Responsabilità civile – Danno – Liste elettorali – Tardivo reinserimento nelle listeelettorali, niente risarcimento per il cittadino che non prova la sussistenza deldanno

Responsabilità civile – Danno – Liste elettorali – Tardivo reinserimento nelle listeelettorali, niente risarcimento per il cittadino che non prova la sussistenza deldanno

1.- Con il primo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 c.c., 112 c.p.c. e 48 Cost., per aver la Corte territoriale trascurato che la lesione del diritto di voto fosse insita nell’errore, incontroverso, commesso dall’Amministrazione comunale nell’omettere di provvedere tempestivamente al reinserimento del nominativo di esso ricorrente nelle liste degli elettori.

Egli, infatti, non sarebbe stato posto nelle condizioni di partecipare alle votazioni, che si fossero tenute tra il 1° dicembre 2014, data della cessazione della misura a suo carico, e il 26 aprile 2016, giorno in cui il reinserimento nelle liste elettorali è effettivamente avvenuto, circostanza che si era concretamente verificata in occasione del referendum del 17 aprile 2016.

Parte ricorrente assume, quindi, che il danno non patrimoniale subito si risolva automaticamente nell’impossibilità di partecipare alle votazioni, in conseguenza dell’inerzia del Comune nel provvedere a reinserirlo nelle liste degli elettori.

Sarebbe, quindi, irrilevante il mancato raggiungimento della prova in ordine al tentativo da parte di esso attore di partecipare alla tornata referendaria. Tale circostanza avrebbe potuto rilevare al più sul profilo della quantificazione del danno risarcibile, non costituendo invece fondamento della pretesa risarcitoria.

2.- Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 75 Cost. e 2043 c.c., nonché della legge del 25 maggio 1970 n. 352, per aver la Corte territoriale omesso di considerare provata la lesione del diritto di voto anche in considerazione delle peculiarità che connotano il voto referendario, alla luce del fatto che, affinché il referendum abrogativo sia approvato, è necessario il superamento di un quorum strutturale.

Il mancato raggiungimento del quorum partecipativo condurrebbe in questo caso allo stesso esito di una votazione maggioritaria in senso negativo all’abrogazione. Ciò farebbe sì che anche l’astensione debba essere considerata una forma di esercizio del diritto di voto, venendo spesso utilizzata dagli elettori come strumento per evitare il raggiungimento del quorum, dunque per evitare l’abrogazione senza passare per il voto negativo.

Pertanto, secondo il ricorrente le specificità della votazione referendaria evidenziano, in maniera ancor più netta, l’incongruenza insita nel ragionamento in base al quale la Corte ha ritenuto necessaria la prova della manifestazione della volontà di votare.

3.- Con il terzo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per non aver la Corte distrettuale valutato la mancata intenzione di andare a votare ai fini dell’eccezione, proposta in subordine dal Comune.

Il ricorrente evidenzia che il Comune convenuto aveva dedotto che, qualora fosse stato riconosciuto all’attore il risarcimento di un danno, la relativa liquidazione avrebbe dovuto risentire della circostanza che egli avesse rinunciato ad esercitare il voto, poiché il non essersi recato a votare avrebbe integrato gli estremi di un comportamento del creditore, censurabile ai sensi dell’art. 1227, primo e secondo comma, c.c.

Si sostiene, pertanto, che, trattandosi di un’eccezione, la mancata partecipazione avrebbe dovuto essere provata dal convenuto e non certo da parte attrice.

In definitiva, la doglianza si incentra sul fatto che, tanto la sentenza di primo grado, quanto quella d’appello, si siano limitate a ritenere non provata la circostanza che il T.T. si fosse recato al seggio il 17 aprile 2016, senza però dichiarare il fatto opposto, ossia che il medesimo non si fosse recato a votare.

4.- Con il quarto motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.3, c.p.c., la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per non aver la Corte d’Appello di Trieste regolato le spese dei giudizi di primo e secondo grado sulla base della soccombenza reciproca, da ravvisarsi in considerazione del positivo accertamento dell’errore dell’amministrazione, che ha determinato il danno, ancorché questo danno non sia liquidato.

5. – Il primo motivo è infondato.

Con esso è denunciata la ratio decidendi della sentenza impugnata (cfr. a p. 8) che ha escluso esservi prova che “un qualche danno sia, in concreto, derivato a T.T. dall’errore commesso dal Comune di (OMISSIS)” (anche per perdita di chance).

Il ricorrente critica siffatta statuizione muovendo dalla considerazione che il diritto di voto è garantito dalla Costituzione (art. 48 Cost.) e assumendo, quindi, che il danno era comunque sussistente in quanto «dichiaratamente collegato all’“impossibilità di partecipare alla tornata referendaria del 17 aprile 2016”»; sicché, era proprio tale situazione (impossibilità di partecipare al referendum) ad integrare “già di per sé un danno”, dovendosi, pertanto, provvedere, da parte del giudice adito, soltanto alla relativa valutazione “nella somma maggiore o minore ritenuta di giustizia”.

La censura, così veicolata, si risolve, però, nella rivendicazione del risarcimento di un “danno in re ipsa”.

E ciò al fine di contrastare la decisione della Corte territoriale che, come detto, ha ritenuto non esservi prova che l’errore pur commesso dal Comune di (OMISSIS) (essendo circostanza pacifica che detta Amministrazione non aveva reinserito tempestivamente il T.T. nelle liste elettorali alla scadenza della misura di prevenzione speciale) abbia cagionato al medesimo attore “un danno … in concreto”; dunque, un danno in conseguenza della asserita lesione del “diritto al voto”, garantito dall’art. 48 Cost.

A tal riguardo, giova evidenziare, in punto di diritto, che in tema di danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti della persona costituzionalmente tutelati (e tale è anche il diritto al voto nella sua duplice dimensione, individuale – quale esercizio di un diritto personale, libero e uguale – e sovraindividuale, costituendo il voto atto di partecipazione democratica alla vita pubblica e istituzionale del Paese, in attuazione dell’art. 1 Cost.) il risarcimento non è in re ipsa, poiché il danno risarcibile – nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma vivente dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano (Cass. n. 16133/2014) – non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto, in ogni caso, di allegazione e prova, sebbene anche attraverso presunzioni (tra le molte: Cass. n. 24474/2014Cass. n. 25420/2017Cass. n. 17383/2020Cass. n. 8861/2021Cass. n. 33276/2023Cass. n. 15352/2024Cass. n. 20269/2024Cass. n. 29920/2024Cass., S.U., n. 5992/2025).

Il superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico, è frutto di successive elaborazioni giurisprudenziali, tributarie del revirement operato dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994, i cui esiti possono compendiarsi nelle parole della sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui “gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva)… consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata…)”.

Ed è questo il piano della distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica (quest’ultima da riferirsi agli artt. 1223 e 2056 c.c.), che sostanzia lo statuto dell’obbligazione risarcitoria (come più di recente ribadito da Cass., S.U., n. 33645/2022, segnatamente al § 4.6.), rispetto al quale la ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte afferma, come detto, la non risarcibilità di un danno in re ipsa anche in riferimento alla lesione di diritti fondamentali.

Ne deriva, pertanto, che la censura di parte ricorrente – nel predicare l’esistenza di un danno in re ipsa, in quanto sussistente sulla base della sola lesione del “diritto al voto” (art. 48 Cost.) ad esso cagionata dalla mancata iscrizione nelle liste elettorali da parte del Comune di (OMISSIS), sebbene dovuta – non è tale da scalfire la decisione assunta dal giudice di appello, essendo questa fondata sull’assenza di prova di un danno (conseguenza) in concreto patito dallo stesso T.T..

6. – Il rigetto del primo motivo è tale da rendere inammissibili le doglianze svolte con il secondo e il terzo motivo di ricorso, i quali non censurano la ratio decidendi dell’assenza di prova di un “danno … in concreto” patito dal T.T. (essendo calibrati a denunciare profili diversi: quello della asserita assimilazione dell’astensione all’esercizio del diritto di voto e quello della prova, spettante al Comune eccipiente, che il “T.T. quel giorno non si fosse recato a votare”), così da non poter comunque comportare, se pur in ipotesi fondati, la cassazione della sentenza impugnata, giacché consolidatasi in giudicato la statuizione sulla insussistenza di un danno risarcibile.

7. – Il quarto motivo è infondato.

Varrà, anzitutto, considerare che la reciproca soccombenza è configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi (Cass., S.U., n. 32061/2022).

Nella specie, l’accertamento dell’illegittimità del ritardato reinserimento del nominativo del ricorrente nelle liste elettorali non vale a fondare una soccombenza reciproca tra le parti in causa, giacché il T.T. ha proposto un’unica e unitaria domanda di risarcimento danni, chiedendo, sul presupposto dell’illegittima condotta del Comune convenuto, che quest’ultimo fosse condannato a “risarcire il danno da lui patito, da liquidarsi in euro 10.000,00 o somma nella maggiore o minore ritenuta di giustizia” (cfr. p. 5 del ricorso).

Né è pertinente il richiamo del ricorrente alla sentenza di questa Corte n. 8878/2014, giacché in quel caso l’azione proposta non era un’azione di risarcimento danni, ma un’azione meramente dichiarativa sull’impossibilità di esercitare in modo libero e diretto il diritto di voto in elezioni politiche in ragione di una certa conformazione della legge elettorale: azione che venne accolta (all’esito di un giudizio costituzionale di invalidazione di detta legge elettorale), con conseguente favore delle spese, per l’appunto, a beneficio delle parti vittoriose, in applicazione dell’art. 91 c.p.c.

8. – Il ricorso va, dunque, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

Cass. civ., III, ord., 07.07.2025, n. 18395

Previdenza e assistenza – Indennità – Discriminazione – Liquidazione dell’indennità di maternità e qualificazione del trattamento come discriminatorio solo ex ante

Con il primo motivo di ricorso, l’Inps deduce violazione e falsa applicazione dell’art.47 d.P.R. n.639/1970, con riferimento agli artt.25, co.2-bis e 38 d.lgs. n.198/2006, per avere la Corte d’appello ritenuto non applicabile il regime della decadenza annuale.

Con il secondo motivo di ricorso, l’Inps deduce violazione e falsa applicazione degli artt.25, co.2-bis e 38 d.lgs. n.198/2006, con riferimento agli artt.22 e 23 d.lgs. n.151/2001 e 47 d.P.R. n.639/1970, per avere la Corte conteggiato al 100% l’indennità di volo ai fini del calcolo dell’indennità di maternità.

I due motivi possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione.

La Corte territoriale ha ritenuto inapplicabile la decadenza sostanziale, ex art.47 comma 6 del d.P.R. n.639/1970, in ragione della natura discriminatoria della condotta posta in essere dal datore di lavoro e dall’istituto previdenziale, consistita nel pagamento della indennità di maternità in misura inferiore a quella dovuta (non essendo stata computata, per intero, la indennità di volo). Secondo la Corte d’appello la domanda svolta in primo grado aveva come propria causa petendi la sussistenza di una condotta discriminatoria – in particolare si tratterebbe di discriminazione fondata sulla maternità ex art.25, co.2-bis d.lgs. n.198/2006 – e come petitum la rimozione dei relativi effetti, attraverso la corretta erogazione dell’indennità di maternità.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale non sono condivisibili.

S’intende infatti dare continuità all’orientamento di Cass. nn. 24957 e 25400 del 2021, da ultimo confermato da Cass. n. 12400 del 2024, secondo il quale: «la denunciata discriminazione è riferita ad un trattamento previdenziale che, in base alle norme di diritto interno (v. Cass. nr. 11414 del 2018Cass. nr. 27552 del 2020), è dovuto nell’esatta misura richiesta dalla lavoratrice, come rimedio alla denunciata condizione di svantaggio.

Pertanto, la domanda, sia pure fondata sulla discriminazione, resta comunque diretta ad ottenere l’indennità di malattia nella misura di legge, ragion per cui non può che soggiacere alle medesime regole che valgono per l’azione di adempimento di detta prestazione previdenziale. Non deve suggestionare il fatto che, per lo specifico fattore di protezione rappresentato dalla condizione di gravidanza, si è in presenza di una discriminazione diretta, basata sul sesso, in relazione alla quale non viene in rilievo il tertium comparationis (per l’evidente ragione che solo le donne sono in grado di rimanere incinte: v. CGUE, C-177/88, Dekker del 14 Novembre 1989 e CGUE, C-179/88 Hoejesteret dell’8 novembre 1990). La tenuta del principio va infatti valutata comparando la posizione di chi rivendica l’adempimento di trattamenti previdenziali analoghi, seppure con contenuto e funzione parzialmente diversi, ma sottoposti ad altrettanti e precisi regimi prescrizionali e decadenziali (v., per esempio, l’indennità di malattia). Diversamente ragionando, risulterebbe alterata proprio la finalità della tutela contro la discriminazione, finalità che è quella di garantire al soggetto del gruppo sfavorito lo stesso trattamento riservato alle persone della categoria privilegiata, non certo di attribuirgli vantaggi che produrrebbero, a ben vedere, uno squilibrio al contrario» (così Cass. n. 25400 del 2021 cit.).

Come in nuce ritenuto da Cass. n. 25400 del 2021 cit., occorre distinguere l’ipotesi della discriminazione da quella dell’inadempimento parziale della obbligazione di pagamento della indennità di maternità.

L’art. 25 comma 2-bis d.lgs. n.198/2006, nel testo pro tempore vigente, prevedeva che: «Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti».

Alla luce del considerando n.23 della direttiva 2006/54/CE del 05/07/2006 («dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso»), deve ritenersi che tale discriminazione abbia natura diretta, ossia di una discriminazione nella quale « è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento» (Cass. 25/07/2019 n. 20204).

Avuto riguardo a tali considerazioni, in uno con i principi di diritto già richiamati, deve ritenersi che non sia nemmeno in astratto ipotizzabile una discriminazione diretta nel caso in cui non via sia stata alcuna discriminazione, ossia un trattamento diversificato in ragione dello stato di gravidanza.

Dalla giurisprudenza di legittimità e di merito richiamata dalla controricorrente risulta che l’Istituto previdenziale abbia provveduto a liquidare l’indennità di maternità alla generalità delle assistenti di volo determinando la retribuzione media globale giornaliera, ex art.23 d.lgs. n.151/2001, sulla base della interpretazione letterale delle disposizioni pertinenti, interpretazione superata da Cass. n. 11414 del 2018 (e successive conformi) sulla base di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della normativa di riferimento: «viene in rilievo la particolare tutela della maternità, che il D.Lgs. n.151 del 2001, art. 23 è finalizzato a garantire, in armonia con gli artt. 30,31 e 37 Cost., privilegiando, anche in via di interpretazione sistematica, un criterio di maggior mantenimento possibile del livello retributivo immediatamente precedente al congedo rispetto a criteri che, come quelli per il computo dell’indennità di malattia, comportano una attribuzione parziale di alcune voci retributive» (Cass. n.11414 del 2018 cit.).

Non può ritenersi che il pagamento della indennità di maternità sulla base di un criterio di computo ritenuto legittimo, e non contestato, al momento del suo pagamento possa poi trasformarsi in discriminazione diretta sulla base di una interpretazione giurisprudenziale sopravvenuta. In altri termini, il trattamento, per essere fonte di discriminazione diretta, deve essere «meno favorevole» sin dall’inizio, ed il contrasto giurisprudenziale sulla determinazione della retribuzione media globale giornaliera ex art.23 d.lgs. n.151/2001 non consentiva, sin dall’inizio, di ritenere meno favorevole il trattamento erogato rispetto a un trattamento più favorevole oggettivamente incerto.

La Corte territoriale ha dunque errato nella interpretazione dell’art.25 comma 2-bis del d.lgs. n.198/2006, ritenendo discriminatoria una condotta qualificabile, invece, come inadempimento parziale della obbligazione di pagamento della indennità di maternità, tutelabile secondo gli ordinari rimedi del diritto delle obbligazioni.

Per le stesse ragioni la Corte territoriale ha parimenti errato nel non delibare l’eccezione di decadenza, ex art. 47, co.6, d.P.R. n.639/1970.

In conclusione, il ricorso dev’essere accolto e la sentenza cassata e, per essere necessario nuovo esame del gravame, la causa va rinviata alla Corte d’appello di Milano che, in diversa composizione, provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Cass. civ., lav., ord., 07.07.2025, n. 18449

*Previdenza e assistenza – Contributi – Omesso versamento – Sanzioni pecuniarie – Legittimità delle sanzioni pecuniarie per omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali

1.– Con due ordinanze del 14 agosto 2024 e del 3 ottobre 2024, iscritte rispettivamente ai numeri 178 e 195 del reg. ord. 2024, il Tribunale di Brescia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge n. 463 del 1983, come convertito, nel testo modificato dall’art. 23, comma 1, del decreto-legge n. 48 del 2023, come convertito, in riferimento all’art. 3 Cost.

2.– La norma, censurata nella parte in cui prevede che, in caso di omesso versamento, da parte del datore di lavoro, delle ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, «[s]e l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da una volta e mezza a quattro volte l’importo omesso», sarebbe in contrasto con il canone di ragionevolezza, in quanto dispone l’applicazione di una sanzione sproporzionata rispetto al fatto, attesa la non graduabilità del minimo edittale in relazione alle condizioni soggettive del trasgressore.

Da ciò deriverebbe una disparità nel trattamento sanzionatorio dei trasgressori, poiché l’individualizzazione della sanzione sarebbe consentita solo per le violazioni più gravi e non per quelle più lievi, attesa l’inderogabilità del minimo edittale; quest’ultimo, poi, sarebbe manifestamente sproporzionato nei casi in cui l’omesso versamento sia dipeso «da circostanze esterne sulle quali non sempre può incidere il comportamento dell’autore».

Infine, un ulteriore profilo di irragionevolezza sarebbe desumibile dal fatto che l’importo oggetto di sanzione amministrativa, in molti casi, risulterebbe più elevato di quello che si determina per effetto della conversione della pena detentiva prevista dalla legge per l’ipotesi, costituente reato, in cui l’omesso versamento superi la soglia di euro 10.000 annui.

3.– I due giudizi vanno riuniti, poiché hanno ad oggetto la medesima disposizione, censurata in riferimento allo stesso parametro.

4.– L’esame della questione implica lo svolgimento di alcune considerazioni preliminari sull’evoluzione della disciplina sanzionatoria oggetto di scrutinio.

4.1.– L’art. 2, comma 1, del d.l. n. 463 del 1983, come convertito, fa obbligo al datore di lavoro di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti.

Si tratta, in particolare, di contributi posti a carico del lavoratore e finalizzati all’erogazione di prestazioni che gli assicurano una copertura da rischi connessi alla sua attività; il relativo versamento, tuttavia, avviene tramite ritenuta alla fonte da parte del datore di lavoro, tenuto a versare periodicamente l’importo dovuto all’ente di gestione previdenziale.

4.2.– Al fine di contrastare l’evasione contributiva, la stessa norma, nel testo originario, prevedeva che l’omesso versamento costituisse reato e fosse punito «con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a L. 2.000.000 [a euro 1.032]».

In seguito, con il d.lgs. n. 8 del 2016, nel contesto di un più ampio intervento di depenalizzazione di reati di minore gravità, il legislatore ha limitato la rilevanza penale del fatto all’omesso versamento di ritenute per un importo superiore a euro 10.000 annui, con applicazione, al di sotto di tale soglia, di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000.

La sanzione amministrativa applicabile è quella tipicamente prevista per gli illeciti depenalizzati, tant’è che l’art. 6 del d.lgs. n. 8 del 2016 dispone, in merito al relativo procedimento, che «si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni delle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689».

Infine, la misura della sanzione è stata modificata dall’art. 23, comma 1, del d.l. n. 48 del 2023, come convertito, che ha sostituito le parole «da euro 10.000 a euro 50.000» con le parole «da una volta e mezza a quattro volte l’importo omesso».

5.– Poste tali premesse, si possono esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, secondo il quale, anzitutto, il rimettente non avrebbe offerto una soluzione costituzionalmente adeguata per l’ipotesi in cui le questioni fossero accolte; in particolare, la misura prospettata – ovvero la determinazione di un ammontare minimo per le sanzioni amministrative pecuniarie, pari ad euro 10 come disposto dall’art. 10 della legge n. 689 del 1981 – comporterebbe un trattamento troppo mite rispetto alle violazioni alle quali si riferisce.

Inoltre, la questione di cui all’ordinanza n. 195 del 2024 sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, perché gli argomenti del rimettente sull’eccessività della sanzione non sono riferiti al minimo edittale di legge, ma all’ammontare degli importi richiesti nel caso concreto.

5.1.– Entrambe le eccezioni sono non fondate.

Quanto alla prima, questa Corte ha più volte affermato che le soluzioni costituzionalmente adeguate a ricondurre a legittimità una disciplina in materie riservate alla discrezionalità del legislatore, quale è certamente il trattamento sanzionatorio di illeciti depenalizzati, possono essere «tratte da discipline già esistenti, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore», sì da consentire l’adozione di un «rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi tutelati dalla norma incriminatrice» (sentenza n. 138 del 2024; nello stesso senso, in precedenza, sentenze n. 46 del 2024, n. 95 e n. 28 del 2022, n. 233 e n. 222 del 2018).

Tale requisito appare soddisfatto dall’indicazione del rimettente, che ha ad oggetto una misura reperita nel sistema delle sanzioni amministrative delineato dalla legge n. 689 del 1981, al quale, come si è detto, fa esplicito riferimento la disciplina in esame.

Peraltro, il rinvenimento di soluzioni adeguate spetta a questa Corte, che non è in alcun modo vincolata alla formulazione del petitum, sicché, ove il rimettente non offra soluzioni, non resta compromessa l’ammissibilità della questione (sentenze n. 90 del 2024, n. 221 del 2023 e n. 59 del 2021).

5.2.– Quanto alla seconda eccezione, non è condivisibile l’assunto in base al quale il rimettente avrebbe svolto considerazioni solo sulla sanzione concretamente irrogata, e non sul minimo edittale.

Il rimettente, infatti, ha argomentato circa l’irragionevolezza della norma censurata con riferimento alla cornice edittale stabilita, osservando che, anche ove ridotta in misura corrispondente al minimo, la sanzione irrogata appare eccessiva rispetto all’illecito cui si riferisce.

6.– Nel merito, la questione non è fondata.

6.1.– Circa l’irragionevolezza della previsione sanzionatoria per intrinseca sproporzione rispetto alle condotte illecite, questa Corte ha costantemente affermato che il legislatore gode di ampia discrezionalità, nei limiti della proporzionalità, nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati (ex multis, sentenze n. 48 del 2024, n. 207 del 2023 e n. 117 del 2021), con argomentazioni estensibili anche alle sanzioni amministrative.

Queste ultime «condividono, infatti, con le pene il carattere reattivo rispetto a un illecito, per la cui commissione l’ordinamento dispone che l’autore subisca una sofferenza in termini di restrizione di un diritto (diverso dalla libertà personale, la cui compressione in chiave sanzionatoria è riservata alla pena); restrizione che trova, dunque, la sua “causa giuridica” proprio nell’illecito che ne costituisce il presupposto. Allo stesso modo che per le pene – pur a fronte dell’ampia discrezionalità che al legislatore compete nell’individuazione degli illeciti e nella scelta del relativo trattamento punitivo – anche per le sanzioni amministrative si prospetta, dunque, l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato; evenienza nella quale la compressione del diritto diverrebbe irragionevole e non giustificata» (sentenze n. 95 del 2022 e n. 185 del 2021; in senso conforme, sentenze n. 112 del 2019 e n. 22 del 2018).

Tale congruità, chiarisce la prima delle menzionate decisioni, dev’essere verificata in relazione al grado di disvalore dell’illecito sanzionato, mediante un raffronto fra il bene protetto dalla norma che lo prevede e il bene inciso dalla misura sanzionatoria.

6.2.– Nel caso di specie, la misura della sanzione, quantunque significativa, non è tale da connotare la scelta del legislatore come irragionevole o arbitraria.

Si è osservato, infatti, che la condotta sanzionata è munita di particolare disvalore, poiché l’omesso versamento delle ritenute da parte del datore di lavoro si traduce nella distrazione di somme delle quali egli ha la disponibilità, benché le stesse facciano già ontologicamente parte della retribuzione del lavoratore e siano destinate all’erogazione di prestazioni essenziali e attinenti a beni irrinunciabili.

In relazione a tale illecito, del resto, questa Corte – seppure al fine di valutare la congruità delle conseguenze sotto profili diversi da quelli qui in esame – ha affermato che esso «determina un rischio di pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela è assicurata da un complesso di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I della Costituzione (artt. 1,4,35,38 della Costituzione)» (sentenza n. 139 del 2014; ordinanza n. 206 del 2003).

Pertanto, la misura della sanzione minima appare giustificata, in quanto commisurata al rango del bene protetto dalla norma.

6.3.– Gli ulteriori rilievi del rimettente non incidono su tali considerazioni.

Il fatto che l’omesso versamento per un ammontare modesto sia punito con la sanzione minima è coessenziale a tutte le sanzioni per le quali l’ordinamento prevede una cornice edittale, proprio al fine di adeguare la sanzione alle particolarità della fattispecie concreta (sentenze n. 185 del 2021, n. 112 e n. 88 del 2019).

Non si pone, invece, un problema di sproporzione della sanzione in relazione all’ipotesi, evocata dal giudice a quo, in cui l’omesso versamento sia dipeso «da circostanze esterne sulle quali non sempre può incidere il comportamento dell’autore»; ove sussistenti, infatti, tali circostanze non rilevano ai fini della graduazione della sanzione ma, piuttosto, valgono a escludere la responsabilità, ben potendo l’illecito essere escluso dalla mancanza dell’elemento soggettivo, secondo quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981.

6.4.– Infine, la denunziata irragionevolezza non sussiste neppure al cospetto della comparazione, sul piano effettuale, della responsabilità in questione con quella conseguente a violazioni che superano la soglia di rilevanza penale.

Il rimettente, al riguardo, opera un raffronto di tipo puramente aritmetico, rappresentando la possibilità che la pena detentiva per il fatto di reato, ove convertita in pena pecuniaria, abbia un importo inferiore a quello della sanzione amministrativa.

6.5.– Un tale modus procedendi non risulta rispettoso del canone di necessaria omogeneità che deve presiedere alla valutazione comparativa di due fattispecie, nella prospettiva di una possibile diseguaglianza o irragionevolezza per disparità di trattamento.

Il rimettente, infatti, non tiene conto delle ontologiche diversità, strutturali e di contenuto, che sussistono fra responsabilità penale e responsabilità amministrativa.

La prima può essere accertata soltanto in sede giudiziale e, per tale ragione, è connotata da un’ampia portata afflittiva, che trascende la dimensione della sola pena concretamente irrogata e non trova riscontro nella responsabilità amministrativa.

Contribuiscono al carattere maggiormente afflittivo della responsabilità penale il fatto che il trasgressore viene sottoposto a indagini ed eventualmente a giudizio, e gli effetti che l’ordinamento ricollega a tali vicende, come, ad esempio, le restrizioni in termini di capacità di contrattare alle quali può soggiacere l’imprenditore.

Anche sul piano meramente sanzionatorio, poi, il rimettente trascura di considerare che il fatto di reato è punito anche con una sanzione pecuniaria e che, quantomeno in linea generale, una condanna in sede penale può arrecare ulteriori conseguenze a carico del responsabile, come le pene accessorie o l’obbligo di risarcire il danneggiato.

Infine, il giudice a quo muove dal presupposto dell’automatica convertibilità della pena detentiva in pena pecuniaria, senza considerare il fatto che non si tratta di un automatismo, ma del frutto di una valutazione operata dal giudice nel caso concreto, sulla base di specifici presupposti, e con la possibilità che, ove la pena convertita resti ineseguita, sia disposta la revoca del beneficio con applicazione di una diversa sanzione sostitutiva.

Pertanto, la sola astratta possibilità che, sul piano aritmetico e a prescindere dalla correttezza del criterio di conguaglio utilizzato, si verifichi l’evenienza paventata dal rimettente non è significativa di una maggiore afflittività della sanzione amministrativa e, di conseguenza, non vale a far ritenere irragionevole la previsione sanzionatoria censurata.

Corte Cost., sent., 08.07.2025, n. 103

*Procedure concorsuali – Equa riparazione -Legittimità costituzionale del termine di durata delle procedure concorsuali ex art. 2, comma 2 bis, legge n. 89/2001

1.– La Corte d’appello di Venezia, nella persona del giudice designato ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge n. 89 del 2001, con l’ordinanza in epigrafe, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3,24 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui non prevede che, valutata la complessità del processo presupposto, il giudice possa ritenere non irragionevole la durata di tale processo quand’anche abbia superato il termine indicato dalla norma».

1.1.– Il giudice a quo deve decidere sulle domande di equo indennizzo proposte da alcuni ex dipendenti della società Vinyls Italia spa, dichiarata fallita dal Tribunale di Venezia con sentenza 8 luglio 2013, n. 250, la cui procedura concorsuale è tutt’ora in corso.

I ricorrenti, creditori già destinatari di pagamenti parziali, hanno agito per ottenere l’indennità prevista dalla legge n. 89 del 2001 per l’irragionevole durata della procedura concorsuale, superiore ormai di cinque anni al termine di sei, previsto dall’art. 2, comma 2-bis, della medesima legge.

1.2.– In considerazione sia del numero di giudizi recuperatori che la curatela aveva promosso, sia della interferenza delle attività di bonifica ambientale e messa in sicurezza degli stabilimenti industriali contaminati, il rimettente ritiene che la procedura concorsuale presupposta non potesse essere definita entro il termine di sei anni fissato dal censurato comma 2-bis, considerato inderogabile dal diritto vivente (sentenza n. 36 del 2016; Cass., ordinanze n. 34460 del 2023 e n. 30794 del 2022).

1.3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che soltanto nell’ipotesi di un accoglimento delle questioni i ricorsi per equa riparazione potrebbero essere rigettati ovvero solo parzialmente accolti, diversamente imponendosene l’integrale accoglimento.

1.4.– È denunciata, innanzitutto, l’irragionevolezza del termine fissato dal comma 2-bis, che varrebbe sia per le procedure di semplice o media complessità, sia per quelle di notevole complessità, nelle quali si renda necessario il promovimento di azioni finalizzate a recuperare beni all’attivo fallimentare. In tali ipotesi, in cui la durata della procedura è condizionata da quella dei giudizi recuperatori, anche ove la durata di questi ultimi fosse rispettosa del termine complessivo di sei anni previsto dal comma 2-ter del medesimo art. 2 della legge n. 89 del 2001, la procedura non potrebbe essere definita in tempo ragionevole, attese le ulteriori attività che residuerebbero (liquidazione dei beni, riparto, eventuali azioni esecutive).

Il termine di sei anni risulterebbe comunque inadeguato nei casi in cui, tra i beni appresi alla procedura, vi siano siti contaminati da avviare a risanamento ambientale, anche tenuto conto che le relative attività fanno capo ad amministrazioni su cui gli organi della procedura non hanno poteri impositivi.

Il comma 2-bis avrebbe introdotto un automatismo in forza del quale, una volta superato il termine di sei anni, la durata della procedura risulterebbe sempre irragionevole, così svuotando di significato il disposto del comma 2 dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001.

1.4.1.– La norma censurata si porrebbe in contrasto altresì con l’art. 24 Cost., in quanto indurrebbe gli organi della procedura a non promuovere giudizi recuperatori, per rispettare il termine di ragionevole durata e non incorrere in responsabilità, con conseguente pregiudizio dei diritti dei creditori concorsuali.

1.4.2.– La previsione del termine fisso sarebbe comunque incompatibile, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., con l’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, secondo cui la ragionevolezza della durata del processo deve essere valutata alla luce delle circostanze del caso concreto.

2.– Occorre in primo luogo valutare la sopravvenienza normativa costituita dal nuovo testo dell’art. 213, comma 9, del d.lgs. n. 14 del 2019, che l’Avvocatura dello Stato ha segnalato ai fini della restituzione degli atti al giudice a quo.

2.1.– Il comma 9 dell’art. 213 del d.lgs. n. 14 del 2019 non era presente nel testo originario della disposizione ed è stato aggiunto dall’art. 29, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 17 giugno 2022, n. 83, recante «Modifiche al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, in attuazione della direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza)», con disposizione che stabiliva: «[s]e il curatore ha rispettato i termini di cui al comma 5, nel calcolo dei termini di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non si tiene conto del tempo necessario per il completamento della liquidazione».

In seguito, con il d.lgs. n. 136 del 2024, successivo all’ordinanza di rimessione e segnalato dalla difesa statale, il legislatore ha sostituito il comma 9, che oggi prevede: «[q]uando il curatore ha rispettato i termini, originari o differiti, di cui al comma 5, secondo periodo, nel calcolo dei termini di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, non si tiene conto del tempo necessario per il completamento della liquidazione».

La disposizione interviene a neutralizzare, ai fini della ragionevole durata, il «tempo necessario per il completamento della liquidazione», subordinatamente al rispetto da parte del curatore dei termini previsti nel medesimo art. 213, rubricato «Programma di liquidazione», il quale scandisce tutta l’attività degli organi della procedura a partire dalla redazione dell’inventario.

2.2.– Per quanto qui di rilievo, si deve precisare che la disposizione citata si inserisce nel corpus normativo costituito dal d.lgs. n. 14 del 2019, il cui regime di applicazione, ratione temporis, è disciplinato dall’art. 390, comma 2, dello stesso decreto, secondo cui «[l]e procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto […] sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3».

Se, dunque, per espressa previsione del legislatore, la disciplina dettata dal codice della crisi d’impresa non opera nelle procedure concorsuali antecedenti alla sua entrata in vigore, a fortiori tale conclusione si impone per le disposizioni che, modificandolo o integrandolo, si innestano su detto codice.

Risulta pertanto ininfluente l’art. 56, comma 4, del d.lgs. n. 136 del 2024, richiamato dall’Avvocatura dello Stato, che regola unicamente – e non potrebbe essere altrimenti – il regime di applicazione delle modifiche e/o integrazioni apportate ai procedimenti già regolati dal predetto codice.

2.3.– In definitiva, non vi è un’incidenza diretta della disposizione sopravvenuta sul quadro normativo rilevante per il giudizio principale, la cui procedura presupposta è antecedente all’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e come tale esclusa dall’applicazione della relativa disciplina, sicché non ricorrono i presupposti della restituzione degli atti al giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 40 e n. 27 del 2025 e n. 54 del 2024).

3.– Si deve ora valutare l’eccezione di inammissibilità delle questioni, formulata dall’Avvocatura dello Stato, quanto alla rilevanza delle stesse.

Il giudice a quo avrebbe omesso di esaminare le circostanze, pure riferite nell’ordinanza di rimessione, relative al comportamento dei ricorrenti nel giudizio presupposto nella fase di accertamento del passivo. Costoro, infatti, diversamente da altri ex dipendenti, non avevano utilizzato il modello di facsimile messo a disposizione dalla curatela per la domanda di ammissione al passivo e avevano commesso errori nella redazione delle domande, così ritardando l’accertamento delle relative spettanze. Si tratterebbe di circostanze in grado di incidere sulla durata della procedura, e, pertanto, potenzialmente idonee a fondare il diniego dell’indennizzo, sicché il rimettente, non prendendo posizione sul punto, non avrebbe dimostrato di non poter prescindere dall’applicazione della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale per definire il giudizio.

3.1.– L’eccezione non è fondata.

È vero che la mancanza di diligenza della parte che lamenti il pregiudizio da irragionevole durata è idonea a escludere, in tutto o in parte, il diritto all’equo indennizzo. L’art. 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001 impone, infatti, al giudice dell’equa riparazione di valutare, ai fini dell’accertamento della violazione, anche il comportamento delle parti, che rileva nella misura in cui abbia determinato un ingiustificato allungamento dei tempi del processo, potendosi perfino escludere il diritto all’equo indennizzo quando il ritardo imputabile a quel comportamento assorba l’intero periodo eccedente.

Tuttavia, la situazione rappresentata dal rimettente restituisce un quadro dell’andamento della procedura da cui emerge, in modo chiaro, che le ragioni del ritardo sono riconducibili alla particolare complessità della procedura stessa.

Seppure implicitamente, il giudice a quo ha escluso l’incidenza causale, sulla durata della procedura, del comportamento dei creditori oggi ricorrenti per l’equo indennizzo, e ciò è sufficiente per ritenere la norma censurata rilevante ai fini della definizione del giudizio principale (ex plurimis, sentenze n. 160 del 2023 e n. 254 del 2020).

Peraltro, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non è necessario – ai fini della rilevanza di una questione – che il suo accoglimento determini un esito diverso da quello cui si perverrebbe in applicazione della disposizione censurata, essendo sufficiente che esso necessariamente influisca sull’iter motivazionale che dovrà condurre alla decisione (ex plurimis, sentenze n. 52 del 2025, n. 135 e n. 122 del 2024).

4.– Nel merito le questioni non sono fondate con riferimento a tutti i parametri evocati.

4.1.– Il rimettente muove, innanzi tutto, da un erroneo presupposto interpretativo rispetto alle questioni dedotte con riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

La giurisprudenza di legittimità consolidata, che costituisce diritto vivente, ha infatti introdotto un temperamento alla previsione contenuta nel comma 2-bis, ritenendo “tollerabile”, nel caso di procedura concorsuale di notevole complessità, una durata di sette anni (ex plurimis, Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 25 luglio 2023, n. 22340, con ampi richiami ai precedenti, e ordinanza n. 31274 del 2022), secondo lo standard ricavato dalle pronunce della Corte EDU, che trovava applicazione già prima dell’intervento con cui il legislatore del 2012 ha fissato i termini di durata ragionevole.

Il temperamento introdotto in via interpretativa, peraltro, impone al giudice dell’equa riparazione di dare conto delle ragioni della “notevole complessità” della procedura, a loro volta desunte dalla giurisprudenza della Corte EDU, quali il numero dei creditori, la particolare natura o situazione dei beni da liquidare (ad esempio partecipazioni societarie, beni indivisi), la proliferazione di giudizi connessi, la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti.

Le richiamate pronunce di legittimità non mancano di precisare che il giudice dell’equa riparazione non ha discrezionalità nella determinazione della congruità del termine di ragionevole durata, come chiarito da questa Corte nella sentenza n. 36 del 2016, fermo restando che, in presenza delle anzidette caratteristiche, è tollerabile una durata della procedura concorsuale fino a sette anni.

Il giudice a quo censura, dunque, il comma 2-bis dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, come interpretato dal diritto vivente, senza coglierne l’effettiva portata, poiché imputa a quest’ultimo di avere inteso il termine ivi fissato in modo rigido, per effetto del quale, superati sei anni, la procedura concorsuale produrrebbe sempre e comunque la lesione del diritto alla ragionevole durata.

Si tratta di un errore di ricognizione che invalida il presupposto dal quale muovono le censure orientate a stigmatizzare l’inadeguatezza del termine e l’automatismo che governerebbe l’accertamento della ragionevole durata delle procedure concorsuali.

5.– La non fondatezza delle questioni trova conferma, peraltro, dall’esame dei precedenti di questa Corte sul tema.

La previsione contenuta nel comma 2-bis è stata, invero, già oggetto di scrutinio, in particolare nella sentenza n. 36 del 2016 – richiamata anche dal rimettente e dalla difesa dello Stato – e più di recente nella sentenza n. 205 del 2023.

5.1.– Dopo aver premesso che i termini di durata fissati nel comma 2-bis non si sottraggono al sindacato di costituzionalità sul profilo della loro congruità, la sentenza n. 36 del 2016 ha chiarito ch’essa va valutata avendo come punto di riferimento la giurisprudenza della Corte EDU.

In applicazione di tale principio, la stessa sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2-bis nella parte in cui prevedeva un termine di ragionevole durata dei giudizi originati dal ritardo nella definizione di precedenti giudizi di equa riparazione (cosiddetta Pinto su Pinto) che risultava “eccessivo” rispetto allo standard ricavabile dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Pur se intervenuta sulla indicata peculiare tipologia di processi, la sentenza n. 36 del 2016 ha chiarito, sul piano interpretativo, che i termini di durata fissati nel comma 2-bis non costituiscono meri parametri di riferimento, bensì termini inderogabili con i quali il legislatore ha sottratto alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della ragionevole durata, per affidarla invece a una previsione legale di carattere generale.

Più in particolare, è stato affermato che l’art. 6 CEDU – il cui significato si forma attraverso la costante giurisprudenza della Corte EDU (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007) – «preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale». Il richiamo ai «più brevi termini», riferito a quello allora sottoposto allo scrutinio di questa Corte, non inficia la portata dell’affermazione che, per qualsiasi termine, rimanda al modello di durata strutturato dalla Corte EDU.

5.2.– Questa Corte è tornata a pronunciarsi sul comma 2-bis nella sentenza n. 205 del 2023, avente a oggetto la durata dei procedimenti di protezione internazionale, che era ed è equiparata a quella di ogni altro procedimento civile di cognizione. I giudici rimettenti ritenevano eccessivo quel termine sul rilievo che l’individuazione della ragionevole durata non potrebbe prescindere dalle caratteristiche e dalla natura del procedimento, come ripetutamente affermato dalla Corte di Strasburgo in sede di interpretazione dell’art. 6 CEDU.

La sentenza n. 205 del 2023 ha dichiarato le questioni non fondate, stante l’assenza di elementi ricavabili dalla costante giurisprudenza della medesima Corte dai quali desumere che i giudizi in materia di protezione internazionale debbano avere uno statuto differenziato, quanto alla durata, rispetto agli altri giudizi di cognizione.

6.– Discende dalle richiamate pronunce il principio che, se il termine di ragionevole durata fissato dal legislatore nazionale è modellato sulla giurisprudenza della Corte EDU, non sono ravvisabili violazioni del parametro convenzionale. Questa conclusione ridonda sul giudizio di compatibilità costituzionale del termine di volta in volta sottoposto a scrutinio anche sotto il profilo della ragionevolezza.

Si è già detto dell’assenza di automatismo.

Inoltre, per effetto del temperamento introdotto dal diritto vivente per le procedure più complesse, perde di significato anche l’argomento della irrazionale coincidenza tra il termine di ragionevole durata fissato per le procedure concorsuali e quello previsto per la durata complessiva dei giudizi di cognizione, senza dire che l’argomento risulta comunque eccentrico rispetto alla richiesta formulata dal rimettente. L’inconveniente lamentato – durata eccessiva della procedura come conseguenza della durata dei giudizi in cui essa sia coinvolta – potrebbe prodursi anche in caso di promovimento di un unico giudizio da parte degli organi della procedura, che non diventerebbe per ciò stesso una procedura complessa, e dunque meritevole di beneficiare di un termine di durata maggiore.

7.– Del resto il termine di ragionevole durata delle procedure concorsuali, indicato nel comma 2-bis, risulta in linea con lo standard della Corte EDU e non produce alcun automatismo, posto che il diritto all’equo indennizzo non sorge per il solo effetto del superamento dei termini di durata.

Un esame anche sommario delle disposizioni della legge n. 89 del 2001 conferma tale assunto.

7.1.– Accanto alla previsione dei termini di durata – con i quali il legislatore ha implicitamente confermato lo schema presuntivo elaborato prima del 2012 dalla giurisprudenza di legittimità per stabilire gli standard di durata in conformità alla giurisprudenza convenzionale – è rimasta ferma la disposizione di cui all’art. 2, comma 2, che affida l’accertamento della violazione del termine al giudice dell’equa riparazione, previa valutazione di una serie di elementi in esito alla quale può ritenere insussistente il diritto all’equo indennizzo, malgrado l’oggettiva durata del giudizio presupposto.

I commi 2-quinquies e 2-sexies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 contengono poi una tipizzazione di circostanze idonee a rovesciare la presunzione che, una volta superato il termine di ragionevole durata, si configura il diritto all’equa riparazione. In particolare, è valorizzato il principio di autoresponsabilità, che può portare a escludere il diritto all’equo indennizzo quando la parte abbia dato causa al ritardo con comportamenti dilatori, così da recidere il nesso di causalità tra l’amministrazione del processo e il ritardo maturato (ex plurimis, Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza 15 dicembre 2020, n. 28498).

Ulteriormente, l’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 affida al giudice dell’equa riparazione la quantificazione dell’indennizzo, che viene in tal modo calibrata sul caso concreto una volta che sia accertata la violazione della ragionevole durata.

7.2.– Con riferimento specifico alla durata delle procedure concorsuali, a fronte della domanda di indennizzo da parte del creditore concorsuale, il giudice dell’equa riparazione deve procedere al computo della durata della procedura presupposta a partire dall’accertamento del diritto di credito (ex plurimis, Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 5 gennaio 2024, n. 324) e fino a quando il creditore sia stato integralmente soddisfatto o, in caso di mancato pagamento per incapienza, fino al decreto di chiusura del fallimento (ex plurimis, Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenza 26 gennaio 2017, n. 2013 e, seconda sezione civile, ordinanza 29 marzo 2018, n. 7864).

La durata eccedente il termine di sei anni, per le procedure di media complessità, o di sette anni, per quelle di notevole complessità, determina il sorgere del diritto all’equo indennizzo in capo al creditore, sempre che la parte che lamenti l’irragionevole durata non abbia dato causa al ritardo.

Non è previsto, invece, che il giudice dell’equa riparazione possa sottrarre dal computo il tempo occorso per attività, quali gli interventi di bonifica e risanamento ambientale, che si siano rese necessarie nel corso della procedura, così come non è prevista la sottrazione del tempo occorso per definire i giudizi collegati alla procedura.

Quanto al primo profilo, si deve osservare che la mancanza di strumenti normativi di coordinamento tra le esigenze riconducibili, da un lato, alla tutela dell’ambiente e, dall’altro lato, alla definizione della procedura concorsuale in tempi ragionevoli, integra il deficit di regolazione che rientra tipicamente nel novero delle “disfunzioni” organizzative in grado di produrre l’irragionevole durata, e di cui lo Stato è chiamato a rispondere ex post attraverso il riconoscimento dell’equo indennizzo a chi, come i creditori concorsuali, abbia patito l’irragionevole durata della procedura. È questo, del resto, il sillogismo alla base dell’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.

Con riferimento al rapporto tra la procedura concorsuale e i giudizi a essa collegati, il legislatore è intervenuto sulla legge fallimentare, con norme applicabili anche alle procedure pendenti, disponendo che le controversie di cui è parte un fallimento sono trattate con priorità, e consentendo, a certe condizioni, la chiusura della procedura in pendenza di giudizi (artt. 43 e 118 della legge fallimentare, come modificati dal d.l. n. 83 del 2015, come convertito). In disparte l’efficacia risolutiva degli interventi, è significativo che il legislatore non abbia modificato la legge n. 89 del 2001, rivolgendo l’attenzione alla disciplina concorsuale. Scelta confermata dalla disciplina del codice della crisi d’impresa, introdotta con il d.lgs. n. 14 del 2019, orientato alla rapida definizione delle fasi della procedura che precedono la liquidazione dell’attivo.

7.3.– Quanto al denunciato vulnus all’art. 24 Cost., muove anch’esso da un presupposto erroneo.

La responsabilità degli organi della procedura per il ritardo con cui siano stati soddisfatti i creditori concorsuali ovvero, in caso di incapienza, sia stata chiusa la procedura, esula dalle finalità perseguite dai rimedi avverso la violazione del termine di ragionevole durata del processo di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU. Essa trova appropriata ed effettiva risposta nel ricorso ad altre azioni e in altre sedi, come chiarito da questa Corte nella sentenza n. 249 del 2020, ove si accertino condotte gravemente negligenti, e dunque non consegue per il solo oggettivo ritardo.

8.– In conclusione, vanno quindi dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2021 in riferimento a tutti i parametri evocati.

Corte Cost., sent., 08.07.2025, n. 102

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