*Confisca – Confisca di prevenzione e denegato giudizio di pericolosità a ritroso negli anni

*Confisca – Confisca di prevenzione e denegato giudizio di pericolosità a ritroso negli anni

1. Il ricorso è fondato, per le ragioni di seguito illustrate.

2. Il primo motivo è fondato e assorbe le restanti doglianze.

Ritiene il Collegio che la Corte d’Appello non abbia correttamente applicato al caso in scrutinio i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, alla stregua dei quali “in tema di misure di prevenzione, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, le “categorie di delitto” legittimanti l’applicazione di una misura fondata sul giudizio di c.d. pericolosità generica, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 159 del 2011, devono presentare il triplice requisito – da ancorare a precisi elementi di fatto, di cui il giudice di merito deve rendere adeguatamente conto in motivazione – per cui deve trattarsi di delitti commessi abitualmente, ossia in un significativo arco temporale, che abbiano effettivamente generato profitti in capo al proposto e che costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l’unica, o quantomeno, una rilevante fonte di reddito per il medesimo. (Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020, dep. 2021, Zingrillo, Rv. 280145 – 03).

I “precisi elementi di fatto”, richiamati dal citato principio, cui necessariamente deve ancorarsi il giudizio di pericolosità c.d. generica, non risultano adeguatamente evidenziati nel decreto impugnato, in particolare con riguardo ai tre procedimenti penali (1/1995 presso il Tribunale di Bari, 14398/2002 presso il Tribunale di Bari, 43937 Tribunale di Roma) citati dalla Corte territoriale alle pagg. 34 e 35 del gravato provvedimento. Coglie nel segno, a tal riguardo, il ricorrente, nel dolersi della valorizzazione, operata dalla Corte d’Appello, di procedimenti penali, afferenti agli anni 1995-1996 e 2003-2007, in relazione ai quali è stata pronunciata 1) sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto, del 4 marzo 2022, nel procedimento 1/1995, per fatti risalenti al 1995-1996; 2) sentenza di condanna, del 9 aprile 2010, nel procedimento 14398/2002, per fatti del 2003; 3) sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, per fatti commessi tra il 2003 e il 2007.

Per quel che ha riguardo alla pronuncia indicata sub 1), deve ricordarsi il principio di diritto in base al quale “l’accertamento negativo contenuto in una sentenza irrevocabile di assoluzione impedisce di assumere una determinata condotta come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità sociale” (Sez. 6, n. 49750 del 04/07/2019, Diotallevi, Rv. 277438 – 02). La motivazione del decreto impugnato si limita a evidenziare che il giudice del merito statuiva essere le condotte imputate al Ri.An. verosimilmente inquadrabili in fattispecie di truffa. Al riguardo, è sufficiente ribadire che la constatazione di condotte genericamente indicative della propensione al delitto – per le quali, peraltro, nel caso in scrutinio era intervenuta pronuncia di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto – non è sufficiente a basare il giudizio di pericolosità sociale del soggetto proposto per l’applicazione della confisca di prevenzione ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e b), D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159. A tal fine, “il giudice della prevenzione deve individuare il momento iniziale della suddetta pericolosità, al fine di sostenerne la correlazione con l’acquisto dei beni, sulla base non della constatazione di condotte genericamente indicative della propensione al delitto, ma dell’apprezzamento di condotte delittuose corrispondenti al tipo criminologico della norma che intende applicare, individuando il momento in cui le stesse abbiano raggiunto consistenza e abitualità tali da consentire, già all’epoca, l’applicazione della misura di prevenzione” (Sez. 1, n. 43826 del 19/04/2018, R., Rv. 273976 – 01).

Per quel che concerne la decisione indicata sub 3), se è vero che “il giudice della prevenzione può ritenere la riconducibilità del proposto ad una delle categorie di pericolosità di cui agli artt. 1 e 4 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, anche indipendentemente dall’esistenza di sentenze di condanna che abbiano accertato la pregressa commissione di reati, a condizione che la valutazione incidentale a tal fine compiuta non sia smentita da esiti assolutori di eventuali procedimenti penali, eccezion fatta per il caso in cui tali esiti siano dipesi dal riconoscimento di cause estintive (Sez. 1, n. 36080 del 11/09/2020, Cavazza, Rv. 280207 – 01, corsivo nostro), è anche vero che, “nondimeno, il giudice non può basare il suo accertamento su meri sospetti, ma è tenuto a prendere in considerazione fatti storicamente apprezzabili, l’efficacia dimostrativa dei quali deve essere più elevata in relazione alla pericolosità ed. generica, con la conseguenza che la riconduzione del proposto ad una delle categorie di questa non può essere fondata su semplici informazioni contenute nelle banche dati in uso alle forze di polizia non accompagnate da aggiornamenti in ordine ai relativi sviluppi procedimentali”.

Il principio ora enunciato impone, dunque, al giudice della prevenzione un surplus d’impegno motivazionale che, nel caso in esame, avrebbe dovuto tradursi in una più precisa indicazione dei modi attraverso cui le condotte, al tempo (2003-2007) sub iudice, si erano rivelate causa di profitti illeciti, costituenti una fonte significativa di reddito.

Infine, relativamente alla sentenza di cui sub 2), la condanna intervenuta per contrabbando di cellulari attiene a un delitto commesso nel 2003. Non può, allora, non condividersi l’eccezione difensiva che insiste (in relazione sia alla sentenza di condanna di cui sub 3), sia alle altre due sentenze) sullo sfasamento temporale tra le condotte oggetto di incriminazione penale evidenziate dalla Corte e le acquisizioni patrimoniali oggetto di confisca di prevenzione.

Alla stregua delle coordinate tracciate da Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014, dep. 2015, Spinelli, Rv. 262605 – 01, coglie nel segno la doglianza difensiva concernente il difetto di perimetrazione cronologica tra manifestazione della pericolosità e acquisizione dei beni confiscati. Invero, è la stessa Corte d’Appello a

chiarire che le società confiscate sono state costituite a partire dall’anno 2012; e coeva è stata la costituzione dei due trust.

Dunque, il ragionamento dei giudici della prevenzione appare corretto fin dove si valorizza la condanna, intervenuta il 9 luglio 2024, per il reato di associazione, di cui al capo d), oggetto del procedimento ed. Galassia, per fatti commessi tra il 2012 e il 2018 (retrodatabili, secondo i giudici della prevenzione, di almeno un biennio: v. p. 16 decreto impugnato). Ma, per i cespiti patrimoniali acquisiti dal ricorrente in epoca (1995-1996 e 2003-2007) antecedente al procedimento “Galassia”, si condividono le notazioni difensive circa l’illegittima proiezione a ritroso nel tempo della pericolosità generica del Ri..

In definitiva, del triplice requisito richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte affinché il giudizio di pericolosità sociale sia correttamente reso (v. supra, Sez. 5, Zingrillo, Rv. 280145 – 03, cit.), la Corte tratteggia la sussistenza del primo, quello dell’abitualità, posto che, almeno dal 1995 a 2018, le decisioni richiamate dai giudici d’appello della prevenzione danno conto di un significativo arco temporale in cui le condotte illecite sono state attuate. Ma la connessione tra le condotte oggetto dei tre procedimenti indicati e il ricavo di profitti illeciti che il proposto avrebbe indirizzato nella costituzione di società, trust e beni confiscati con procedimento de quo, nonché la dimostrazione che il Ri.An. abbia vissuto, in tutto o in parte, coi proventi delle illecite attività, non può dirsi dimostrato.

Benché la motivazione sia chiara nel sottolineare a) che la misura ablativa è stata giustificata non sulla base della sproporzione, bensì su quella della natura illecita delle risorse reimpiegate nella gestione dell’attività d’impresa, e b) che, in ragione del carattere unitario del bene “azienda”, non è stato possibile sceverare l’apporto di componenti lecite da quello imputabile a condotte illecite, ciò, a parere del Collegio, non basta a fondare un percorso dimostrativo, invece necessario, in ordine alla pericolosità generica, idoneo a giustificare la conferma del sequestro dei beni del proposto.

È certamente vero, come più volte sottolineato da questa Corte, che, in tema di pericolosità generica, la sistematica condotta di evasione fiscale, di rilievo penale, (contestata al proposto, insieme al delitto di la truffa ai danni dello Stato, sub capi e), f), g), h) e la conseguente immissione di capitali di provenienza non lecita in un complesso aziendale – che comporta l’impossibilità di scindere tra eventuali componenti sane, riferibili ad attività imprenditoriale lecita, e apporto di capitali illeciti – rappresenta un elemento rilevanti al fine dell’inquadramento di una persona nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Sez. 2, n. 3883 del 19/11/2019, dep. 2020, Pomilio, Rv. 278679 -02). Al giudice della prevenzione, infatti, non è richiesto, come si è precisato in più occasioni, che egli accerti in modo specifico la entità del profitto correlato a

ogni condotta delittuosa, sì da trasformare la confisca di prevenzione in una tipologia di confisca latamente “pertinenziale” (con limitazione dell’ablazione al valore dei beni corrispondenti al profitto illecito ricavabile dalle condotte delittuose), posto che, una volta stabilita anche la semplice “incidenza” (componente significativa della redditività nel periodo considerato, secondo le indicazioni di Corte cost., sent. n.24 del 2019) del reddito illecito sul mantenimento del tenore di vita, soccorre, ai fini di individuazione dei beni confiscabili, il presupposto concorrente della “sproporzione” tra redditi leciti e valore degli investimenti realizzati nel periodo.

In altri termini, la confisca di prevenzione non ha natura strettamente pertinenziale e la constatazione delle reiterate attività illecite, unitamente al parametro della sproporzione, consente – sul piano logico – di ipotizzare che la formazione del patrimonio non giustificato abbia derivazione da attività illecite similari (anche ulteriori rispetto a quelle espressamente censite). Ciò perché la “sproporzione” di valori, come chiarito in più arresti di questa Corte di legittimità (v. da ultimo Sez. 1, n. 15617 del 2020, n.m.) e dalla stessa Corte costituzionale nella decisione n. 24 del 2019, altro non è che una “semplificazione probatoria” consentita dal sistema, rispetto all’accertamento ‘pieno’ del nesso di derivazione tra attività illecita, censita in sede di ricognizione della pericolosità, e impiego delle risorse in tal modo prodotte.

Fatta salva l’importanza di tali precisazioni, si è già illustrato il motivo per cui il decreto impugnato non dà adeguatamente conto di quel nesso di derivazione tra attività illecite e impiego delle risorse in tal modo prodotte.

Peraltro, nel decreto impugnato non emerge una chiara distinzione tra i dati rivelatori di pericolosità lucro-genetica di cui alla sentenza resa nella ed. operazione Galassia e i dati specificamente esaminati analizzando il primo motivo di ricorso, nel senso che resta inesplorata, ai fini della perimetrazione cronologica dell’illiceità dei beni prodotti dalle attività assunte come rivelatrici di pericolosità negli ultimi anni, la sufficienza di queste ultime a giustificare, al netto delle precedenti e risalenti attività attribuite al Ri., la indispensabile correlazione con le acquisizioni dei beni oggetto di confisca.

Tanto comporta l’assorbimento del secondo motivo di ricorso.

Cass. pen., V, ud. dep. 29.07.2025, n. 27704

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