Ambiente – Divieto di installazione di impianti a fonti rinnovabili, questioni di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost.

Ambiente – Divieto di installazione di impianti a fonti rinnovabili, questioni di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost.

1. Il Collegio, in via preliminare, ritiene che i primi tre motivi di ricorso, inerenti alla legittimità del d.m. del 21 giugno 2024 ad eccezione della previsione con la quale è stato introdotto il divieto di installazione in aree agricole di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra (oggetto delle censure articolate con il quarto, quinto e sesto motivo di ricorso), siano inammissibili per carenza di interesse così come rilevato d’ufficio dal Collegio ai sensi dell’articolo 73, comma 3, c.p.a. nel corso dell’udienza pubblica del 7 maggio 2025 e fatto constare nel relativo verbale d’udienza.

Le seguenti considerazioni valgono ad assorbire anche i concorrenti profili di inammissibilità oggetto di eccezione da parte della Regione Sardegna.

1.1. La delibazione del profilo processuale inerente alla carenza di interesse a ricorrere degli operatori economici del settore, quali le società ricorrenti, richiede che vengano preliminarmente chiariti i termini nei quali va declinato il concetto di area non idonea all’installazione di impianti FER nel regime introdotto dall’articolo 20, comma 1, del d.lgs. n. 199/2021.

Tale esigenza, invero, risulta intrinsecamente correlata con il tenore delle censure ricorsuali, che ruotano sostanzialmente intorno all’assunto secondo il quale le aree non idonee siano superfici sulle quali è totalmente preclusa l’installazione di impianti FER, il che avrebbe comportato un totale e indebito stravolgimento dell’impianto ordinamentale delineato con il precedente regime giuridico applicabile in subiecta materia.

1.2. Il Collegio ritiene che la tesi sostenuta dalle società ricorrenti non possa essere condivisa per le ragioni di diritto di seguito esposte.

1.3. Come noto, l’articolo 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387, ha introdotto disposizioni per la razionalizzazione e la semplificazione delle procedure autorizzative per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili.

A tal fine, l’articolo 12, comma 10, del d.lgs. n. 387/2003 ha inter alia previsto che “In Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al comma 3 [la c.d. procedura di autorizzazione unica, n.d.r.]. Tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti”.

1.4. Come già anticipato in precedenza, le Linee Guida indicate dall’articolo 12, comma 10, del d.lgs. n. 387/2003 sono state adottate con decreto del Ministero dello sviluppo economico del 10 settembre 2010, nel quale è stato stabilito che:

– paragrafo 17: “Al fine di accelerare l’iter di autorizzazione alla costruzione e all’esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, in attuazione delle disposizioni delle presenti linee guida, le Regioni e le Province autonome possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti secondo le modalità di cui al presente punto e sulla base dei criteri di cui all’Allegato 3. L’individuazione della non idoneità dell’area è operata dalle Regioni attraverso un’apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l’insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione. Gli esiti dell’istruttoria, da richiamare nell’atto di cui al punto 17.2, dovranno contenere, in relazione a ciascuna area individuata come non idonea in relazione a specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, la descrizione delle incompatibilità riscontrate con gli obiettivi di protezione individuati nelle disposizioni esaminate […]. Le aree non idonee sono […] individuate dalle Regioni nell’ambito dell’atto di programmazione con cui sono definite le misure e gli interventi necessari al raggiungimento degli obiettivi di burden sharing fissati in attuazione delle suddette norme. Con tale atto, la regione individua le aree non idonee tenendo conto di quanto eventualmente già previsto dal piano paesaggistico e in congruenza con lo specifico obiettivo assegnatole”;

– allegato 3: “L’individuazione delle aree e dei siti non idonei mira non già a rallentare la realizzazione degli impianti, bensì ad offrire agli operatori un quadro certo e chiaro di riferimento e orientamento per la localizzazione dei progetti. L’individuazione delle aree non idonee dovrà essere effettuata dalle Regioni con propri provvedimenti tenendo conto dei pertinenti strumenti di pianificazione ambientale, territoriale e paesaggistica, secondo le modalità indicate al paragrafo 17”, nonché sulla base di principi e criteri, individuati dal medesimo allegato, in ragione dei quali, tra l’altro: “a) l’individuazione delle aree non idonee deve essere basata esclusivamente su criteri tecnici oggettivi legati ad aspetti di tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio artistico-culturale, connessi alle caratteristiche intrinseche del territorio e del sito; b) l’individuazione delle aree e dei siti non idonei deve essere differenziata con specifico riguardo alle diverse fonti rinnovabili e alle diverse taglie di impianto; […] d) l’individuazione delle aree e dei siti non idonei non può riguardare porzioni significative del territorio o zone genericamente soggette a tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, né tradursi nell’identificazione di fasce di rispetto di dimensioni non giustificate da specifiche e motivate esigenze di tutela. La tutela di tali interessi è infatti salvaguardata dalle norme statali e regionali in vigore ed affidate, nei casi previsti, alle amministrazioni centrali e periferiche, alle Regioni, agli enti locali ed alle autonomie funzionali all’uopo preposte, che sono tenute a garantirla all’interno del procedimento unico e della procedura di Valutazione dell’Impatto Ambientale nei casi previsti. L’individuazione delle aree e dei siti non idonei non deve, dunque, configurarsi come divieto preliminare, ma come atto di accelerazione e semplificazione dell’iter di autorizzazione alla costruzione e all’esercizio, anche in termini di opportunità localizzative offerte dalle specifiche caratteristiche e vocazioni del territorio”.

1.5. Nel contesto del sistema delineato dall’articolo 12, comma 10, del d.lgs. n. 387/2003, come risulta dai pacifici orientamenti pretori formatisi in seno alla giurisprudenza della Corte costituzionale, le Linee Guida sono “poste a completamento della normativa primaria «in settori squisitamente tecnici» (sentenze n. 121 e n. 77 del 2022, n. 177 del 2021, n. 106 del 2020, n. 286 e n. 86 del 2019, nonché n. 69 del 2018) e connotate dal carattere della inderogabilità a garanzia di una disciplina «uniforme in tutto il territorio nazionale (sentenze n. 286 e n. 86 del 2019, n. 69 del 2018)» (sentenza n. 106 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 221, n. 216, n. 77 e n. 11 del 2022, n. 177 e n. 46 del 2021)” (cfr. Corte cost., sent. n. 27/2023).

Va, poi, evidenziato che la Corte costituzionale ha chiarito che con le disposizioni normative introdotte dal d.lgs. n. 199/2021 “il legislatore statale ha inteso superare il sistema dettato dall’art. 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità) e dal conseguente decreto del Ministro dello sviluppo economico del 10 settembre 2010 (Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili), contenenti i principi e i criteri di individuazione delle aree non idonee. Le regioni, pertanto, sono ora chiamate a individuare le aree «idonee» all’installazione degli impianti, sulla scorta dei principi e dei criteri stabiliti con appositi decreti interministeriali, previsti dal comma 1 del citato art. 20 […]. Inoltre, l’individuazione delle aree idonee dovrà avvenire non più in sede amministrativa, come prevedeva la disciplina precedente in relazione a quelle non idonee, bensì «con legge» regionale, secondo quanto precisato dal comma 4 (primo periodo) dello stesso art. 20” (cfr. Corte cost., sent. n. 103/2024).

1.6. Sulla scorta di quanto chiarito ed affermato negli orientamenti giurisprudenziali testé richiamati, discende che nel dare applicazione del rinnovato quadro normativo che ha interessato la materia della realizzazione degli impianti FER, non possano sic et simpliciter essere trasposti, in maniera acritica e meccanica, i principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale in relazione al pregresso assetto normativo e regolatorio.

Laddove, infatti, si aderisse ad una siffatta opzione ermeneutica – che è, poi, quella sostanzialmente prospettata dalle società ricorrenti – si finirebbe per obliterare indebitamente il vigente contesto normativo, avuto specifico riguardo alla circostanza per cui, de iure condito, l’articolo 20, comma 1, del d.lgs. n. 199/2021 espressamente dispone che sia il Mase, di concerto con il Mic e il Masaf, previo raggiungimento dell’intesa in Conferenza unificata, a stabilire con decreto i principi e i criteri omogenei strumentali all’individuazione delle aree idonee e non idonee.

1.7. Invero, proprio sulla scorta delle scelte compiute dalle amministrazioni resistenti con l’adozione del gravato decreto ministeriale – e condivise con gli enti territoriali tramite lo strumento dell’intesa in sede di Conferenza unificata – emerge come, contrariamente a quanto sostenuto dalle società ricorrenti, nel complessivo nuovo impianto normativo e regolamentare sia sostanzialmente rimasta inalterata, quanto a natura e finalità, la portata precettiva del concetto di “area non idonea”.

Infatti, l’articolo 1, comma 2, lett. b), del d.m. del 21 giugno 2024 ha definito le “superfici e aree non idonee” come “aree e siti le cui caratteristiche sono incompatibili con l’installazione di specifiche tipologie di impianti secondo le modalità stabilite dal paragrafo 17 e dall’allegato 3 delle linee guida emanate con decreto del Ministero dello sviluppo economico 10 settembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 18 settembre 2010, n. 219 e successive modifiche e integrazioni”.

A dispetto di quanto asserito dalle società ricorrenti – secondo le quali la definizione di area non idonea come area incompatibile equivarrebbe alla introduzione di un divieto assoluto alla installazione di impianti FER – occorre ricordare che il paragrafo 17 delle Linee Guida già per il passato specificava che il processo di ricognizione delle aree non idonee dovesse avvenire prendendo in considerazione gli “obiettivi di protezione non compatibili con l’insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti”.

Emerge, quindi, come già nel contesto previgente all’adozione del gravato decreto ministeriale le aree non idonee si caratterizzassero per essere aree incompatibili con il soddisfacimento degli obiettivi di protezione che l’ordinamento intende perseguire. Tale forma di incompatibilità, quale tratto caratterizzante delle aree non idonee, non si traduceva in una preclusione assoluta alla realizzazione di impianti FER, valendo solo ad indicare la sussistenza di “una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione”.

L’analisi diacronica sinteticamente svolta consente di affermare che, sotto l’esaminato profilo della “incompatibilità”, la definizione di “aree non idonee” contenuta nell’articolo 1, comma 2, lett. b), del gravato decreto ministeriale non possiede un carattere innovativo, risultando sostanzialmente invariata, quoad effectum, la portata del concetto di “area non idonea” per come declinato dal d.m. del 21 giugno 2024 rispetto a quella scaturente dalle Linee Guida.

1.8. Ad avviso del Collegio il richiamo alle modalità stabilite dalle Linee Guida operato dall’articolo 1, comma 2, lett. b), del d.m. del 21 giugno 2024, deve essere inteso unicamente nel senso che, in sede di attuazione della delega legislativa di cui alla legge n. 53/2021, si sia optato per il consolidamento, anche rispetto al nuovo regime, delle acquisizioni, in termini di significato e declinazione delle aree non idonee, già raggiunte nel previgente assetto normativo in applicazione delle previsioni dettate dalle Linee Guida.

Tale opzione esegetica può essere legittimamente percorsa in ossequio al canone ermeneutico dell’interpretazione conservativa di cui all’articolo 1367 cod civ. – pacificamente applicabile anche agli atti amministrativi, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. III, sent. n. 5358 del 4 settembre 2020 e riferimenti ivi citati) –. Infatti, mediante l’impiego di tale, legittimo, criterio interpretativo, nel nostro ordinamento giuridico è possibile preservare atti e valori giuridici non affetti da vizi di legittimità (ut res magis valeat quam pereat), risultando ciò confacente, peraltro, ai principi di economicità ed efficacia dell’attività amministrativa sanciti dall’articolo 1, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (cfr. Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3488 del 10 luglio 2015) e di cui il criterio della interpretazione conservativa costituisce espressione.

Peraltro, come sarà meglio approfondito nel prosieguo, anche nel nuovo assetto normativo è stato assegnato un ruolo alle linee guida ministeriali, ancorché subordinato ad un aggiornamento delle stesse teso a renderle compatibili con il nuovo impianto ordinamentale, giusto quanto previsto dall’articolo 18, comma 3, del d.lgs. n. 199/2021.

1.9. Se è vero che non può essere sottaciuto il fatto che l’articolo 3, comma 1, del gravato decreto ministeriale disponga che le Regioni provvedono con legge alla individuazione (anche) delle aree non idonee – e non più nell’ambito di un apposito procedimento amministrativo, come previsto dalle Linee Guida – è del pari vero che non v’è alcun indice normativo che faccia ritenere che a tale cambiamento sia correlata la conseguenza prospettata dalle società ricorrenti.

Infatti, il mutamento normativo che ha interessato il veicolo giuridico di approvazione della classificazione delle aree potenzialmente suscettibili di essere interessate dalla costruzione e messa in esercizio di un impianto FER, non risulta accompagnato da una così radicale trasfigurazione del significato che il concetto giuridico di “aree non idonee” esprime ai fini del raggiungimento degli obiettivi normativi sulla diffusione delle energie rinnovabili.

L’interpretazione dell’articolo 1, comma 2, lett. b), del gravato d.m. del 21 giugno 2024, al quale il Collegio intende aderire – partendo dall’assunto che il carattere di non idoneità di un’area non precluda in radice la realizzazione di impianti FER – è atta a porre in rilievo come l’individuazione con legge regionale delle aree non idonee non esclude che le amministrazioni coinvolte negli specifici procedimenti amministrativi di valutazione delle istanze di autorizzazione alla realizzazione di impianti FER debbano necessariamente apprezzare in concreto l’impatto dei progetti proposti sulle esigenze di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale e dei beni culturali, anche laddove l’area interessata rientri tra quelle classificate come non idonee.

1.10. Il Collegio, chiariti i termini nei quali debba essere inteso il concetto giuridico di “aree non idonee” alla realizzazione degli impianti FER, ritiene di poter esaustivamente procedere all’esame dei profili di attualità e concretezza dell’interesse a ricorrere delle società ricorrenti.

A tale riguardo, sulla scorta delle considerazioni innanzi svolte, è d’uopo evidenziare che non si ritiene sussistente in capo a queste ultime tale condizione dell’azione richiesta dalla legge per conseguire l’annullamento giudiziale del gravato decreto ministeriale del 21 giugno 2024.

1.11. In proposito, giova preliminarmente evidenziare che l’interesse a ricorrere, quale condizione dell’azione concettualmente autonoma dalla legittimazione ad agire, trova il suo fondamento nell’art. 100 del codice di procedura civile, rubricato “Interesse ad agire” e applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno sancito dall’articolo 39 c.p.a.

In particolare, atteso che l’articolo 100 c.p.c. stabilisce che “Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa essa è necessario avervi interesse”, l’interesse a ricorrere si caratterizza per la “prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato” (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 26 aprile 2018, n. 4).

Ciò, invero, risulta coerente con la funzione svolta dalle condizioni dell’azione nei processi di parte, innervati dal principio della domanda e dal principio dispositivo (cfr. Cass. civ., SS.UU., 22 aprile 2013 n. 9685; Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2015, n. 4228; Cass. civ., sez. II, 9 ottobre 2017, n. 23542).

L’interesse a ricorrere, inoltre, è espressione della concezione soggettiva della tutela giurisdizionale, propria anche del processo amministrativo (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., sent. n. 4 del 7 aprile 2011) e ad esso è attribuita una funzione di filtro processuale, fino a divenire strumento di selezione degli interessi meritevoli di tutela (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., sent. n. 22 del 9 dicembre 2021).

L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, proprio con riferimento a tale condizione dell’azione, ha ulteriormente chiarito che “Il codice del processo amministrativo fa più volte riferimento, direttamente o indirettamente, all’interesse a ricorrere: all’art. 35, primo comma, lett. b) e c), all’art. 34, comma 3, all’art. 13, comma 4-bis e, in modo più sfumato, all’art. 31, primo comma, sembrando confermare, con l’accentuazione della dimensione sostanziale dell’interesse legittimo e l’arricchimento delle tecniche di tutela, la necessità di una verifica delle condizioni dell’azione (più) rigorosa. Verifica tuttavia da condurre pur sempre sulla base degli elementi desumibili dal ricorso, e al lume delle eventuali eccezioni di controparte o dei rilievi ex officio, prescindendo dall’accertamento effettivo della (sussistenza della situazione giuridica e della) lesione che il ricorrente afferma di aver subito. Nel senso che, come è stato osservato, va verificato che ‘la situazione giuridica soggettiva affermata possa aver subito una lesione’ ma non anche che ‘abbia subito’ una lesione, poiché questo secondo accertamento attiene al merito della lite” (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., sent. n. 22/2021, cit.).

1.12. Ordunque, nel caso in esame viene in rilievo una fattispecie controversa rispetto alla quale l’interesse al bene (i.e., l’utilità finale o petitum mediato) correlato alla situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio dalle società ricorrenti rimonta alle previsioni ministeriali che, con carattere generale, sono destinate a incidere sui procedimenti di autorizzazione, con la conseguenza che è rispetto alle stesse che deve essere apprezzata in via prognostica la possibilità che la situazione dedotta in giudizio dalla società ricorrente abbia subito la prospettata lesione.

Un siffatto apprezzamento, per una pluralità di ragioni (tra le quali la più evidente è quella che risiede nel fatto che opinando diversamente si finirebbe per violare il divieto sancito dall’articolo 34, comma 2, c.p.a.), non può che prescindere dall’esito procedimentale dell’iter di autorizzazione e deve necessariamente essere incentrato sulla eventuale diretta, immediata e concreta valenza pregiudizievole delle contestate previsioni del d.m. del 21 giugno 2024 per le società ricorrenti.

1.13. Il Collegio non reputa che gli articoli 1, 3 e 7 del gravato decreto ministeriale siano immediatamente lesivi della sfera giuridica della società ricorrente, donde l’inammissibilità delle relative censure.

1.14. Invero, siccome il fulcro delle censure proposte ruota intorno alla prospettata lesività del nuovo assetto regolamentare per effetto della rivisitazione del previgente sistema e del ruolo che l’istituto delle “aree non idonee” è destinato a giocare, anche per ciò che concerne gli aspetti inerenti alle modalità della loro determinazione, dall’analisi svolta in precedenza emerge come la qualificazione di determinate porzioni di territorio in termini di “aree non idonee” non costituisce un impedimento assoluto alla realizzazione di progetti tesi alla costruzione e all’esercizio di impianti FER, donde la radicale insussistenza, anche in una prospettiva prognostica di valutazione, della lesione prospettata dalle società ricorrenti.

1.15. A tale riguardo, giova evidenziare che la localizzazione di un impianto FER in un’area non idonea non osta a che gli operatori economici proponenti possano in ogni caso dimostrare, nell’ambito dei singoli procedimenti autorizzatori, che il progetto da realizzare sia compatibile con il complessivo assetto dei valori in gioco, ovverosia, da un lato, con la tutela dei beni sottoposti a tutela ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 e, dall’altro, con il raggiungimento degli obiettivi di potenza complessiva da traguardare al 2030 in base a quanto previsto dalla Tabella A dell’articolo 2 del d.m. del 21 giugno 2024.

Tali considerazioni trovano espresso conforto nelle previsioni del gravato decreto ministeriale, laddove, all’articolo 7, comma 3, in fine, si dispone che “Nell’applicazione del presente comma deve essere contemperata la necessità di tutela dei beni con la garanzia di raggiungimento degli obiettivi di cui alla Tabella A dell’art. 2 del presente decreto”.

1.16. In base al nuovo assetto normativo e regolamentare culminato con l’adozione del gravato decreto ministeriale, anche l’individuazione delle “aree non idonee” debba essere determinata mediante legge regionale e non invece, come avveniva con il previgente regime, con atti di programmazione e all’esito di una precipua istruttoria procedimentale (cfr. paragrafo 17 delle Linee Guida).

A tal proposito, infatti, vale considerare che anche ipotizzando che l’individuazione delle aree non idonee possa, in alcuni casi, scontare in sede di legislazione regionale una carente caratterizzazione in ragione del diverso atteggiarsi dei lavori preparatori di un provvedimento legislativo rispetto alla fase istruttoria di un procedimento amministrativo, ciò non risulterebbe di per sé suscettibile di arrecare un pregiudizio concreto e attuale agli interessi degli operatori economici che intendono realizzare impianti FER in siti classificati come “aree non idonee”.

Infatti, la conseguenza giuridica che può farsi discendere dalla concretizzazione dell’ipotesi innanzi prospettata, consiste in un mero aggravamento dell’onere motivazionale a carico dell’amministrazione competente a pronunciarsi sulle istanze di autorizzazione alla realizzazione ed esercizio di impianti FER.

In particolare, l’amministrazione procedente, all’esito dell’iter di autorizzazione, non potrà giustificare l’eventuale ritenuta incompatibilità del progetto solo in ragione del fatto che l’impianto sia localizzato in un’area classificata come non idonea – motivazione, peraltro, che risulterebbe insufficiente anche nel caso in cui la caratterizzazione delle aree non idonee sia stata puntualmente svolta dal legislatore regionale, in quanto la qualificazione di non idoneità non si traduce in un divieto assoluto di installazione di impianti FER, come esposto in precedenza – ma dovrà necessariamente fondare il proprio diniego dando conto in maniera adeguata, ancorché in ipotesi sintetica, delle intrinseche caratteristiche del progetto e delle aree interessate, traguardate alla luce della comparazione dei contrapposti interessi in giuoco, fermo restando quanto previsto dall’articolo 16-septies della direttiva 2018/2001/UE, in seguito alle modifiche operate con la direttiva 2023/2413/UE, nonché dalle previsioni di cui all’articolo 3 del d.lgs. n. 190/2024.

Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dalle società ricorrenti, nessun pregiudizio attuale e concreto può farsi discendere dal fatto che sia stato previsto che l’individuazione delle “aree non idonee” debba avvenire con legge regionale.

Per converso, un siffatto pregiudizio è suscettibile di venire ad esistenza solo in caso di esito negativo del procedimento di autorizzazione e solo nella misura in cui risulti che l’amministrazione procedente non abbia esercitato correttamente il potere amministrativo di carattere tecnico-discrezionale ad essa attribuito dalla legge.

1.17. Ad avviso del Collegio, sempre sulla scorta della chiarita portata normativa ed effettuale del concetto giuridico di “aree non idonee” nell’ambito dell’attuale contesto normativo e regolamentare, il gravato decreto ministeriale si appalesa privo di immediata e concreta lesività anche relativamente alle prescrizioni con le quali detto decreto classifica determinate aree come non idonee ovvero fa salva la possibilità, in favore delle Regioni, di considerare come aree idonee quelle già individuate come tali dall’articolo 20, comma 8, ritenute illegittime in quanto suscettibili di condurre alla introduzione di una disciplina frammentata e, dunque, foriera di totale indeterminatezza.

1.17.1. La circostanza per cui il gravato decreto ministeriale qualifichi come non idonee le aree ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela ai sensi di quanto previsto dal d.lgs. n. 42/2004 (articolo 7, comma 3), non vale a mutare la portata generale del concetto di “aree non idonee”, convertendolo in un istituto a geometrie variabili che, ove direttamente applicato dall’amministrazione ministeriale, sia tale da determinare una aprioristica e radicale sottrazione, ex voluntate administrationis, dell’area non idonea alla realizzazione degli impianti FER.

Invero, sia in tal caso, sia nell’altro (cioè, quando l’individuazione delle “aree non idonee” avviene con legge regionale), la localizzazione dell’impianto all’interno di un sito ritenuto non idoneo non costituisce mai ragione di per sé sufficiente a precludere in radice la realizzazione del progetto proposto dall’operatore economico istante, potendosi giungere a tale esito procedimentale solo nel caso in cui il progetto venga in concreto reputato incompatibile, dall’amministrazione procedente, con gli altri obiettivi di tutela rilevanti nelle singole fattispecie.

Le società ricorrenti, viceversa, con l’impostazione impressa al ricorso in esame hanno tentato di far retrocedere una siffatta – e meramente eventuale – lesione ad una fase prodromica rispetto alla valutazione in concreto dei progetti tesi alla realizzazione di impianti FER, in quanto unicamente riservata alla individuazione delle “aree non idonee”.

Tuttavia, sulla scorta delle regole che governano il processo amministrativo e in considerazione del fatto che la giurisdizione amministrativa di legittimità costituisce pur sempre una giurisdizione di diritto soggettivo, non è possibile accordare alle società ricorrenti, che risultano essere operatori attivi nel settore interessato dalle contestate modifiche ordinamentali, una tutela anticipata di merito, ossia una tutela giudiziale del tutto sganciata dalla sussistenza di una possibile incisione negativa della loro sfera giuridica che, per le ragioni innanzi esposte, può predicarsi solo rispetto ad un esito negativo dei procedimenti autorizzativi e solo laddove ciò consegua al cattivo esercizio del potere da parte dell’amministrazione procedente.

1.18. Ad avviso del Collegio, inoltre, l’eventuale mutamento della classificazione di un’area, in precedenza non qualificata come non idonea, non è ex se atto a condizionare, in maniera indefettibile e in senso sicuramente negativo, l’iter procedimentale di autorizzazione all’installazione e all’esercizio di impianti FER.

Pertanto, neppure la mancata previsione di un regime transitorio di salvaguardia delle iniziative in corso vale a dimostrare che le previsioni del gravato decreto ministeriale possano arrecare alle società ricorrenti il pregiudizio dalle stesse paventato.

1.19. Il Collegio ritiene che l’iniziativa giudiziale promossa dalle società ricorrenti sia sguarnita del necessario interesse a ricorrere anche in relazione alle censure tese a contestare le previsioni del d.m del 21 giugno 2024 con le quali sono stati fissati i criteri per la individuazione delle aree idonee ed è stata concessa alle Regioni la mera facoltà di far salve le aree considerate idonee ope legis ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.lgs. n. 199/2021.

In proposito, è sufficiente rinviare alle considerazioni già espresse in precedenza in quanto, anche in relazione a tali censure, l’interesse a ricorrere potrebbe dirsi sussistente solo nel caso in cui le gravate prescrizioni sulle “aree idonee” fossero tali da arrecare, ex se e immediatamente, un pregiudizio alla società ricorrente.

La possibilità di lesione prospettata dalle società ricorrenti, infatti, non è riscontrabile ex ante in un’ottica prognostica, in quanto l’effetto giuridico discendente dalla qualificazione di una superficie come “area idonea” alla realizzazione ed esercizio di un impianto FER è essenzialmente limitato al solo riconoscimento di un vantaggio procedimentale.

Pertanto, le società ricorrenti non possiedono il necessario interesse ad azionare in giudizio una posizione giuridica sostanzialmente consistente nell’interesse a non vedersi aggravato l’iter procedimentale di autorizzazione (laddove, in futuro, si determinino a presentare la dovuta istanza all’amministrazione), a che venga mantenuto il precedente impianto normativo e a che vengano considerate come “aree idonee” ex lege, superfici che tali sono state considerate dal legislatore, expressis verbis, solo “nelle more dell’individuazione delle aree idonee sulla base dei criteri e delle modalità stabiliti dai decreti di cui al comma 1 [dell’articolo 20 del d.lgs. n. 199/2021, n.d.r.]”.

1.19.1. Al pari di quanto rilevato in relazione alle gravate previsioni sulle “aree non idonee”, anche con riferimento a questo ulteriore gruppo di censure proposte dalle società ricorrenti, non risulta che le amministrazioni resistenti abbiano dettato prescrizioni cogenti e introdotto divieti assoluti e aprioristici, dalla cui applicazione discenda con assoluta certezza la radicale preclusione alla realizzazione, miglioria ed esercizio di impianti FER.

In definitiva, non venendo in rilievo prescrizioni suscettibili di impedire alle società ricorrenti, in via immediata e diretta, lo svolgimento della propria attività di produzione di energia da fonti rinnovabili, deve ritenersi insussistente l’interesse processuale richiesto dalla legge per conseguire l’annullamento giudiziale del gravato decreto ministeriale.

1.19.2. A ben vedere, e fermo restando il carattere assorbente delle anzidette considerazioni, la decidibilità nel merito del presente gravame risulterebbe preclusa anche dalla natura della posizione dedotta in giudizio dalle società ricorrenti.

Infatti, ad essere stata azionata risulta essere una mera aspettativa di fatto al corretto esercizio sia della funzione amministrativa, sia della funzione legislativa delle Regioni, ossia una situazione del tutto priva della specifica connessione a un bene della vita che costituisce il proprium delle situazioni giuridiche soggettive che l’ordinamento reputa meritevoli di tutela.

1.20. La disamina dei profili sin qui esaminati risulta, ad avviso del Collegio, sufficiente a dimostrare l’insussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale delle società ricorrenti rispetto all’annullamento del d.m. del 21 giungo 2024, donde l’inammissibilità dei primi tre motivi del presente gravame.

1.20.1. Ad abundantiam, vale anche osservare che, alla luce della natura della posizione azionata, la circostanza per cui le società ricorrenti siano operatori attivi nel settore della produzione di energia da fonti rinnovabili non costituisce elemento sufficiente a rendere differenziate e normativamente qualificate le loro posizioni, le quali, pertanto, non risultano distinguibili da quella del quisque de populo.

D’altronde, anche volendo attribuire alle posizioni azionate dalle società ricorrenti la consistenza di interessi diffusi e metaindividuali, il ricorso in esame non risulterebbe decidibile nel merito per carenza di legittimazione attiva, atteso che una siffatta situazione giuridica soggettiva può essere fatta valere in giudizio esclusivamente dai soggetti giuridici statutariamente o istituzionalmente preposti a rappresentare interessi omogenei di specifiche categorie, attribuzione, questa, che esula dalla sfera giuridica del singolo individuo o, come nel caso di specie, da quella dei singoli operatori economici attivi nel mercato.

1.20.2. Ne consegue che “in sé considerata, la semplice possibilità di ricavare dall’invocata decisione di accoglimento una qualche utilità pratica, indiretta ed eventuale, ricollegabile in via meramente contingente ed occasionale al corretto esercizio della funzione pubblica censurata, non dimostra la sussistenza della posizione legittimante, nel senso che siffatto possibile vantaggio ottenibile dalla pronuncia di annullamento non risulta idoneo a determinare, da solo, il riconoscimento di una situazione differenziata, fondante la legittimazione al ricorso; occorre, invece, una ulteriore condizione-elemento che valga a differenziare il soggetto, cui essa condizione-elemento si riferisce, da coloro che avrebbero un generico interesse alla legalità dell’azione amministrativa, essendo quest’ultimo interesse riconosciuto non al quisque de populo, ma solamente a quel soggetto che si trovi, rispetto alla generalità, in una posizione legittimante differenziata” (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. n. 265 del 27 gennaio 2016).

1.20.3. Tale condizione-elemento non può essere rintracciata nell’aspirazione a una determinata configurazione del procedimento amministrativo per effetto della qualificazione attribuita all’area di localizzazione degli impianti FER, il che implica una inammissibile conformazione dei poteri pubblici per mano dei soggetti privati, strumentale ad asservire le scelte dell’amministrazione (e, nel caso di specie, anche del legislatore regionale) ad interessi di natura egoistica, slegati dalle esigenze di carattere pubblicistico, e ai desiderata, modali e metodologici, degli operatori del settore.

2. Il Collegio, per converso, ritiene che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con il quarto motivo di ricorso avverso il divieto di installazione in zone classificate agricole di impianti fotovoltaici (FTV) con moduli collocati a terra, introdotto con l’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024.

Come esposto in narrativa, le società ricorrenti hanno prospettato che siffatto divieto violi l’articolo 117, comma 1, della Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di matrice eurounitaria della massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, recepito dal legislatore nazionale già con l’articolo 12 del d.lgs. n. 387/2003 e con le linee guida ministeriali del 2010.

2.1. A riguardo, vale in via preliminare evidenziare che il legislatore nazionale ha inteso superare la previsione recata dall’articolo 12, comma 7, del d.lgs. n. 387/2003, in quanto tale disposizione normativa è stata abrogata per effetto del d.lgs. 25 novembre 2024, n. 190, recante “Disciplina dei regimi amministrativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, in attuazione dell’articolo 26, commi 4 e 5, lettera b) e d), della legge 5 agosto 2022, n. 118”.

In particolare, l’articolo 14 del d.lgs. n. 190/2024, rubricato “Disposizioni di coordinamento”, al comma 8 stabilisce che “L’installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra in zone classificate agricole dai piani urbanistici vigenti è consentita nei limiti di cui all’articolo 20, comma 1-bis, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199”.

Emerge, pertanto, in maniera netta come il legislatore, per ciò che concerne la realizzazione di impianti FTV con moduli collocati a terra in area agricola, abbia inteso superare il regime dettato dall’articolo 12, comma 7, del d.lgs. n. 387/2003, sancendo l’esclusiva applicazione del regime introdotto con l’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 e di cui le previsioni del d.m. del 21 giugno 2024 costituiscono diretta attuazione.

I. Sulla impossibilità di operare una interpretazione costituzionalmente conforme dell’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 e dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021.

3. Il Collegio non ritiene che sia possibile operare un’interpretazione conforme alla Costituzione del divieto introdotto dall’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 mediante l’inserimento del comma 1-bis all’articolo 20, del d.lgs. n. 199/2021 – e al quale nel prosieguo della trattazione si farà riferimento – tentativo questo che ai fini della rimessione alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale deve essere ragionevolmente e consapevolmente escluso (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 262/2015; in senso conforme sentenze nn. 202/2023, 139/2022, 11/2020, 189, 133 e 78/2019, 42/2017).

Infatti, se è vero che “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali […], ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 356/1996), nel caso di specie, la sola, possibile, interpretazione costituzionalmente orientata della contestata previsione normativa risulterebbe quella che considera privo di effettualità il divieto previsto dalle suddette disposizioni.

3.1. In particolare, l’impossibilità di operare un’interpretazione conforme a Costituzione della anzidetta disposizione normativa discende dal suo chiaro tenore letterale e dalla portata del divieto con essa introdotto nell’ordinamento giuridico.

Infatti, l’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, nel consentire l’installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra in zone classificate agricole dai piani urbanistici vigenti, circoscrive tale possibilità ai soli casi in cui, da un lato, l’area agricola coincida con alcune specifiche aree ritenute idonee ai sensi dell’articolo 20, comma 8, del d.lgs. n. 199/2021 – che, peraltro, ricomprendono anche le aree nelle quali sono già installati detti impianti (comma 8, lett. a), le quali possono essere interessate solo da interventi di modifica, rifacimento, potenziamento o ricostruzione, a condizione che non comportino incremento dell’area già occupata – o, dall’altro, l’intervento sia finalizzato alla creazione di una comunità energetica rinnovabile o sia correlato a progetti attuativi del PNRR o funzionali al perseguimento degli obiettivi di tale piano.

Dal tenore letterale dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 risulta, quindi, che il legislatore nel “consentire esclusivamente” l’installazione degli impianti FTV con moduli collocati a terra nelle aree agricole coincidenti con quelle innanti menzionate, ha sostanzialmente introdotto un divieto generalizzato di realizzare detti impianti su tutta la restante parte del suolo agricolo nazionale.

3.2. L’introduzione di una preclusione di tale ampiezza all’installazione di impianti FTV con moduli collocati a terra in area agricola non risulta costituzionalmente compatibile, innanzitutto perché si pone in insanabile contrasto con l’articolo 117, comma 1, della Costituzione, atteso che il contestato divieto è suscettibile di integrare una violazione dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.

In particolare, con il divieto generalizzato previsto dall’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 è stato completamente ribaltato il sistema previgente, plasmato dal principio di matrice eurounitaria della massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili (direttiva 2001/77/CE e 2009/28/CE). Tale principio, in particolare, dovrebbe trovare attuazione nella generale utilizzabilità di tutti i terreni per l’inserimento degli impianti FER, con le sole eccezioni ispirate alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti (così, ad esempio, si è espressa la Corte costituzionale relativamente agli impianti di produzione di energia eolica, Corte cost., sent. n. 224/2012).

Con il contestato divieto, viceversa, il legislatore ha specificamente individuato le aree agricole nelle quali è consentita l’installazione di impianti FTV con moduli collocati a terra e ha inibito, per la restante parte del suolo agricolo nazionale, la realizzazione di detti impianti: risulta, quindi, di piana evidenza che una siffatta preclusione violi il principio di massima diffusione di matrice eurounitaria, sottraendo in maniera ingiustificata una considerevole parte del territorio nazionale al perseguimento delle finalità sottese allo sviluppo energetico da fonti rinnovabili, in assenza di valide ragioni di tutela di specifici interessi pubblici – non potendo considerarsi tale l’invocato consumo indiscriminato del suolo – e senza che possa essere operata in concreto, nell’ambito dell’iter procedimentale di autorizzazione dell’impianto, la ponderazione con gli altri interessi confliggenti, anche di natura pubblicistica e, in parte, legati al perseguimento degli obiettivi unionali di incremento della quota di energia da fonti rinnovabili al 2030, sanciti dalla direttiva 2018/2001/UE.

3.3. Tali considerazioni pongono in evidenza anche il carattere non proporzionato della scelta legislativa, tenuto conto della ampiezza ed incisività del divieto rispetto al fine perseguito, il che corrobora l’impossibilità di addivenire ad una interpretazione costituzionalmente conforme dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021.

II. Sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 e dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021.

4. Dall’acclarata impercorribilità di un’interpretazione dell’enunciato normativo integralmente satisfattivo per le società ricorrenti deriva la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate con il terzo motivo di ricorso.

La questione di legittimità costituzionale che il Collegio intende rimettere alla Corte costituzionale con la presente ordinanza risulta, dunque, fornita di rilevanza nel presente giudizio, atteso che l’articolo 1, comma 2, lett. d), dell’impugnato d.m. del 21 giugno 2024 costituisce attuazione della disposizione normativa qui sospettata di incostituzionalità, vale a dire l’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, per le ragioni già esposte in precedenza e alle quali integralmente si rinvia.

Pertanto, dall’esito del giudizio di costituzionalità dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 dipende la legittimità del contestato divieto di cui all’articolo 1, comma 2, lett. d), del d.m. del 21 giugno 2024, nella misura solo nel caso di declaratoria di incostituzionalità della disposizione normativa primaria la previsione impugnata dalle società ricorrenti potrebbe essere annullata, con conseguente venir meno della preclusione assoluta, ad oggi vigente, alla realizzazione dei propri progetti sul suolo agricolo.

III. Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta con il IV motivo di ricorso.

5. Le società ricorrenti, come già esposto in precedenza, con il quarto motivo di ricorso hanno prospettato l’illegittimità costituzionale del divieto introdotto dall’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e, in particolare, con il principio della massima diffusione degli impianti FER, affermato dalla direttiva 2001/77/CE, dalla direttiva 2009/28/CE, nonché dalla direttiva 2018/2001/UE, in attuazione della quale è stato emanato il d.lgs. n. 199/2021. Sotto altro profilo, l’articolo 20, comma 1-bis. Del d.lgs. n. 199/2021 si porrebbe in contrasto con i principi generali dettati in materia dallo stesso legislatore statale, in attuazione delle direttive europee, e in particolare con l’articolo 12, comma 7, del d.lgs. n. 387/2003, ai sensi del quale “Gli impianti di produzione di energia elettrica, di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b) e c), possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici”, e con le Linee Guida del 2010, introdotte in attuazione del citato articolo 12, secondo le quali le zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici non possono essere genericamente considerate aree e siti non idonei e l’individuazione delle aree e dei siti non idonei non può riguardare porzioni significative del territorio.

Le società ricorrenti, inoltre, hanno anche sospettato d’incostituzionalità il divieto introdotto dall’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità discendenti dagli articoli 3 e 97 della Costituzione in combinato disposto con quanto previsto dall’articolo 15 della direttiva (UE) 2018/2001, nonché per violazione di quanto previsto dall’articolo 16-septies della direttiva (UE) 2018/2001 e dal regolamento (UE) 2022/2577.

5.1. In primo luogo, il Collegio ritiene che la disciplina censurata presenti profili di contrasto con l’articolo 117, comma 1, della Costituzione, sotto il profilo del mancato rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario” e, in particolare, del principio di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili di matrice eurounitaria.

5.2. In proposito, risulta necessario richiamare tutte le previsioni normative vigenti nell’ordinamento giuridico eurounitario e suscettibili di assumere rilievo nella materia oggetto della presente controversia, da intendersi anche quale integrazione del quadro normativo di riferimento, in uno con le previsioni nazionali già richiamate in precedenza ed analizzate dal Collegio sin dalla esposizione dei motivi di ricorso, quale condizione di ammissibilità della rimessione della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, così come introdotto dall’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024.

In particolare, devono essere presi in considerazione:

– l’articolo 3, par. 5, del TUE, a mente del quale “Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini”, di tal forma che, per questa via, l’Unione europea “Contribuisce […] allo sviluppo sostenibile della Terra”;

– l’articolo 6, par. 1, del TUE, che precisa che “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Ai sensi dell’articolo 37 della Carta, “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”;

– l’articolo 11 del TFUE che, muovendosi nella medesima direzione già tracciata dal richiamato articolo 6, par. 1, del TUE, sancisce che “Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile” (c.d. principio di integrazione);

– l’articolo 191 del TFUE, secondo il quale “La politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: – salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; – protezione della salute umana; – utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; – promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici. 2. La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio ‘chi inquina paga’”;

– l’articolo 192, par. 1, del TFUE, ai sensi del quale “Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, decidono in merito alle azioni che devono essere intraprese dall’Unione per realizzare gli obiettivi dell’articolo 191”;

– l’articolo 194 del TFUE, in forza del quale “Nel quadro dell’instaurazione o del funzionamento del mercato interno e tenendo conto dell’esigenza di preservare e migliorare l’ambiente, la politica dell’Unione nel settore dell’energia è intesa, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, a […] promuovere il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili”.

5.2.1. Protezione dell’ambiente e promozione delle c.d. energie rinnovabili costituiscono, pertanto, politiche interdipendenti.

Come si ricava dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, l’uso di fonti di energia rinnovabili per la produzione di elettricità è utile alla tutela dell’ambiente in quanto contribuisce alla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra che compaiono tra le principali cause dei cambiamenti climatici che l’Unione europea e i suoi Stati membri si sono impegnati a contrastare.

L’incremento della quota di rinnovabili costituisce, in particolare, uno degli elementi portanti del pacchetto di misure richieste per ridurre tali emissioni e conformarsi al protocollo di Kyoto, alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, nonché agli altri impegni assunti a livello comunitario e internazionale per la riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra. Ciò, peraltro, è funzionale anche alla tutela della salute e della vita delle persone e degli animali, nonché alla preservazione dei vegetali (cfr. CGUE, Grande Sezione, sentenza del 1° luglio 2014, in causa C-573/12, Ålands vindkraft AB contro Energimyndigheten, par. 78 e ss.; CGUE, sentenza del 13 marzo 2001, in causa C-379/98, PreussenElektra AG contro Schhleswag AG, par. 73 e ss.).

5.2.2. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha, peraltro, precisato che l’articolo 191 del TFUE si limita a definire gli obiettivi generali dell’Unione in materia ambientale, mentre l’articolo 192 del TFUE affida al Parlamento europeo e al Consiglio dell’Unione europea il compito di decidere le azioni da avviare al fine del raggiungimento di detti obiettivi.

Di conseguenza, l’articolo 191 del TFUE non può essere invocato in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale emanata in una materia rientrante nella politica ambientale quando non sia applicabile nessuna normativa dell’Unione adottata in base all’articolo 192 del TFUE; viceversa, l’articolo 191 del TFUE assume rilevanza allorquando esso trovi attuazione nel diritto derivato (cfr. CGUE, Sezione Terza, sentenza del 4 marzo 2015, in causa C-534/13, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare et al. contro Fipa Group srl et al., par. 39 e ss.).

5.3. Disposizioni sulla promozione dell’energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili, adottate sulla base dell’articolo 175 del TCE (ora articolo 192 del TFUE), sono state introdotte già con la direttiva 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 settembre 2001 e, successivamente, con la direttiva 2009/28/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009.

In particolare, nel preambolo della direttiva 2018/2001/UE – con la quale il legislatore sovranazionale ha proceduto alla rifusione e alla modifica delle disposizioni contenute nella direttiva 2009/28/CE – è stato inter alia considerato che:

“[…] (2) Ai sensi dell’articolo 194, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), la promozione delle forme di energia da fonti rinnovabili rappresenta uno degli obiettivi della politica energetica dell’Unione. Tale obiettivo è perseguito dalla presente direttiva. Il maggiore ricorso all’energia da fonti rinnovabili o all’energia rinnovabile costituisce una parte importante del pacchetto di misure necessarie per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e per rispettare gli impegni dell’Unione nel quadro dell’accordo di Parigi del 2015 sui cambiamenti climatici, a seguito della 21a Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici («accordo di Parigi»), e il quadro per le politiche dell’energia e del clima all’orizzonte 2030, compreso l’obiettivo vincolante dell’Unione di ridurre le emissioni di almeno il 40 % rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. L’obiettivo vincolante in materia di energie rinnovabili a livello dell’Unione per il 2030 e i contributi degli Stati membri a tale obiettivo, comprese le quote di riferimento in relazione ai rispettivi obiettivi nazionali generali per il 2020, figurano tra gli elementi di importanza fondamentale per la politica energetica e ambientale dell’Unione […].

3) Il maggiore ricorso all’energia da fonti rinnovabili può svolgere una funzione indispensabile anche nel promuovere la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, nel garantire un’energia sostenibile a prezzi accessibili, nel favorire lo sviluppo tecnologico e l’innovazione, oltre alla leadership tecnologica e industriale, offrendo nel contempo vantaggi ambientali, sociali e sanitari, come pure nel creare numerosi posti di lavoro e sviluppo regionale, specialmente nelle zone rurali ed isolate, nelle regioni o nei territori a bassa densità demografica o soggetti a parziale deindustrializzazione.

(4) In particolare, la riduzione del consumo energetico, i maggiori progressi tecnologici, gli incentivi all’uso e alla diffusione dei trasporti pubblici, il ricorso a tecnologie energeticamente efficienti e la promozione dell’utilizzo di energia rinnovabile nei settori dell’energia elettrica, del riscaldamento e del raffrescamento, così come in quello dei trasporti sono strumenti molto efficaci, assieme alle misure di efficienza energetica per ridurre le emissioni a effetto serra nell’Unione e la sua dipendenza energetica.

(5) La direttiva 2009/28/CE ha istituito un quadro normativo per la promozione dell’utilizzo di energia da fonti rinnovabili che fissa obiettivi nazionali vincolanti in termini di quota di energia rinnovabile nel consumo energetico e nel settore dei trasporti da raggiungere entro il 2020. La comunicazione della Commissione del 22 gennaio 2014, intitolata «Quadro per le politiche dell’energia e del clima per il periodo dal 2020 al 2030» ha definito un quadro per le future politiche dell’Unione nei settori dell’energia e del clima e ha promosso un’intesa comune sulle modalità per sviluppare dette politiche dopo il 2020. La Commissione ha proposto come obiettivo dell’Unione una quota di energie rinnovabili consumate nell’Unione pari ad almeno il 27 % entro il 2030. Tale proposta è stata sostenuta dal Consiglio europeo nelle conclusioni del 23 e 24 ottobre 2014, le quali indicano che gli Stati membri dovrebbero poter fissare i propri obiettivi nazionali più ambiziosi, per realizzare i contributi all’obiettivo dell’Unione per il 2030 da essi pianificati e andare oltre.

(6) Il Parlamento europeo, nelle risoluzioni del 5 febbraio 2014, «Un quadro per le politiche dell’energia e del clima all’orizzonte 2030», e del 23 giugno 2016, «I progressi compiuti nell’ambito delle energie rinnovabili», si è spinto oltre la proposta della Commissione o le conclusioni del Consiglio, sottolineando che, alla luce dell’accordo di Parigi e delle recenti riduzioni del costo delle tecnologie rinnovabili, era auspicabile essere molto più ambiziosi. […]

(8) Appare pertanto opportuno stabilire un obiettivo vincolante dell’Unione in relazione alla quota di energia da fonti rinnovabili pari almeno al 32 %. Inoltre, la Commissione dovrebbe valutare se tale obiettivo debba essere rivisto al rialzo alla luce di sostanziali riduzioni del costo della produzione di energia rinnovabile, degli impegni internazionali dell’Unione a favore della decarbonizzazione o in caso di un significativo calo del consumo energetico nell’Unione. Gli Stati membri dovrebbero stabilire il loro contributo al conseguimento di tale obiettivo nell’ambito dei rispettivi piani nazionali integrati per l’energia e il clima in applicazione del processo di governance definito nel regolamento (UE) 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio. […]

(10) Al fine di garantire il consolidamento dei risultati conseguiti ai sensi della direttiva 2009/28/CE, gli obiettivi nazionali stabiliti per il 2020 dovrebbero rappresentare il contributo minimo degli Stati membri al nuovo quadro per il 2030. In nessun caso le quote nazionali delle energie rinnovabili dovrebbero scendere al di sotto di tali contributi. […].

(11) Gli Stati membri dovrebbero adottare ulteriori misure qualora la quota di energie rinnovabili a livello di Unione non permettesse di mantenere la traiettoria dell’Unione verso l’obiettivo di almeno il 32 % di energie rinnovabili. Come stabilito nel regolamento (UE) 2018/1999, se, nel valutare i piani nazionali integrati in materia di energia e clima, ravvisa un insufficiente livello di ambizione, la Commissione può adottare misure a livello dell’Unione per assicurare il conseguimento dell’obiettivo. Se, nel valutare le relazioni intermedie nazionali integrate sull’energia e il clima, la Commissione ravvisa progressi insufficienti verso la realizzazione degli obiettivi, gli Stati membri dovrebbero applicare le misure stabilite nel regolamento (UE) 2018/1999, per colmare tale lacuna”.

5.4. Quanto affermato nei consideranda della direttiva 2018/2001/UE ha trovato poi concretizzazione normativa nelle previsioni dell’articolo 3 di tale direttiva, rubricato “Obiettivo vincolante complessivo dell’Unione per il 2030”.

Il legislatore unionale, infatti, ha previsto un obiettivo vincolante complessivo dell’Unione europea per il 2030, stabilendo che “Gli Stati membri provvedono collettivamente a far sì che la quota di energia da fonti rinnovabili nel consumo finale lordo di energia dell’Unione nel 2030 sia almeno pari al 32%. La Commissione valuta tale obiettivo al fine di presentare, entro il 2023, una proposta legislativa intesa a rialzarlo nel caso di ulteriori sostanziali riduzioni dei costi della produzione di energia rinnovabile, se risulta necessario per rispettare gli impegni internazionali dell’Unione a favore della decarbonizzazione o se il rialzo è giustificato da un significativo calo del consumo energetico nell’Unione”, con la precisazione che “Se, sulla base della valutazione delle proposte dei piani nazionali integrati per l’energia e il clima, presentati ai sensi dell’articolo 9 del regolamento (UE) 2018/1999, giunge alla conclusione che i contributi nazionali degli Stati membri sono insufficienti per conseguire collettivamente l’obiettivo vincolante complessivo dell’Unione, la Commissione segue la procedura di cui agli articoli 9 e 31 di tale regolamento”.

5.5. Il regolamento 2021/1119/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 giugno 2021, adottato in forza dell’articolo 192 del TFUE, ha poi istituito un quadro per il conseguimento della neutralità climatica, sul presupposto che:

(1) La minaccia esistenziale posta dai cambiamenti climatici richiede una maggiore ambizione e un’intensificazione dell’azione per il clima da parte dell’Unione e degli Stati membri. L’Unione si è impegnata a potenziare gli sforzi per far fronte ai cambiamenti climatici e a dare attuazione all’accordo di Parigi adottato nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici («accordo di Parigi»), guidata dai suoi principi e sulla base delle migliori conoscenze scientifiche disponibili, nel contesto dell’obiettivo a lungo termine relativo alla temperatura previsto dall’accordo di Parigi. […]

(4) Un obiettivo stabile a lungo termine è fondamentale per contribuire alla trasformazione economica e sociale, alla creazione di posti di lavoro di alta qualità, alla crescita sostenibile e al conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, ma anche per raggiungere in modo giusto, equilibrato dal punto di vista sociale, equo e in modo efficiente in termini di costi l’obiettivo a lungo termine relativo alla temperatura di cui all’accordo di Parigi. […]

(9) L’azione per il clima dell’Unione e degli Stati membri mira a tutelare le persone e il pianeta, il benessere, la prosperità, l’economia, la salute, i sistemi alimentari, l’integrità degli ecosistemi e la biodiversità contro la minaccia dei cambiamenti climatici, nel contesto dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e nel perseguimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi; mira inoltre a massimizzare la prosperità entro i limiti del pianeta, incrementare la resilienza e ridurre la vulnerabilità della società ai cambiamenti climatici. In quest’ottica, le azioni dell’Unione e degli Stati membri dovrebbero essere guidate dal principio di precauzione e dal principio «chi inquina paga», istituiti dal trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e dovrebbero anche tener conto del principio dell’efficienza energetica al primo posto e del principio del «non nuocere» del Green Deal europeo. […]

(11) Vista l’importanza della produzione e del consumo di energia per il livello di emissioni di gas a effetto serra, è indispensabile realizzare la transizione verso un sistema energetico sicuro, sostenibile e a prezzi accessibili, basato sulla diffusione delle energie rinnovabili, su un mercato interno dell’energia ben funzionante e sul miglioramento dell’efficienza energetica, riducendo nel contempo la povertà energetica. Anche la trasformazione digitale, l’innovazione tecnologica, la ricerca e lo sviluppo sono fattori importanti per conseguire l’obiettivo della neutralità climatica. […]

(20) L’Unione dovrebbe mirare a raggiungere, entro il 2050, un equilibrio all’interno dell’Unione tra le emissioni antropogeniche dalle fonti e gli assorbimenti antropogenici dai pozzi dei gas a effetto serra di tutti i settori economici e, ove opportuno, raggiungere emissioni negative in seguito. Tale obiettivo dovrebbe comprendere le emissioni e gli assorbimenti dei gas a effetto serra a livello dell’Unione regolamentati nel diritto dell’Unione. […]

(25) La transizione verso la neutralità climatica presuppone cambiamenti nell’intero spettro delle politiche e uno sforzo collettivo di tutti i settori dell’economia e della società, come evidenziato nel Green Deal europeo. Il Consiglio europeo, nelle conclusioni del 12 dicembre 2019, ha dichiarato che tutte le normative e politiche pertinenti dell’Unione devono essere coerenti con il conseguimento dell’obiettivo della neutralità climatica e contribuirvi, nel rispetto della parità di condizioni, e ha invitato la Commissione a valutare se ciò richieda un adeguamento delle norme vigenti. […]

(36) Al fine di garantire che l’Unione e gli Stati membri restino sulla buona strada per conseguire l’obiettivo della neutralità climatica e registrino progressi nell’adattamento, è opportuno che la Commissione valuti periodicamente i progressi compiuti, sulla base delle informazioni di cui al presente regolamento, comprese le informazioni presentate e comunicate a norma del regolamento (UE) 2018/1999. […] Nel caso in cui i progressi collettivi compiuti dagli Stati membri rispetto all’obiettivo della neutralità climatica o all’adattamento siano insufficienti o che le misure dell’Unione siano incoerenti con l’obiettivo della neutralità climatica o inadeguate per migliorare la capacità di adattamento, rafforzare la resilienza o ridurre la vulnerabilità, la Commissione dovrebbe adottare le misure necessarie conformemente ai trattati […]”.

5.5.1. Tale regolamento ha, quindi, sancito che “l’obiettivo vincolante della neutralità climatica nell’Unione entro il 2050, in vista dell’obiettivo a lungo termine relativo alla temperatura di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), dell’accordo di Parigi” (articolo 1), precisando altresì che per conseguire tale obiettivo “il traguardo vincolante dell’Unione in materia di clima per il 2030 consiste in una riduzione interna netta delle emissioni di gas a effetto serra (emissioni al netto degli assorbimenti) di almeno il 55 % rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030” (articolo 4).

5.5.2. Ai sensi dell’articolo 5 del regolamento 2021/1119/UE “Le istituzioni competenti dell’Unione e gli Stati membri assicurano il costante progresso nel miglioramento della capacità di adattamento, nel rafforzamento della resilienza e nella riduzione della vulnerabilità ai cambiamenti climatici in conformità dell’articolo 7 dell’accordo di Parigi”, garantendo inoltre che “le politiche in materia di adattamento nell’Unione e negli Stati membri siano coerenti, si sostengano reciprocamente, comportino benefici collaterali per le politiche settoriali e si adoperino per integrare meglio l’adattamento ai cambiamenti climatici in tutti i settori di intervento, comprese le pertinenti politiche e azioni in ambito socioeconomico e ambientale, se del caso, nonché nell’azione esterna dell’Unione”.

A tal fine, “Gli Stati membri adottano e attuano strategie e piani nazionali di adattamento, tenendo conto della strategia dell’Unione sull’adattamento ai cambiamenti climatici […] e fondati su analisi rigorose in materia di cambiamenti climatici e di vulnerabilità, sulle valutazioni dei progressi compiuti e sugli indicatori, e basandosi sulle migliori e più recenti evidenze scientifiche disponibili. Nelle loro strategie nazionali di adattamento, gli Stati membri tengono conto della particolare vulnerabilità dei pertinenti settori, tra cui l’agricoltura, e dei sistemi idrici e alimentari nonché della sicurezza alimentare, e promuovono soluzioni basate sulla natura e l’adattamento basato sugli ecosistemi. Gli Stati membri aggiornano periodicamente le strategie e includono informazioni pertinenti aggiornate nelle relazioni che sono tenuti a presentare a norma dell’articolo 19, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2018/1999”.

5.6. La direttiva (UE) 2023/2413 del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 ottobre 2023 ha introdotto, tra l’altro, disposizioni volte a modificare la direttiva (UE) 2018/2001, il regolamento (UE) 2018/1999 e la direttiva n. 98/70/CE per quanto riguarda la promozione dell’energia da fonti rinnovabili, evidenziando che:

“[…] (2) Le energie rinnovabili svolgono un ruolo fondamentale nel conseguimento di tali obiettivi, dato che il settore energetico contribuisce attualmente per oltre il 75% alle emissioni totali di gas a effetto serra nell’Unione. Riducendo tali emissioni di gas a effetto serra, le energie rinnovabili possono anche contribuire ad affrontare sfide ambientali come la perdita di biodiversità, e a ridurre l’inquinamento in linea con gli obiettivi della comunicazione della Commissione, del 12 maggio 2021, dal titolo «Un percorso verso un pianeta più sano per tutti – Piano d’azione dell’UE: Verso l’inquinamento zero per l’aria, l’acqua e il suolo». La transizione verde verso un’economia basata sulle energie da fonti rinnovabili contribuirà a conseguire gli obiettivi della decisione (UE) 2022/591 del Parlamento europeo e del Consiglio, che mira altresì a proteggere, ripristinare e migliorare lo stato dell’ambiente, mediante, tra l’altro, l’interruzione e l’inversione del processo di perdita di biodiversità. […].

(4) Il contesto generale determinato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e dagli effetti della pandemia di COVID-19 ha provocato un’impennata dei prezzi dell’energia nell’intera Unione, evidenziando in tal modo la necessità di accelerare l’efficienza energetica e accrescere l’uso delle energie da fonti rinnovabili nell’Unione. Al fine di conseguire l’obiettivo a lungo termine di un sistema energetico indipendente dai paesi terzi, l’Unione dovrebbe concentrarsi sull’accelerazione della transizione verde e sulla garanzia di una politica energetica di riduzione delle emissioni che limiti la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili e che favorisca prezzi equi e accessibili per i cittadini e le imprese dell’Unione in tutti i settori dell’economia.

(5) Il piano REPowerEU stabilito nella comunicazione della Commissione del 18 maggio 2022 («piano REPowerEU») mira a rendere l’Unione indipendente dai combustibili fossili russi ben prima del 2030. Tale comunicazione prevede l’anticipazione delle capacità eolica e solare, un aumento del tasso medio di diffusione di tale energia e capacità supplementari di energia da fonti rinnovabili entro il 2030 per adeguarsi a una maggiore produzione di combustibili rinnovabili di origine non biologica. Invita inoltre i colegislatori a valutare la possibilità di innalzare o anticipare gli obiettivi fissati per l’aumento della quota di energia rinnovabile nel mix energetico. […] Al di là di tale livello obbligatorio, gli Stati membri dovrebbero adoperarsi per conseguire collettivamente l’obiettivo complessivo dell’Unione del 45 % di energia da fonti rinnovabili, in linea con il piano REPowerEU.

(6) […] È auspicabile che gli Stati membri possano combinare diverse fonti di energia non fossili al fine di conseguire l’obiettivo dell’Unione di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 tenendo conto delle loro specifiche circostanze nazionali e della struttura delle loro forniture energetiche. Al fine di realizzare tale obiettivo, la diffusione dell’energia rinnovabile nel quadro del più elevato obiettivo generale vincolante dell’Unione dovrebbe iscriversi negli sforzi complementari di decarbonizzazione che comportano lo sviluppo di altre fonti di energia non fossili che gli Stati membri decidono di perseguire. […]

(25) Gli Stati membri dovrebbero sostenere una più rapida diffusione di progetti in materia di energia rinnovabile effettuando una mappatura coordinata per la diffusione delle energie rinnovabili e per le relative infrastrutture, in coordinamento con gli enti locali e regionali. Gli Stati membri dovrebbero individuare le zone terrestri, le superfici, le zone sotterranee, le acque interne e marine necessarie per l’installazione degli impianti di produzione di energia rinnovabile e per le relative infrastrutture al fine di apportare almeno i rispettivi contributi nazionali all’obiettivo complessivo riveduto in materia di energia da fonti rinnovabili per il 2030 di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2018/2001 e a sostegno del conseguimento dell’obiettivo della neutralità climatica entro e non oltre il 2050, in conformità del regolamento (UE) 2021/1119. […]. Gli Stati membri dovrebbero garantire che le zone in questione riflettano le rispettive traiettorie stimate e la potenza totale installata pianificata e dovrebbero individuare le zone specifiche per i diversi tipi di tecnologia di produzione di energia rinnovabile stabilite nei loro piani nazionali integrati per l’energia e il clima presentati a norma degli articoli 3 e 14 del regolamento (UE) 2018/1999. […].

(26) Gli Stati membri dovrebbero designare, come sottoinsieme di tali aree, specifiche zone terrestri (comprese superfici e sottosuperfici) e marine o delle acque interne come zone di accelerazione per le energie rinnovabili. Tali zone dovrebbero essere particolarmente adatte ai fini dello sviluppo di progetti in materia di energia rinnovabile, distinguendo tra i vari tipi di tecnologia, sulla base del fatto che la diffusione del tipo specifico di energia da fonti rinnovabili non dovrebbe comportare un impatto ambientale significativo. Nella designazione delle zone di accelerazione per le energie rinnovabili, gli Stati membri dovrebbero evitare le zone protette e prendere in considerazione piani di ripristino e opportune misure di attenuazione. Gli Stati membri dovrebbero poter designare zone di accelerazione specificamente per le energie rinnovabili per uno o più tipi di impianti di produzione di energia rinnovabile e dovrebbero indicare il tipo o i tipi di energia da fonti rinnovabili adatti a essere prodotti in tali zone di accelerazione per le energie rinnovabili. Gli Stati membri dovrebbero designare tali zone di accelerazione per le energie rinnovabili per almeno un tipo di tecnologia e decidere le dimensioni di tali zone di accelerazione per le energie rinnovabili, alla luce delle specificità e dei requisiti del tipo o dei tipi di tecnologia per la quale istituiscono zone di accelerazione per le energie rinnovabili. Così facendo, gli Stati membri dovrebbero provvedere a garantire che le dimensioni combinate di tali zone siano sostanziali e contribuiscano al conseguimento degli obiettivi di cui alla direttiva (UE) 2018/2001.

(27) L’uso polivalente dello spazio per la produzione di energia rinnovabile e per altre attività terrestri, delle acque interne e marine, come la produzione di alimenti o la protezione o il ripristino della natura, allentano i vincoli d’uso del suolo, delle acque interne e del mare. In tale contesto la pianificazione territoriale rappresenta uno strumento indispensabile con cui individuare e orientare precocemente le sinergie per l’uso del suolo, delle acque interne e del mare. Gli Stati membri dovrebbero esplorare, consentire e favorire l’uso polivalente delle zone individuate a seguito delle misure di pianificazione territoriali adottate. A tal fine, è auspicabile che gli Stati membri agevolino, ove necessario, i cambiamenti nell’uso del suolo e del mare, purché i diversi usi e attività siano compatibili tra di loro e possano coesistere. […]

(36) In considerazione della necessità di accelerare la diffusione delle energie da fonti rinnovabili, la designazione delle zone di accelerazione per le energie rinnovabili non dovrebbe impedire la realizzazione in corso e futura di progetti di energia rinnovabile in tutte le zone disponibili per tale diffusione. Questi progetti dovrebbero continuare a sottostare all’obbligo di valutazione specifica dell’impatto ambientale a norma della direttiva 2011/92/UE, ed essere soggetti alle procedure di rilascio delle autorizzazioni applicabili ai progetti in materia di energia rinnovabile situati fuori dalle zone di accelerazione per le energie rinnovabili. Per accelerare le procedure di rilascio delle autorizzazioni nella misura necessaria a conseguire l’obiettivo di energia rinnovabile stabilito nella direttiva (UE) 2018/2001, anche le procedure di rilascio delle autorizzazioni applicabili ai progetti fuori dalle zone di accelerazione per le energie rinnovabili dovrebbero essere semplificate e razionalizzate attraverso l’introduzione di scadenze massime chiare per tutte le fasi della procedura di rilascio delle autorizzazioni, comprese le valutazioni ambientali specifiche per ciascun progetto.

5.7. La direttiva (UE) 2023/2413, per tali ragioni, ha anche introdotto disposizioni in materia di mappatura delle zone necessarie per assicurare che i contributi nazionali forniti rispettino il perseguimento dell’obiettivo complessivo dell’Unione in relazione alla produzione di energia rinnovabile per il 2030. Sono state, inoltre, previste zone di accelerazione per le energie rinnovabili, nonché specifiche procedure amministrative per il rilascio delle relative autorizzazioni.

5.8. Il regolamento (UE) 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018, adottato sulla base degli articoli 192 e 194 del TFUE, costituisce la necessaria base legislativa per una governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima affidabile, inclusiva, efficace sotto il profilo dei costi, trasparente e prevedibile che garantisca il conseguimento degli obiettivi e dei traguardi a lungo termine fino al 2030, in linea con l’accordo di Parigi del 2015 sui cambiamenti climatici – derivante dalla 21ª Conferenza delle parti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – attraverso sforzi complementari, coerenti e ambiziosi da parte dell’Unione e degli Stati membri, limitando la complessità amministrativa nella materia in questione.

5.8.1. In particolare, il legislatore unionale, nel configurare un siffatto meccanismo, ha considerato che:

2) L’Unione dell’energia dovrebbe coprire cinque dimensioni: la sicurezza energetica; il mercato interno dell’energia; l’efficienza energetica; il processo di decarbonizzazione; la ricerca, l’innovazione e la competitività.

(3) L’obiettivo di un’Unione dell’energia resiliente e articolata intorno a una politica ambiziosa per il clima è di fornire ai consumatori dell’UE — comprese famiglie e imprese — energia sicura, sostenibile, competitiva e a prezzi accessibili e di promuovere la ricerca e l’innovazione attraendo investimenti; ciò richiede una radicale trasformazione del sistema energetico europeo. Tale trasformazione è inoltre strettamente connessa alla necessità di preservare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente e di promuovere l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, in particolare promuovendo l’efficienza energetica e i risparmi energetici e sviluppando nuove forme di energia rinnovabile […]

(7) L’obiettivo vincolante di riduzione interna di almeno il 40% delle emissioni di gas a effetto serra nel sistema economico entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, è stato formalmente approvato in occasione del Consiglio «Ambiente» del 6 marzo 2015, quale contributo previsto determinato a livello nazionale, dell’Unione e dei suoi Stati membri all’accordo di Parigi. L’accordo di Parigi è stato ratificato dall’Unione il 5 ottobre 2016 ed è entrato in vigore il 4 novembre 2016; sostituisce l’approccio adottato nell’ambito del protocollo di Kyoto del 1997, che è stato approvato dall’Unione mediante la decisione 2002/358/CE del Consiglio e che non sarà prorogato dopo il 2020. È opportuno aggiornare di conseguenza il sistema dell’Unione per il monitoraggio e la comunicazione delle emissioni e degli assorbimenti di gas a effetto serra.

(8) L’accordo di Parigi ha innalzato il livello di ambizione globale relativo alla mitigazione dei cambiamenti climatici e stabilisce un obiettivo a lungo termine in linea con l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura mondiale media ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e di continuare ad adoperarsi per limitare tale aumento della temperatura a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali […]

(12) Nelle conclusioni del 23 e del 24 ottobre 2014, il Consiglio europeo ha inoltre convenuto di sviluppare un sistema di governance affidabile, trasparente, privo di oneri amministrativi superflui e con una sufficiente flessibilità per gli Stati membri per contribuire a garantire che l’Unione rispetti i suoi obiettivi di politica energetica, nel pieno rispetto della libertà degli Stati membri di stabilire il proprio mix energetico […]

(18) Il principale obiettivo del meccanismo di governance dovrebbe essere pertanto quello di consentire il conseguimento degli obiettivi dell’Unione dell’energia, in particolare gli obiettivi del quadro 2030 per il clima e l’energia, nei settori della riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra, delle fonti di energia rinnovabili e dell’efficienza energetica. Tali obiettivi derivano dalla politica dell’Unione in materia di energia e dalla necessità di preservare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente e di promuovere l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, come previsto nei trattati. Nessuno di questi obiettivi, tra loro inscindibili, può essere considerato secondario rispetto all’altro. Il presente regolamento è quindi legato alla legislazione settoriale che attua gli obiettivi per il 2030 in materia di energia e di clima. Gli Stati membri devono poter scegliere in modo flessibile le politiche che meglio si adattano alle preferenze nazionali e al loro mix energetico, purché tale flessibilità sia compatibile con l’ulteriore integrazione del mercato, l’intensificazione della concorrenza, il conseguimento degli obiettivi in materia di clima ed energia e il passaggio graduale a un’economia sostenibile a basse emissioni di carbonio. […]

(36) Gli Stati membri dovrebbero elaborare strategie a lungo termine con una prospettiva di almeno 30 anni per contribuire al conseguimento degli impegni da loro assunti ai sensi dell’UNFCCC e all’accordo di Parigi, nel contesto dell’obiettivo dell’accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto dei 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e adoperarsi per limitare tale aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali nonché delle riduzioni a lungo termine delle emissioni di gas a effetto serra e dell’aumento dell’assorbimento dai pozzi in tutti i settori in linea con l’obiettivo dell’Unione […].

(56) Se l’ambizione dei piani nazionali integrati per l’energia e il clima, o dei loro aggiornamenti, fosse insufficiente per il raggiungimento collettivo degli obiettivi dell’Unione dell’energia e, nel primo periodo, in particolare per il raggiungimento degli obiettivi 2030 in materia di energia rinnovabile e di efficienza energetica, la Commissione dovrebbe adottare misure a livello unionale al fine di garantire il conseguimento collettivo di tali obiettivi e traguardi (in modo da colmare eventuali «divari di ambizione»). Qualora i progressi dell’Unione verso tali obiettivi e traguardi fossero insufficienti a garantirne il raggiungimento, la Commissione dovrebbe, oltre a formulare raccomandazioni, proporre misure ed esercitare le proprie competenze a livello di Unione oppure gli Stati membri dovrebbero adottare misure aggiuntive per garantire il raggiungimento di detti obiettivi, colmando così eventuali «divari nel raggiungimento». Tali misure dovrebbero altresì tenere conto degli sforzi pregressi dagli Stati membri per raggiungere l’obiettivo 2030 relativo all’energia rinnovabile ottenendo, nel 2020 o prima di tale anno, una quota di energia da fonti rinnovabili superiore al loro obiettivo nazionale vincolante oppure realizzando progressi rapidi verso il loro obiettivo vincolante nazionale per il 2020 o nell’attuazione del loro contributo all’obiettivo vincolante dell’Unione di almeno il 32% di energia rinnovabile nel 2030. In materia di energia rinnovabile, le misure possono includere anche contributi finanziari volontari degli Stati membri indirizzati a un meccanismo di finanziamento dell’energia rinnovabile nell’Unione gestito dalla Commissione da utilizzare per contribuire ai progetti sull’energia rinnovabile più efficienti in termini di costi in tutta l’Unione, offrendo così agli Stati membri la possibilità di contribuire al conseguimento dell’obiettivo dell’Unione al minor costo possibile. Gli obiettivi degli Stati membri in materia di rinnovabili per il 2020 dovrebbero servire come quota base di riferimento di energia rinnovabile a partire dal 2021 e dovrebbero essere mantenuti per tutto il periodo. In materia di efficienza energetica, le misure aggiuntive possono mirare soprattutto a migliorare l’efficienza di prodotti, edifici e trasporti.

(57) Gli obiettivi nazionali degli Stati membri in materia di energia rinnovabile per il 2020, di cui all’allegato I della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dovrebbero servire come punto di partenza per la loro traiettoria indicativa nazionale per il periodo dal 2021 al 2030, a meno che uno Stato membro decida volontariamente di stabilire un punto di partenza più elevato. Dovrebbero inoltre costituire, per questo periodo, una quota di riferimento obbligatoria che faccia ugualmente parte della direttiva (UE) 2018/2001. Di conseguenza, in tale periodo, la quota di energia da fonti rinnovabili del consumo finale lordo di energia di ciascuno Stato membro non dovrebbe essere inferiore alla sua quota base di riferimento.

(58) Se uno Stato membro non mantiene la quota base di riferimento misurata in un periodo di un anno, esso dovrebbe adottare, entro un anno, misure supplementari per colmare il divario rispetto allo scenario di riferimento. Qualora abbia effettivamente adottato tali misure necessarie e adempiuto al suo obbligo di colmare il divario, lo Stato membro dovrebbe essere considerato conforme ai requisiti obbligatori del suo scenario di base a partire dal momento in cui il divario in questione si è verificato, sia ai sensi del presente regolamento che della direttiva (UE) 2018/2001 […]”.

5.8.2. Il meccanismo di governance previsto dal regolamento 2018/1999/UE, nella formulazione conseguente alle modifiche apportate con l’articolo 2 della direttiva 2023/2413/UE, prevede, tra l’altro, che:

– “Entro il 31 dicembre 2019, quindi entro il 1° gennaio 2029 e successivamente ogni dieci anni, ciascuno Stato membro notifica alla Commissione un piano nazionale integrato per l’energia e il clima […]” (articolo 3, paragrafo 1);

– “Ciascuno Stato membro definisce nel suo piano nazionale integrato per l’energia e il clima i principali obiettivi, traguardi e contributi seguenti, secondo le indicazioni di cui all’allegato I, sezione A, punto 2:

a) dimensione «decarbonizzazione»: […]

2) per quanto riguarda l’energia rinnovabile:

al fine di conseguire l’obiettivo vincolante dell’Unione per la quota di energia rinnovabile per il 2030 di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2018/2001, un contributo in termini di quota dello Stato membro di energia da fonti rinnovabili nel consumo lordo di energia finale nel 2030; a partire dal 2021 tale contributo segue una traiettoria indicativa. Entro il 2022, la traiettoria indicativa raggiunge un punto di riferimento pari ad almeno il 18% dell’aumento totale della quota di energia da fonti rinnovabili tra l’obiettivo nazionale vincolante per il 2020 dello Stato membro interessato e il suo contributo all’obiettivo 2030. Entro il 2025, la traiettoria indicativa raggiunge un punto di riferimento pari ad almeno il 43% dell’aumento totale della quota di energia da fonti rinnovabili tra l’obiettivo nazionale vincolante per il 2020 dello Stato membro interessato e il suo contributo all’obiettivo 2030. Entro il 2027, la traiettoria indicativa raggiunge un punto di riferimento pari ad almeno il 65% dell’aumento totale della quota di energia da fonti rinnovabili tra l’obiettivo nazionale vincolante per il 2020 dello Stato membro interessato e il suo contributo all’obiettivo 2030.

Entro il 2030 la traiettoria indicativa deve raggiungere almeno il contributo previsto dello Stato membro. Se uno Stato membro prevede di superare il proprio obiettivo nazionale vincolante per il 2020, la sua traiettoria indicativa può iniziare al livello che si aspetta di raggiungere. Le traiettorie indicative degli Stati membri, nel loro insieme, concorrono al raggiungimento dei punti di riferimento dell’Unione nel 2022, 2025 e 2027 e all’obiettivo vincolante dell’Unione per la quota di energia rinnovabile per il 2030 di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2018/2001. Indipendentemente dal suo contributo all’obiettivo dell’Unione e dalla sua traiettoria indicativa ai fini del presente regolamento, uno Stato membro è libero di stabilire obiettivi più ambiziosi per finalità di politica nazionale” (articolo 4);

– “Nel proprio contributo alla propria quota di energia da fonti rinnovabili nel consumo finale lordo di energia del 2030 e dell’ultimo anno del periodo coperto per i piani nazionali successivi di cui all’articolo 4, lettera a), punto 2), ciascuno Stato membro tiene conto degli elementi seguenti:

a) misure previste dalla direttiva (UE) 2018/2001;

b) misure adottate per conseguire il traguardo di efficienza energetica adottato a norma della direttiva 2012/27/UE;

c) altre misure esistenti volte a promuovere l’energia rinnovabile nello Stato membro e, ove pertinente, a livello di Unione;

d) l’obiettivo nazionale vincolante 2020 di energia da fonti rinnovabili nel consumo finale lordo di energia di cui all’allegato I della direttiva (EU) 2018/2001;

e) le circostanze pertinenti che incidono sulla diffusione dell’energia rinnovabile, quali:

i) l’equa distribuzione della diffusione nell’Unione;

ii) le condizioni economiche e il potenziale, compreso il PIL pro capite;

iii) il potenziale per una diffusione delle energie rinnovabili efficace sul piano dei costi;

iv) i vincoli geografici, ambientali e naturali, compresi quelli delle zone e regioni non interconnesse;

v) il livello di interconnessione elettrica tra gli Stati membri;

vi) altre circostanze pertinenti, in particolare gli sforzi pregressi […]

2. Gli Stati membri assicurano collettivamente che la somma dei rispettivi contributi ammonti almeno all’obiettivo vincolante dell’Unione per la quota di energia da fonti rinnovabili per il 2030 di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2018/2001” (articolo 5);

– “[…] 3. Se nel settore dell’energia rinnovabile, in base alla valutazione di cui all’articolo 29, paragrafi 1 e 2, la Commissione conclude che uno o più punti di riferimento della traiettoria indicativa unionale per il 2022, 2025 e 2027, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, non sono stati raggiunti, gli Stati membri che nel 2022, 2025 e 2027 sono al di sotto di uno o più dei rispettivi punti di riferimento nazionali di cui all’articolo 4, lettera a), punto 2, provvedono all’attuazione di misure supplementari entro un anno dal ricevimento della valutazione della Commissione, volte a colmare il divario rispetto al punto di riferimento nazionale, quali:

a) misure nazionali volte ad aumentare la diffusione dell’energia rinnovabile;

b) l’adeguamento della quota di energia da fonti rinnovabili nel settore del riscaldamento e raffreddamento di cui all’articolo 23, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2018/2001;

c) l’adeguamento della quota di energia da fonti rinnovabili nel settore dei trasporti di cui all’articolo 25, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2018/2001;

d) un pagamento finanziario volontario al meccanismo di finanziamento dell’Unione per l’energia rinnovabile istituito a livello unionale per contribuire a progetti in materia di energia da fonti rinnovabili gestiti direttamente o indirettamente dalla Commissione, come indicato all’articolo 33;

e) l’utilizzo dei meccanismi di cooperazione previsti dalla direttiva (UE) 2018/2001 […]” (articolo 32).

5.9. Come già esposto in precedenza, il d.lgs. n. 199/2021 costituisce “Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili” e si pone “l’obiettivo di accelerare il percorso di crescita sostenibile del Paese, recando disposizioni in materia di energia da fonti rinnovabili, in coerenza con gli obiettivi europei di decarbonizzazione del sistema energetico al 2030 e di completa decarbonizzazione al 2050”, definendo “gli strumenti, i meccanismi, gli incentivi e il quadro istituzionale, finanziario e giuridico, necessari per il raggiungimento degli obiettivi di incremento della quota di energia da fonti rinnovabili al 2030, in attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 e nel rispetto dei criteri fissati dalla legge 22 aprile 2021, n. 53” (articolo 1, commi 1 e 2).

In vista del perseguimento di tali finalità, il d.lgs. n. 199/2021 reca “disposizioni necessarie all’attuazione delle misure del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (di seguito anche: PNRR) in materia di energia da fonti rinnovabili, conformemente al Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (di seguito anche: PNIEC), con la finalità di individuare un insieme di misure e strumenti coordinati, già orientati all’aggiornamento degli obiettivi nazionali da stabilire ai sensi del Regolamento (UE) n. 2021/1119, con il quale si prevede, per l’Unione europea, un obiettivo vincolante di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 percento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030” (articolo 1, comma 3).

5.10. Come ripetutamente rilevato dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., ex multis, Corte cost. sentenze nn. 121/2022, 77/2022, 106/2020, 286/2019, 69/2018, 13/2014 e 44/2011), la normativa eurounitaria (nonché quella nazionale) è ispirata nel suo insieme al principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, che tra l’altro “trova attuazione nella generale utilizzabilità di tutti i terreni per l’inserimento di tali impianti, con le eccezioni […] ispirate alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti” (cfr., in particolare, Corte cost., sentenza n. 13/2014).

5.11. La disciplina originariamente contenuta nell’articolo 20 del d.lgs. n. 199/2021, relativa all’individuazione delle aree idonee e non idonee all’installazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, non prevedeva alcun divieto generalizzato rispetto alla realizzazione di impianti FER su terreni classificati come agricoli dai vigenti piani urbanistici.

L’articolo 20, comma 3, di tale decreto, in effetti, stabilisce che “nella definizione della disciplina inerente le aree idonee, i decreti di cui al comma 1, tengono conto delle esigenze di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualità dell’aria e dei corpi idrici, privilegiando l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, nonché di aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica, e verificando l’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili”.

Tale disposizione, pur prendendo espressamente in considerazione l’esigenza di approntare tutela alle aree agricole, da un lato non pone alcuna preclusione assoluta all’installazione di impianti FER su tale tipologia di siti e, dall’altro, stabilisce chiaramente che le superfici agricole non utilizzabili costituiscono, tra le altre, aree privilegiate per l’installazione degli impianti FER.

L’articolo 20, comma 7, del d.lgs. n. 199/2021, inoltre, prevede che “Le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee”.

Il successivo comma 8, poi, nell’individuare transitoriamente le aree ritenute idonee alla installazione di impianti FER, stabilisce quanto segue “fatto salvo quanto previsto alle lettere a), b), c), c-bis) e c-ter), le aree che non sono ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, incluse le zone gravate da usi civici di cui all’articolo 142, comma 1, lettera h), del medesimo decreto, né ricadono nella fascia di rispetto dei beni sottoposti a tutela ai sensi della parte seconda oppure dell’articolo 136 del medesimo decreto legislativo”.

5.12. L’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 ha, di contro, determinato un radicale mutamento di regime rispetto all’assetto previgente, prevedendo che “L’installazione degli impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra, in zone classificate agricole dai piani urbanistici vigenti, è consentita esclusivamente nelle aree di cui alle lettere a), limitatamente agli interventi per modifica, rifacimento, potenziamento o integrale ricostruzione degli impianti già installati, a condizione che non comportino incremento dell’area occupata, c), incluse le cave già oggetto di ripristino ambientale e quelle con piano di coltivazione terminato ancora non ripristinate, nonché le discariche o i lotti di discarica chiusi ovvero ripristinati, c-bis), c-bis.1) e c-ter, numeri 2) e 3), del comma 8 del presente articolo. Il primo periodo non si applica nel caso di progetti che prevedano impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra finalizzati alla costituzione di una comunità energetica rinnovabile ai sensi dell’articolo 31 del presente decreto nonché in caso di progetti attuativi delle altre misure di investimento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato con decisione del Consiglio ECOFIN del 13 luglio 2021, come modificato con decisione del Consiglio ECOFIN dell’8 dicembre 2023, e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR (PNC) di cui all’articolo 1 del decreto-legge 6 maggio 2021, n. 59, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° luglio 2021, n. 101, ovvero di progetti necessari per il conseguimento degli obiettivi del PNRR”.

5.13. Pertanto, successivamente alle modifiche introdotte nel d.lgs. n. 199/2021 ad opera dell’articolo 5, comma 1, del d.-l. n. 63/2024, gli impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra possono essere realizzati soltanto:

a) nei siti ove sono già installati impianti della stessa fonte, nei limiti degli interventi di modifica, rifacimento, potenziamento o ricostruzione, senza incremento dell’area occupata;

b) presso cave e miniere cessate, non recuperate o abbandonate o in condizioni di degrado ambientale, o le porzioni di cave e miniere non suscettibili di ulteriore sfruttamento;

c) presso i siti e gli impianti nelle disponibilità delle società del gruppo Ferrovie dello Stato italiane e dei gestori di infrastrutture ferroviarie nonché delle società concessionarie autostradali;

d) presso i siti e gli impianti nella disponibilità delle società di gestione aeroportuale all’interno dei sedimi aeroportuali;

e) nelle aree interne agli impianti industriali e agli stabilimenti e in quelle classificate agricole racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 500 metri dal medesimo impianto o stabilimento;

f) nelle aree adiacenti alla rete autostradale entro una distanza non superiore a 300 metri.

5.14. Dalla richiamata elencazione si desume che, in sostanza, sulla generalità dei terreni classificati agricoli (pari a circa la metà della superficie del territorio italiano) risulta preclusa la realizzazione di qualsiasi intervento di installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra, residuando, di fatto, unicamente la possibilità di realizzare interventi consistenti nel mero rifacimento/modifica/ricostruzione di impianti già esistenti, sempre che ciò non comporti consumo di ulteriore terreno agricolo.

5.15. Se è vero che il divieto introdotto dall’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 non riguarda i progetti attuativi di misure finanziate con il PNRR o il PNC, è pur vero che detti progetti non comprendono, né esauriscono, tutti quelli necessari al raggiungimento dei target previsti dal PNIEC, che rappresenta lo strumento previsto dalla normativa eurounitaria per il conseguimento degli obiettivi vincolanti fissati dall’Unione europea in relazione alla quota di energia rinnovabile che deve essere assicurata dai singoli Stati membri nel contesto dell’Unione dell’energia.

Già tale circostanza evidenzia come la previsione di un divieto di portata pari a quella stabilita dalla disposizione normativa sospettata di incostituzionalità rischi di mettere seriamente in pericolo il conseguimento degli obiettivi energetici unionali.

L’applicazione di un siffatto divieto, invero, si appalesa suscettibile di sottrarre una larga porzione del territorio agricolo nazionale a ogni possibile utilizzo della tecnologia fotovoltaica, senza che siano prevedibili e siano stati vagliati i potenziali effetti sul rispetto delle traiettorie stabilite in sede unionale in merito alla quota di energia da fonti rinnovabili che deve essere assicurata dall’Italia.

Oltretutto, in considerazione dello stato di attuazione della disciplina dettata dall’articolo 20, comma 1, del d.lgs. n. 199/2021, nonché degli ampi margini di flessibilità che il decreto ministeriale del 21 giugno 2024 lascia alle Regioni per l’individuazione delle aree non idonee, l’impatto del divieto in questione risulta del tutto incerto e, in ogni caso, si risolve in un severo limite all’individuazione delle zone disponibili per l’installazione degli impianti FER che, in base a quanto previsto dall’articolo 15-ter, par. 1, secondo periodo, della direttiva 2018/2001/UE, devono essere commisurate “alle traiettorie stimate e alla potenza totale installata pianificata delle tecnologie per le energie rinnovabili stabilite nei piani nazionali per l’energia e il clima presentati a norma degli articoli 3 e 14 del regolamento (UE) 2018/1999”.

5.16. Peraltro, si è già avuto modo di porre in evidenza che, in forza dell’articolo 32 del regolamento 2018/1999/UE, laddove la Commissione europea ritenga che uno o più punti di riferimento della traiettoria indicativa unionale per il 2022, 2025 e 2027 non siano stati raggiunti, gli Stati membri che nel 2022, 2025 e 2027 risultino al di sotto di uno o più dei rispettivi punti di riferimento nazionali, saranno interessati dall’esercizio degli specifici poteri della Commissione europea.

Tali Stati, in particolare, entro un anno dalla valutazione della Commissione europea saranno tenuti ad adottare misure supplementari (articolo 32, paragrafo 3, del regolamento 2018/1999/UE), tra le quali è incluso anche il pagamento finanziario volontario al meccanismo di finanziamento dell’Unione per l’energia rinnovabile istituito a livello unionale per contribuire a progetti in materia di energia da fonti rinnovabili gestiti direttamente o indirettamente dalla Commissione.

La sottrazione indiscriminata di larga parte del territorio nazionale all’utilizzo della tecnologia fotovoltaica con moduli collocati a terra, laddove si risolva in un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi dell’Unione dell’energia, potrebbe far sorgere in capo allo Stato italiano l’obbligo di adottare misure supplementari, il cui impatto sulle finanze pubbliche potrebbe non essere trascurabile.

Giova, inoltre, evidenziare che la mera adozione delle misure supplementari richieste dalla Commissione europea potrebbe non essere sufficiente a riallineare lo Stato italiano sulle traiettorie unionali in tema di energia rinnovabile, come risulta dall’articolo 32, paragrafo 2, secondo capoverso, del regolamento 2018/1999/UE, a mente del quale “Qualora le misure nazionali risultino insufficienti, la Commissione, se opportuno, propone misure ed esercita i propri poteri a livello unionale in aggiunta a tali raccomandazioni al fine di assicurare, in particolare, il conseguimento del traguardo dell’Unione al 2030 sul versante dell’energia rinnovabile”.

5.17. Il divieto introdotto dall’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, inoltre, appare porsi anche in contrasto con un ulteriore principio di matrice unionale.

In particolare, nell’ambito del processo di individuazione delle zone necessarie per i contributi nazionali all’obiettivo complessivo dell’Unione al 2030 sul versante dell’energia rinnovabile, viene in rilievo il disposto di cui all’articolo 15-ter della direttiva 2018/2001/UE, a mente del quale “Gli Stati membri favoriscono l’uso polivalente delle zone di cui al paragrafo 1. I progetti in materia di energia rinnovabile sono compatibili con gli usi preesistenti di tali zone” (articolo 15-ter, paragrafo 3).

Come già rilevato in precedenza, il considerando 27 di tale direttiva precisa che “Gli Stati membri dovrebbero esplorare, consentire e favorire l’uso polivalente delle zone individuate a seguito delle misure di pianificazione territoriali adottate. A tal fine, è auspicabile che gli Stati membri agevolino, ove necessario, i cambiamenti nell’uso del suolo e del mare, purché i diversi usi e attività siano compatibili tra di loro e possano coesistere”.

Il divieto introdotto dalla disposizione normativa sospettata di incostituzionalità nell’ambito del presente giudizio istituisce, invece, un insanabile conflitto tra l’utilizzo della tecnologia fotovoltaica con moduli collocati a terra e l’uso del suolo a fini agricoli che il legislatore ha risolto in radice, vietando in maniera generalizzata l’installazione in area agricola degli impianti FTV caratterizzati da tale tecnologia.

5.18. Ad avviso del Collegio, il divieto in questione, nella misura in cui è suscettibile di ostacolare il raggiungimento degli obiettivi di potenza installata delle tecnologie per le energie rinnovabili, si pone anche in posizione critica rispetto alla strategia di adattamento ai cambiamenti climatici dell’Unione europea.

Come precedentemente ricordato, ai sensi dell’articolo 5 del regolamento 2021/1119/UE “Le istituzioni competenti dell’Unione e gli Stati membri assicurano il costante progresso nel miglioramento della capacità di adattamento, nel rafforzamento della resilienza e nella riduzione della vulnerabilità ai cambiamenti climatici in conformità dell’articolo 7 dell’accordo di Parigi”. Tali istituzioni, inoltre, “garantiscono […] che le politiche in materia di adattamento nell’Unione e negli Stati membri siano coerenti, si sostengano reciprocamente, comportino benefici collaterali per le politiche settoriali e si adoperino per integrare meglio l’adattamento ai cambiamenti climatici in tutti i settori di intervento, comprese le pertinenti politiche e azioni in ambito socioeconomico e ambientale, se del caso, nonché nell’azione esterna dell’Unione”.

5.18.1. In proposito, giova rilevare che la Commissione europea, con la Comunicazione COM(2021)82 final, relativa alla nuova Strategia dell’Unione europea per l’adattamento ai cambiamenti climatici, ha affermato che “Il Green Deal europeo, la strategia di crescita dell’UE per un futuro sostenibile, si basa sulla consapevolezza che la trasformazione verde è un’opportunità e che la mancata azione ha un costo enorme. Con esso l’UE ha mostrato la propria leadership per scongiurare lo scenario peggiore — impegnandosi a raggiungere la neutralità climatica — e prepararsi al meglio — puntando ad azioni di adattamento più ambiziose che si fondano sulla strategia dell’UE di adattamento del 2013. La visione a lungo termine prevede che nel 2050 l’UE sarà una società resiliente ai cambiamenti climatici, del tutto adeguata agli inevitabili impatti dei cambiamenti climatici. Ciò significa che entro il 2050, anno in cui l’Unione aspira ad aver raggiunto la neutralità climatica, avremo rafforzato la capacità di adattamento e ridotto al minimo la vulnerabilità agli effetti dei cambiamenti climatici, in linea con l’accordo di Parigi e con la proposta di legge europea sul clima”.

Il raggiungimento dei target di potenza installata delle tecnologie rinnovabili costituisce, all’evidenza, un elemento centrale per conseguire nel lungo termine l’obiettivo della neutralità climatica, che viene posto seriamente a rischio da una disciplina, quale quella censurata, che vieta in maniera generalizzata sulla quasi totalità del territorio agricolo nazionale l’installazione di impianti FER dotati di tecnologia fotovoltaica con pannelli collocati a terra.

5.19. Il divieto in questione, peraltro, appare anche porsi in contrasto con il principio di integrazione sancito dall’articolo 11 del TFUE e dall’articolo 37 della Carta di Nizza, sulla scorta del quale “Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”.

Come noto, l’integrazione ambientale in tutti i settori politici pertinenti (agricoltura, energia, pesca, trasporti, ecc.) è funzionale a ridurre le pressioni sull’ambiente derivanti dalle politiche e dalle attività di altri settori e per raggiungere gli obiettivi ambientali e climatici.

Il divieto introdotto dall’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 all’interno di un corpo normativo finalizzato a dare attuazione, nell’ordinamento giuridico italiano, alle previsioni della direttiva 2018/2001/UE sulla promozione dell’uso di energia da fonti rinnovabili, quale obiettivo della politica energetica dell’Unione europea, appare violare l’articolo 117, comma 1, della Costituzione anche per le seguenti ragioni:

– si inserisce nel complesso delle previsioni dell’articolo 20 del d.lgs. n. 199/2021 quale corpo tendenzialmente estraneo, tant’è che le relative previsioni non risultano neppure adeguatamente coordinate con il resto dell’articolato normativo (si consideri, ad esempio, il comma 3 del medesimo articolo 20, nella parte in cui prevede che con i decreti di cui al comma 1 si debba verificare, tra l’altro, “l’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili”);

– il divieto in parola presenta una valenza assoluta, in quanto il legislatore non ha istituito alcuna forma di possibile bilanciamento tra i contrastanti valori in gioco. In tal modo, invero, è stata sancita una insuperabile prevalenza dell’interesse alla conservazione dello stato dei luoghi dei terreni classificati come aree agricole, del tutto sganciata da una valutazione in concreto della effettiva utilizzabilità di tali aree a fini agricoli. Non può, pertanto, mancarsi di rilevare, che tale scelta legislativa risulta innesta una contraddizione interna al medesimo d.lgs. n. 199/2021, appalesandosi antitetica rispetto al perseguimento dell’obiettivo normativo per il quale lo stesso è stato emanato, dato dalla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili.

Tali ulteriori considerazioni rafforzano, ad avviso del Collegio, il sospetto di incostituzionalità dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, avvalorando come l’introduzione del contestato divieto si ponga in contrasto con la cornice normativa europa in materia di Unione dell’energia.

6. Il Collegio ritiene, inoltre, che il divieto introdotto dall’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 appaia anche porsi in contrasto con il principio di proporzionalità discendente dall’articolo 3 della Costituzione, anche tenuto conto, stante le specificità della fattispecie in esame, di quanto previsto dagli articoli 15 (nella parte che stabilisce che le disposizioni normative nazionali che regolano le procedure di autorizzazione degli impianti FER debbano essere proporzionate, necessarie e contribuire all’attuazione del principio di priorità della efficienza energetica) e 16-septies (nella parte in cui si prevede che nelle procedure di rilascio delle autorizzazioni, gli impianti FER sono considerati di interesse pubblico prevalente) della direttiva (UE) 2018/2001.

6.1. In proposito, occorre innanzitutto porre in evidenza che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha più volte ribadito che “il principio di proporzionalità è un principio generale del diritto comunitario che dev’essere rispettato tanto dal legislatore comunitario quanto dai legislatori e dai giudici nazionali” (cfr. CGUE, Sezione Quinta, sentenza dell’11 giugno 2009, in causa C-170/08, H. J. Nijemeisland contro Minister van Landbouw, Natuur en Voedselkwaliteit, par. 41).

Il sindacato di proporzionalità costituisce, inoltre, un aspetto del controllo di ragionevolezza delle leggi condotto dalla giurisprudenza costituzionale, onde verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale.

Come la stessa Corte costituzionale ha già avuto modo di precisare “Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri, richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi” (cfr. Corte cost., sent. n. 1/2014).

6.2. Giova, poi, evidenziare che la misura censurata consiste in un divieto generalizzato e sostanzialmente assoluto all’utilizzo, su un’ampia parte del territorio nazionale, di una determinata tecnologia di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.

Si tratta di una soluzione del tutto diversa rispetto a quella adottata in funzione di tutela di tutti gli altri valori che entrano in bilanciamento con il principio di massima diffusione delle fonti rinnovabili: le esigenze di tutela dell’ambiente, della biodiversità, dei beni culturali e del paesaggio passa, infatti, attraverso l’individuazione di aree non idonee che, come in precedenza chiarito, non rappresentano aree vietate, bensì zone in cui, in ragione delle esigenze di protezione in concreto esistenti, è altamente verosimile che si approdi a un esito negativo dell’iter di autorizzazione, relativamente alla valutazione di compatibilità ambientale dei progetti che interessano tali aree.

Ciò, peraltro, non osta alla possibilità di verificare, in concreto e nell’ambito dei singoli procedimenti autorizzativi, l’effettiva compatibilità degli interventi proposti con gli ulteriori e confliggenti interessi pubblici.

Di contro, l’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, introduce un divieto di tale portata che risulta preclusa in radice la possibilità, per le amministrazioni procedenti, di operare un bilanciamento tra i contrapposti interessi in giuoco. Infatti, risulta già stata affermata a monte, da parte del legislatore, la prevalenza assoluta e incondizionata dell’interesse alla conservazione dei suoli classificati agricoli, rispetto alla possibile funzionalizzazione degli stessi al soddisfacimento delle esigenze energetiche correlate con gli obiettivi assunti dall’Italia a livello unionale.

6.3. Il contestato divieto trova applicazione a partire dalla mera classificazione di un’area come agricola in base ai piani urbanistici, senza che alcuna rilevanza possa a tal fine assumere il suo utilizzo, concreto o potenziale, a fini agricoli.

Anche per tale ragione la disposizione normativa in questione sembra caratterizzata da irragionevolezza e non proporzionalità, atteso che la dichiarata finalità di contrastare il consumo di suolo agricolo non è riscontrabile (o quantomeno non nei termini incondizionati e assoluti previsti da tale norma) in relazione alle superfici agricole non utilizzabili o degradate.

Manca, inoltre, qualsivoglia considerazione della qualità e dell’importanza delle colture eventualmente praticate sui suoli interdetti all’installazione degli impianti FTV con moduli collocati a terra.

6.4. Vale, poi, richiamare quanto previsto nelle Linee Guida di cui al d.m. del 10 settembre 2010, in base alle quali:

– le zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici non possono essere genericamente considerate aree e siti non idonei;

– l’individuazione delle aree e dei siti non idonei non può riguardare porzioni significative del territorio o zone genericamente soggette a tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, né tradursi nell’identificazione di fasce di rispetto di dimensioni non giustificate da specifiche e motivate esigenze di tutela. La tutela di tali interessi è infatti salvaguardata dalle norme statali e regionali in vigore ed affidate nei casi previsti, alle amministrazioni centrali e periferiche, alle Regioni, agli enti locali ed alle autonomie funzionali all’uopo preposte, che sono tenute a garantirla all’interno del procedimento unico e della procedura di Valutazione dell’Impatto Ambientale nei casi previsti;

– le Regioni possono procedere ad indicare come aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti le aree particolarmente sensibili e/o vulnerabili alle trasformazioni territoriali o del paesaggio, tra cui le aree agricole interessate da produzioni agricolo-alimentari di qualità (produzioni biologiche, produzioni D.O.P., I.G.P., S.T.G., D.O.C., D.O.C.G., produzioni tradizionali) e/o di particolare pregio rispetto al contesto paesaggisticoculturale, anche con riferimento alle aree, se previste dalla programmazione regionale, caratterizzate da un’elevata capacità d’uso del suolo.

6.5. Siffatte previsioni si pongono nel solco delle indicazioni emergenti in sede europea, per cui “Gli Stati membri dovrebbero limitare al minimo necessario le zone di esclusione in cui non può essere sviluppata l’energia rinnovabile («zone di esclusione»). Essi dovrebbero fornire informazioni chiare e trasparenti, corredate di una giustificazione motivata, sulle restrizioni dovute alla distanza dagli abitati e dalle zone dell’aeronautica militare o civile. Le restrizioni dovrebbero essere basate su dati concreti e concepite in modo da rispondere allo scopo perseguito massimizzando la disponibilità di spazio per lo sviluppo dei progetti di energia rinnovabile, tenuto conto degli altri vincoli di pianificazione territoriale” (cfr. la Raccomandazione (UE) 2024/1343 della Commissione del 13 maggio 2024 sull’accelerazione delle procedure autorizzative per l’energia da fonti rinnovabili e i progetti infrastrutturali correlati).

La disciplina posta dall’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 e poi confluita nell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021 si traduce, invece, nell’esatto opposto, ponendo un divieto che massimizza le zone di esclusione, che non risulta fondato su dati concreti e che appare porsi in patente contrasto con l’obietto di massimizzazione della disponibilità di spazio per lo sviluppo dei progetti correlati con la produzione di energia da fonte rinnovabile.

6.6. Il contestato deficit di proporzionalità della misura introdotta dall’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024, peraltro, risulta avvalorato dal fatto che il divieto in questione impedisce di considerare di interesse pubblico prevalente gli impianti FTV con pannelli collocati a terra da realizzare in area agricola, senza che per tale tipologia di area sia stata prevista la non applicazione dell’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 190/2024 secondo le modalità, provvedimentali e procedurali, previste dall’articolo 3, comma 2, del d.lgs. n. 190/2024.

IV. Sulla non rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate con il quinto motivo di ricorso.

7. Le società ricorrenti, con il quinto motivo di ricorso, hanno prospettato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 per violazione degli articoli 10, 41 e 117 della Costituzione in relazione all’articolo 1 del Protocollo addizionale n. 1 della CEDU e per violazione del principio del legittimo affidamento.

Ad avviso del Collegio la questione prospettata dalle società ricorrenti non risulta rilevante nel caso di specie in quanto dette società non hanno dimostrato in giudizio di avere effettivamente acquisito la proprietà dei terreni agricoli sui quali realizzare i propri progetti. Le stesse, infatti, si sono solo limitate, da un lato, ad affermare di essere “titolari di impianti in via di autorizzazione (in larga parte agrivoltaici) con procedimenti ancora pendenti” (cfr. pag. 4 del ricorso) e, dall’altro, a produrre i contratti preliminari di compravendita di terreni agricoli da parte della Elements Green Artemide S.r.l., stipulati in data 1° agosto 2024 e registrati in data 7 agosto 2024, ma soggetti alla condizione risolutiva dell’esercizio del diritto di prelazione da parte dei coltivatori diretti proprietari di terreni agricoli confinanti, come risulta dalla nota di trascrizione del 12 agosto 2024, pure versata in atti.

Le società ricorrenti, ivi inclusa la Elements Green Artemide S.r.l., non hanno depositato in atti i contratti di compravendita degli immobili interessati dalla realizzazione degli impianti FER di cui assumono essere titolari, onere dimostrativo su di esse incombenti in virtù del principio di vicinanza della prova che concorre a delineare l’assetto giuridico inerente alla distribuzione degli oneri probatori nel processo amministrativo, scolpito dall’articolo 64 c.p.a., in base al quale il soggetto gravato dall’onere dimostrativo è quello nella cui sfera giuridica si riferisce o, comunque, è più prossimo il fatto da provare (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 9877 del 9 dicembre 2024; Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 2187 del 5 marzo 2024).

7.1. Per le medesime ragioni, risulta non rilevante anche la questione di legittimità costituzionale per lesione del principio del legittimo affidamento, vieppiù con riguardo alla società Green Elements Artemide a r.l., atteso che i soprarichiamati contratti preliminari di compravendita dei terreni agricoli sono stati stipulati successivamente alla entrata in vigore del contestato divieto normativo.

V. Sulla manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale prospettate con il sesto motivo di ricorso.

8. Il Collegio ritiene, invece, che sia manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 per violazione degli articoli 3, 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”), nonché del protocollo n. 27 sul mercato interno e la concorrenza (sesto motivo di ricorso) – peraltro, il riferimento all’articolo 3 TFUE non risulta corretto, essendo il parametro di riferimento rilevante ai fini della questione di legittimità costituzionale prospettata dalle società ricorrenti l’articolo 3, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea, che fa riferimento alla instaurazione di un “mercato interno” e allo sviluppo sostenibile dell’Europa basato anche “su un’economia di mercato fortemente competitiva”, espressamente richiamato anche dall’invocato protocollo n. 27 sul mercato interno e sulla concorrenza, nella parte in cui si afferma che “il mercato interno ai sensi dell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata” –.

In proposito, vale innanzitutto evidenziare che gli articoli 101 e 102 TFUE dettano la disciplina eurounitaria di difesa della concorrenza dalle condotte, unilaterali o coordinate, di impresa. Una siffatta disciplina, quindi, non è suscettibile di trovare applicazione nelle ipotesi in cui una eventuale restrizione della concorrenza nel mercato unico sia direttamente riconducibile a misure statali di carattere amministrativo o normativo, che si situano fuori dall’ambito oggettivo di applicazione degli articoli 101 e 102 TFUE.

Ciò, invero, si ricava direttamente dagli arresti giurisprudenziali della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che spinta dall’esigenza di dare piena attuazione ai suddetti precetti in ossequio al principio dell’effetto utile del diritto unionale (cfr. CGUE, sentenza del 6 ottobre 1970, in causa C-9/70, Franz Grad c. Finanzamt Traunstein, in Racc. 1970/825; CGUE, sentenza del 22 settembre 1988, in causa C-187/87, Saarland et al. c. Ministre de l’Industrie, des P et T et du Tourisme et al., par. 19, in Racc. 1988/5013; CGUE, sentenza del 14 ottobre 1999, in causa C-223/98, Adidas AG, par. 24, in Racc. 1999/I/7081), ha sì coniato in via pretoria un parametro di legittimità ad hoc per valutare la compatibilità delle misure statali con il diritto antitrust di rango unionale (cfr., in particolare, CGUE, sentenza del 10 gennaio 1985, in causa C-229/83, Association des Centres distributeurs Édouard Leclerc at al. c. Sàrl “Au blé vert” et al., par. 20, in Racc. 1985/1; CGUE, sentenza del 21 settembre 1988, in causa C-267/86, Pascal Van Eycke c. Aspa SA, par. 20, in Racc. 1988/4769) – costituito dal combinato disposto degli articoli 85, 86 (corrispondenti ai vigenti articoli 101 e 102 TFUE), 3, par. 1, lett. f) (che fissava l’obiettivo programmatico della creazione di un “regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno”) e 5 (che prevedeva che “Gli Stati membri si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato”) del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (“TCEE”) – ma ne ha limitato l’applicabilità alle sole situazioni nelle quali le misure statali restrittive della concorrenza siano collegate a precipue condotte anticoncorrenziali poste in essere dalle imprese (cfr. CGUE, sentenza del 17 novembre 1993, in causa C-2/91, Wolf W. Meng, par. 14, in Racc. 1993/I/5751; CGUE, sentenza del 17 novembre 1993, in causa C-185/91, Bundesanstalt für den Güterfernverkehr c. Gebr. Reiff GmbH & Co. KG., par. 14, in Racc. 1993/I/5801).

La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha, poi, ulteriormente delineato quali siano i parametri valutativi rilevanti ai fini dello scrutinio delle misure pubbliche ai sensi del combinato disposto degli articoli 3, 5, 85 e 86 TCEE, statuendo, in relazione a un caso correlato con la possibile realizzazione di una intesa restrittiva della concorrenza ai sensi dell’allora vigente articolo 85 TCEE (corrispondente al successivo articolo 81 TCE e al vigente articolo 101 TFUE) che “anche se, di per sé, l’art. 85 del Trattato riguarda esclusivamente la condotta delle imprese e non le disposizioni legislative o regolamentari emanate dagli Stati membri, è pur vero che detto articolo, in combinato disposto con l’art. 5 del Trattato, fa obbligo agli Stati membri di non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, che possano rendere praticamente inefficaci le regole di concorrenza applicabili alle imprese […]. Ricorre in particolare siffatta ipotesi allorquando uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l’art. 85, o rafforzi gli effetti di siffatti accordi, ovvero qualora privi la propria normativa del carattere statuale che le è proprio, demandando la responsabilità di adottare decisioni d’intervento in materia economica ad operatori privati […]” (cfr. CGUE, sentenza del 18 giugno 1998, in causa C-35/96, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana, parr. 53-54, in Racc. 1998/I/3851).

Considerato che il contestato divieto contenuto nell’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 non impone, né agevola, la commissione di condotte, unilaterali o coordinate, d’impresa restrittive della concorrenza, non risulta che tale misura statale costituisca una violazione, da parte dello Stato italiano, degli obblighi discendenti dal diritto eurounionale in materia di concorrenza, poiché non può predicarsi, alla luce dei parametri sovranazionali che le società ricorrenti assumono essere stati violati (sostanzialmente riconducibili al parametro pretorio individuato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nelle pronunce innanzi menzionate), che la disposizione legislativa di diritto interno di cui si tratta sia di per sé idonea a falsare la concorrenza nel mercato interno in una forma che si ponga in contrasto con il vigente assetto normativo sovranazionale e, quindi, con l’articolo 117, comma 1, della Costituzione.

8.1. Il Collegio, ad abundantiam, evidenzia che il divieto introdotto con l’articolo 5 del d.-l. n. 63/2024 neppure si ponga in contrasto con la disciplina unionale di difesa della concorrenza rivolta agli Stati membri, vale a dire con gli articoli 106 e 107 e ss. TFUE, posto che lo stesso non si risolve in una misura tesa alla concessione o al mantenimento di diritti speciali o esclusivi in favore delle imprese pubbliche, né compromette lo sviluppo degli scambi in misura contraria agli interessi dell’Unione europea in relazione alla posizione delle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale, né infine costituisce un aiuto di stato incompatibile con il mercato interno.

8.2. Il Collegio, infine, ritiene che il contestato divieto neppure dia luogo ad alcuna discriminazione degli operatori economici italiani rispetto a quelli transfrontalieri, venendo in rilievo una misura c.d. indistintamente applicabile e non essendo proibita, per effetto di tale misura, l’operatività transfrontaliera agli operatori di diritto interno che, pertanto, con riguardo alla produzione di energia da fonti rinnovabili (con particolare riferimento a quella prodotta mediante impianti fotovoltaici e agrivoltaici) risultano liberi di operare senza limitazioni, in regime di stabilimento o di libera prestazione di servizi, all’interno del mercato unico.

VI. Le questioni di costituzionalità da sottoporre alla Corte costituzionale.

9. Il Collegio, sulla scorta di tutte le considerazioni sino ad ora esposte, ritiene che siano rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale prospettate nel presente giudizio in relazione all’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, come introdotto dall’articolo 5, comma 1, del d.-l. n. 63/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101/2024. Il Collegio, in particolare, sospetta che tale disposizione normativa si ponga in contrasto con il dettato costituzionale, per aver introdotto un divieto all’installazione in area agricola di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra che appare contrario agli articoli 3, 11 e 117, comma 1, della Costituzione, anche in relazione ai principi espressi dalla direttiva (UE) 2018/2001 e dal regolamento (UE) 2018/1999, come modificati dalla direttiva (UE) 2023/2413, nonché dal regolamento (UE) 2021/1119.

9.1. Le sollevate questioni di costituzionalità vanno del pari riferite all’articolo 2, comma 2, primo periodo, del d.lgs. 25 novembre 2024, n. 190, recante “Disciplina dei regimi amministrativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili”, laddove prevede che “Gli interventi di cui all’articolo 1, comma 1, sono considerati di pubblica utilità, indifferibili e urgenti e possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, nel rispetto di quanto previsto all’articolo 20, comma 1-bis, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199”.

Tale disposizione normativa, infatti, riproduce il divieto sancito dall’art. 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021.

VII. Conclusioni.

10. In definitiva, sulla scorta delle anzidette considerazioni:

– il primo, secondo e terzo motivo di ricorso devono essere dichiarati inammissibili per carenza di interesse delle società ricorrenti a contestare la legittimità delle impugnate disposizioni del d.lgs. n. 199/2021;

– le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 5 del d.-l. n. 63/2004 prospettate con il quinto e il sesto motivo di ricorso devono essere dichiarate non rilevanti e manifestamente infondate;

– risultano, invece, rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 199/2021, come introdotto dall’articolo 5, comma 1, del d.-l. n. 63/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101/2024, per violazione degli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione, anche in relazione ai principi espressi dalla direttiva (UE) 2018/2001 e dal regolamento (UE) 2018/1999, come modificati dalla direttiva (UE) 2023/2413, nonché dal regolamento (UE) 2021/1119.

10.1. Ai sensi dell’articolo 23, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, il presente giudizio è sospeso fino alla definizione dell’incidente di costituzionalità.

10.2. Ai sensi dell’articolo 23, commi 4 e 5, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la presente sentenza sarà comunicata alle parti costituite, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata anche al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati.

10.3. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese resta riservata alla decisione definitiva del presente giudizio.

Tar Lazio- Roma, III – sentenza 11.08.2025 n. 15502

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