ritenersi fondato, dovendosi, preliminarmente, ribadire al riguardo l’orientamento, secondo cui, in tema di diffamazione, la causa di non punibilità della provocazione non ha natura di scriminante ma di scusante, idonea ad eliminare solo la rimproverabilità della condotta dell’autore in ragione delle motivazioni del suo agire, ferma restando l’illiceità del fatto, imputabile a titolo di dolo, e la conseguente obbligazione risarcitoria nei confronti del soggetto leso (cfr. Sez. 5, n. 26477 del 08/03/2021, Rv. 281653).
Con uno specifico motivo di appello, il M.M. invocava l’applicazione in suo favore della causa di non punibilità di cui all’art. 599, co. 2, cod. pen., rappresentando che la condotta dell’imputato era da addebitare allo stato d’ira in lui sorto a causa delle ingiuste accuse rivoltegli dalla moglie in una missiva inviatagli via posta elettronica, in forma privata, con cui gli addebitava di mettere a repentaglio l’ordinato svolgersi della vita dei figli e di fare un uso smodato di alcolici.
A fronte di tale eccezione la corte territoriale non svolgeva alcuna indagine sulla effettiva sussistenza dei presupposti invocati dalla difesa del M.M., limitandosi a trarre dallo stesso contenuto del post incriminato, come in precedenza descritto, la conseguenza che la condotta del ricorrente non poteva considerarsi, né una critica, né una reazione a un fatto ingiusto altrui, affermando, assertivamente, che si trattava, piuttosto, di una “vendetta piccata di colui che non accetta di essere giudicato, a ragione o a torto, ma in forma privata, nel suo ruolo di genitore” ovvero di essere sottoposto a critiche (cfr. p. 2 della sentenza impugnata).
Orbene, sempre rimanendo ancorati al significato delle parole utilizzate dalla corte territoriale, appare evidente che se la reazione “piccata”, cioè irata, del M.M. fosse stata determinata da critiche rivoltegli senza alcun reale fondamento sul suo ruolo di genitore, giustificando, dunque, il suo rifiuto dì essere giudicato, si sarebbe dovuto sottoporre a una più attenta verifica da parte del giudice di appello l’ipotesi difensiva sull’applicazione della menzionata causa di non punibilità, che ricorre non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza, purché apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l’agente (cfr. Sez. 5, n. 21133 del 09/03/2018, Rv. 273131), richiedendo, inoltre, che tra l’insorgere della reazione ed il fatto ingiusto altrui vi sia una reale contiguità temporale e un nesso di causalità determinante tra il fatto provocante ed il fatto provocato, non essendo all’uopo sufficiente un legame di mera occasionalità (cfr. Sez. 5, n. 39508 del 11/05/2012, Rv. 253732; Sez. 5, n. 30502 del 16/05/2013, Rv. 257700).
5. Sulla base delle svolte considerazioni, si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell’art. 622, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015, Rv. 265561), disponendosi l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento, ai sensi dell’art. 52, co. 5, d. Igs. 30/06/2003 n. 196.
Una volta esclusa, infatti, la possibilità di proscioglimento ex art. 129, comma 2, c.p.p., alla dichiarazione di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione segue il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, essendo venuta meno la ragione dell’attrazione dell’azione civile nel procedimento penale (cfr., in questo senso, Sez. 5, n. 43690 del 10/09/2021, Rv. 282288; Sez. 5, n. 43663 del 09/09/2022, Rv. 283817).
Per completezza espositiva va rilevato che non si pone nel caso in esame la questione dell’applicabilità o meno della disposizione di nuovo conio di cui all’art. 573, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 33, comma 1, lett. a), n. 2 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a decorrere dal 30 dicembre 2022 ex art. 6 d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199, riguardante la decisione delle impugnazioni per i soli interessi civili, proprio perché il ricorso dell’imputato non riguardava esclusivamente gli effetti civili della sentenza di condanna pronunciata in suo danno.
Alla liquidazione delle spese tra le parti del presente giudizio si provvederà in sede civile.
Cass. pen., V, ud. dep. 08.09.2025, n. 30385