*Giurisdizione e competenza – Non è incostituzionale l’esclusione dalla sospensione del processo e dalla messa alla prova il favoreggiamento reale

*Giurisdizione e competenza – Non è incostituzionale l’esclusione dalla sospensione del processo e dalla messa alla prova il favoreggiamento reale

1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Taranto, con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 156 del 2024), dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., nella parte in cui «non prevede che l’imputato, anche su proposta del Pubblico Ministero, possa chiedere la sospensione del processo con messa alla prova in relazione al delitto di favoreggiamento reale di cui all’articolo 379 c.p.».

1.1.– Il rimettente ritiene che la norma censurata violi, in primo luogo, l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai delitti, assunti a tertia comparationis, di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis cod. pen.).

Si tratterebbe, infatti, di figure criminose che offendono il medesimo bene giuridico – «l’amministrazione della giustizia, sub specie di attività giudiziaria» – leso dal favoreggiamento reale, che sono punite con una pena detentiva più severa (da due a sei anni di reclusione) e che possono ledere anche altri «diritti e libertà fondamentali».

Tuttavia, per esse è ammissibile la messa alla prova, perché inserite nell’elenco dei reati di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., per i quali il pubblico ministero esercita l’azione penale con la citazione diretta a giudizio, disposizione alla quale l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. rinvia per ampliare le ipotesi in cui è consentita la sospensione del procedimento con messa alla prova.

Il favoreggiamento reale, invece, è escluso dall’ambito di applicazione dell’istituto, perché è punito con la pena della reclusione fino a cinque anni, oltre alla pena pecuniaria, ossia con un massimo edittale superiore a quello entro cui il primo comma dell’art. 168-bis cod. pen. ammette la messa alla prova («pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria») e non è ricompreso nell’elenco dei reati di cui al comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen.

1.2.– Il giudice a quo ravvisa, poi, una disparità di trattamento lesiva dell’art. 3 Cost. anche in relazione al delitto di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), per il quale la messa alla prova è possibile, in quanto punito con la pena della reclusione fino a quattro anni.

Nonostante il favoreggiamento reale sia punito con un «massimo edittale maggiore» rispetto al favoreggiamento personale, infatti, sarebbe evidente che quest’ultimo è «maggiormente idone[o] a destabilizzare l’amministrazione della giustizia», con conseguente non giustificabilità – anche in considerazione dell’identità del minimo edittale – dell’ammissibilità alla messa alla prova solamente per la seconda delle due fattispecie criminose in comparazione.

1.3.– Le questioni sarebbero, infine, non manifestamente infondate in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto «l’impossibilità di addivenire alla sospensione del procedimento penale con messa alla prova» sarebbe «non razionalmente spiegabile e, dunque, idonea a comportare l’irrogazione di pene percepite come ingiuste».

2.– La questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., per disparità di trattamento con il delitto di favoreggiamento personale, è inammissibile per insufficiente motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza del dubbio di legittimità costituzionale.

La censura del rimettente investe la ragionevolezza e la proporzionalità delle cornici edittali, rispettivamente previste dagli artt. 378 e 379 cod. pen. per le due fattispecie di favoreggiamento (personale e reale), da cui consegue l’ammissibilità, in astratto, alla messa alla prova per l’una e non per l’altra.

La motivazione dell’ordinanza di rimessione in ordine alla presunta maggiore gravità del favoreggiamento personale, rispetto a quello reale – e quindi alla manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di sanzionare più severamente il secondo, rispetto al primo – è, però, generica e non argomenta intorno agli elementi di somiglianza tra le due fattispecie criminose, limitandosi a desumere l’ipotizzata disparità di trattamento dalla presunta maggiore idoneità del favoreggiamento personale «a destabilizzare l’amministrazione della giustizia».

3.– Con riguardo alle altre questioni, è utile ricordare che questa Corte ha già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., limitatamente alla parte in cui non consentiva la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza» (cosiddetto “piccolo spaccio” o “spaccio di lieve entità”), ravvisando «un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, punito con pena più elevata, per il quale, tuttavia, la messa alla prova è astrattamente ammissibile» (sentenza n. 90 del 2025).

Pur sottolineando la «diversità sul piano della tipizzazione delle condotte», infatti, questa Corte ha riscontrato «una similitudine di disvalore tra le due fattispecie poste a raffronto, attestata […] dall’identità dei beni giuridici e dall’anticipazione della […] tutela penale [degli stessi]». Ha, in particolare, rilevato che le ipotesi di reato messe a confronto «attengono alla medesima materia e sono sostanzialmente omogenee sotto il profilo dell’oggettività giuridica, nonché della strutturazione come reati di pericolo astratto o presunto».

Si è così determinata «un’anomalia», che ha ribaltato «la scala di gravità tra le due figure criminose in comparazione, entrambe attinenti alla materia degli stupefacenti e preposte alla tutela dei medesimi beni giuridici, di cui incriminano la mera esposizione a pericolo. L’ipotesi meno grave è soggetta a un trattamento più rigoroso, sul versante considerato, ossia l’ammissibilità alla messa alla prova, con conseguente violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.» (ancora, sentenza n. 90 del 2025).

Questa Corte, però, ha considerato «[i]l sovvertimento della scala di disvalore segnata dalle comminatorie edittali […] privo di giustificazione [e quindi lesivo dell’art. 3 Cost.] alla luce […] della funzione della fattispecie attenuata dello spaccio di lieve entità», la cui ratio – consistente nel «mitigare il sistema repressivo dei reati in materia di stupefacenti, in presenza di condotte che realizzano un’offesa attenuata all’interesse protetto e sono “espressione di criminalità minore”, propria di “fasce marginali” della società (sentenza n. 223 del 2022) – è particolarmente rispondente alle finalità risocializzanti, da un lato, e deflattive, dall’altro, della messa alla prova» (sempre, sentenza n. 90 del 2025).

Con riferimento alle prime, si è ritenuto che l’istituto «si prest[i] al conseguimento dello scopo […] della risocializzazione del soggetto» con particolare evidenza rispetto al reato di spaccio di lieve entità, che «si traduce in un fatto, pur sempre attinente alla produzione, al traffico e alla detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, ma di limitata offensività e, soprattutto, indice di una ridotta pericolosità (sentenza n. 43 del 2024)» (ancora, sentenza n. 90 del 2025).

Con riferimento alla concorrente finalità deflattiva dell’istituto, si è, inoltre, evidenziato che il piccolo spaccio è «un reato di minore gravità e di facile accertamento», che «ben si presta a una definizione alternativa del procedimento, con evidenti effetti deflattivi (sentenze n. 146 del 2022, n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015)» (ancora una volta, sentenza n. 90 del 2025).

4.– Tanto premesso, l’altra questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.

Ad avviso del rimettente, l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. – nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il delitto di favoreggiamento reale (art. 379 cod. pen.) – violerebbe l’art. 3 Cost., determinando un’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai delitti di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis cod. pen.), puniti con pena più elevata, per i quali, tuttavia, la messa alla prova è astrattamente ammissibile.

Vero è che le fattispecie di reato per le quali è possibile la messa alla prova perché elencate nell’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., al quale, come detto, rinvia l’art. 168-bis cod. pen. – tra cui rientrano quelle assunte a tertia comparationis nell’odierno giudizio di legittimità costituzionale – presentano elementi di notevole disomogeneità, tanto che è problematico individuarne un’univoca e coerente ratio ispiratrice; tuttavia, per costante giurisprudenza di questa Corte, il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, deve avere comunque a oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (sentenze n. 90 del 2025, n. 120 del 2023, n. 156 del 2020, n. 282 del 2010 e n. 161 del 2009).

Peraltro, questa Corte ha già più volte riconosciuto al legislatore «un’ampia discrezionalità nella definizione dei limiti oggettivi» – ad esempio riferiti ai limiti di pena o a «specifici titoli di reato (individuati nominativamente o, come in questo caso, attraverso il richiamo a una categoria definita da altra disposizione)» – entro i quali possono trovare applicazione gli istituti del diritto penale punitivo “non carcerario”, sempre che la scelta normativa non risulti manifestamente irragionevole, creando insostenibili disparità di trattamento (così, da ultimo, sentenza n. 139 del 2025); disparità che, per quanto si dirà, deve essere esclusa nel caso in esame.

4.1.– Le ipotesi di reato messe a confronto – favoreggiamento reale, falsa testimonianza e induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria – presentano sostanziali differenze sul piano della tipizzazione della fattispecie penale.

In particolare, l’art. 372 cod. pen. punisce tre condotte alternative, di cui due commissive – affermare il falso e negare il vero – e una omissiva – tacere, totalmente o parzialmente, ciò che si sa (cosiddetta reticenza). Dette condotte devono essere poste in essere da colui che assume la qualifica di testimone, configurando così un reato proprio, e il loro destinatario può essere solamente il giudice, ordinario o speciale, civile o penale, monocratico o collegiale, oltre alla Corte penale internazionale.

La fattispecie integra un reato di pericolo concreto, in quanto è sufficiente, ai fini della sua consumazione, che il mendacio e la reticenza siano idonei a indurre in errore il giudice e ad alterarne il convincimento, anche se poi non abbiano effettivamente inciso sul contenuto della decisione.

Nell’art. 377-bis cod. pen., invece, la condotta tipica consiste nell’induzione del soggetto chiamato a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria (oltre al giudice, quindi, anche al pubblico ministero, ma non alla polizia giudiziaria) ad avvalersi della facoltà di non rispondere e a non rendere dichiarazioni ovvero a rendere dichiarazioni mendaci. Detta condotta deve essere realizzata con modalità tassativamente indicate dal legislatore, consistenti nella minaccia o violenza ovvero nell’offerta o promessa di denaro o di altra utilità, e deve indurre, effettivamente, il suo destinatario alla reticenza o alla menzogna processuali. Si tratta, infatti, di un reato di evento, perché, per la sua consumazione, è necessario che sia tenuta la condotta di non rendere dichiarazioni o di rendere dichiarazioni mendaci, ancorché, trattandosi anche in tal caso di reato di pericolo, non sia necessario che ciò abbia contaminato o deviato il corretto corso del procedimento penale.

Mentre il soggetto agente può essere chiunque, il destinatario della condotta di induzione deve essere la persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria che abbia la facoltà processuale di non rispondere, come, ad esempio, l’indagato o l’imputato (art. 64 cod. proc. pen.), nonché l’indagato o l’imputato in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., ovvero per reato collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen. (art. 210 cod. proc. pen.).

La norma incriminatrice, peraltro, punisce solamente chi pone in essere la condotta istigatrice, non anche la persona indotta, neanche quando l’induzione sia stata realizzata con offerta o promessa di denaro.

Le dichiarazioni che il destinatario della condotta istigatrice può non rendere, infine, sono unicamente quelle che confluiscono nel procedimento penale e non in qualsiasi processo, anche civile o amministrativo, come le false dichiarazioni del testimone.

Nel favoreggiamento reale – che presuppone la previa commissione di un reato e il non aver concorso il soggetto attivo in esso – la condotta tipica consiste, invece, nell’aiutare taluno ad assicurare il prodotto, il profitto o il prezzo di un reato.

Ai fini dell’integrazione del reato, è sufficiente una qualsiasi azione od omissione obiettivamente idonea allo scopo, ossia a rendere definitivo, o almeno certo, il vantaggio che il reo abbia tratto dal reato, ancorché questo risultato non venga raggiunto; si tratta, infatti, di un reato di pericolo, in quanto, per la sua consumazione, non è necessario che il bene o il vantaggio siano definitivamente entrati nel patrimonio del “favorito”, nonché di un reato a forma libera.

Nel favoreggiamento reale, poi, l’aiuto deve essere prestato nell’esclusivo interesse dell’autore del reato presupposto, potendosi configurare, altrimenti, altre fattispecie criminose, rispetto alle quali esso ha natura sussidiaria.

In conclusione, le condotte integrative dei reati in comparazione sono profondamente diverse, risultando accomunate solamente dal loro collegamento con lo svolgimento della funzione giudiziaria.

4.2.– A fronte di tale «diversità sul piano della tipizzazione delle condotte», questa Corte deve però verificare se sia riscontrabile quella «similitudine di disvalore» tra le fattispecie poste a raffronto, attestata dall’identità di materia, dalla medesimezza dei beni giuridici e dall’anticipazione della tutela penale degli stessi (e, dunque, dalla strutturazione delle fattispecie in questione come reati di pericolo), in linea con il precedente rappresentato dalla ricordata sentenza n. 90 del 2025.

I delitti di favoreggiamento reale, falsa testimonianza e induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria sono accomunati dall’essere collocati nell’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia e, in particolare, tra quelli contro l’attività giudiziaria (Capo I, Titolo III, Libro II del codice penale), preposti, in generale, a preservare il regolare ed efficace funzionamento dell’attività giudiziaria in tutte le sue fasi, prodromiche, coeve e successive al processo.

Le fattispecie delittuose poste in comparazione si strutturano, tutte, per quanto detto, come reati di pericolo concreto, non essendo richiesta, ai fini del loro perfezionamento, una lesione effettiva della funzione giudiziaria, ma la sua esposizione a pericolo da verificarsi, appunto, in concreto, in base alle caratteristiche e alle circostanze del caso di specie.

Pur essendovi identità di materia e di anticipazione della soglia di tutela penale, si tratta, tuttavia, di fattispecie sostanzialmente disomogenee sotto il profilo dell’oggettività giuridica.

Le ipotesi di reato poste a confronto, infatti, condividono unicamente il bene giuridico di categoria – l’amministrazione della giustizia appunto –, che raggruppa però una serie eterogenea di fattispecie incriminatrici, le quali, «pur presentando tratti comuni che ne giustificano la collocazione nella categoria dei delitti contro l’attività giudiziaria, non hanno carattere del tutto omogeneo» (sentenza n. 47 del 2010).

In particolare, la norma incriminatrice della falsa testimonianza tutela, nell’ambito del più generico interesse al regolare svolgimento dell’attività giudiziaria, lo specifico interesse alla correttezza delle decisioni giurisdizionali, che può essere turbato dal difetto di veridicità e completezza della prova testimoniale, anche «in considerazione del ruolo primario [da essa] svolto nel sistema processuale» (sentenza n. 47 del 2010). Il reato, quindi, «salvaguard[a] la genuinità della prova» a garanzia del normale svolgimento del processo e del corretto accertamento giudiziale cui esso tende (ancora, sentenza n. 47 del 2010).

Anche il delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria si colloca, nell’ambito della più ampia categoria dei delitti contro l’attività giudiziaria, tra quelli volti a tutelare la correttezza dell’accertamento giudiziario di fatti, in tal caso costituenti reato, ponendosi a garanzia della genuinità delle dichiarazioni che confluiscono nel procedimento (solamente) penale in funzione probatoria.

Lo specifico bene protetto dalla norma incriminatrice attiene cioè, anche in questa ipotesi, alla formazione della prova, che, nel processo penale, avviene in dibattimento e nel contraddittorio delle parti. Bene che, come chiarito da questa Corte, ha un ruolo primario «in relazione all’attuale modello di processo penale di tipo tendenzialmente accusatorio» (sentenza n. 47 del 2010).

Peraltro, nel caso in cui l’induzione sia realizzata tramite violenza o minaccia, all’offesa del bene giuridico dinanzi indicato si aggiunge la lesione della libertà individuale del destinatario dell’indebita pressione, con conseguente configurazione della fattispecie in termini di reato plurioffensivo.

Nel favoreggiamento reale, invece, oggetto di tutela è l’interesse, non solamente a che non sia prestata ai rei una collaborazione diretta a far divenire definitivi i vantaggi acquisiti a mezzo del reato, ma anche, e soprattutto, ad assicurare la fruttuosità e la concreta eseguibilità della confisca, come dimostrato dal fatto che l’oggetto materiale della condotta tipica è individuato nel prodotto, profitto o prezzo del reato, ossia nelle cose che possono costituire oggetto della misura di sicurezza di cui all’art. 240 cod. pen.

Il favoreggiamento reale, quindi, si colloca al di fuori delle fattispecie criminose poste a tutela della correttezza dell’accertamento e delle decisioni giudiziali, in cui confluiscono, invece, sia la falsa testimonianza sia l’induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Favoreggiamento reale, da un lato, falsa testimonianza e induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, dall’altro – pur presentando tratti comuni e momenti di contatto, che ne giustificano la collocazione nella medesima categoria dei delitti contro l’amministrazione della giustizia – non hanno, quindi, carattere omogeneo in rapporto al bene protetto, declinato nella peculiare specificità di ciascuna fattispecie incriminatrice.

4.3.– L’acclarata sostanziale eterogeneità delle norme incriminatrici poste a confronto, sia per quanto attiene alla loro struttura, sia per quanto attiene ai beni giuridici tutelati, «determina l’inidoneità dei tertia comparationis a fungere da termine di riferimento onde verificare la pretesa lesione del principio di uguaglianza» (sentenza n. 207 del 2017).

4.4.– Non può non evidenziarsi, da ultimo, che il favoreggiamento reale, diversamente da quanto rilevato per lo spaccio di lieve entità, non realizza «un’offesa attenuata all’interesse protetto» e non è «“espressione di criminalità minore”, propria di “fasce marginali” della società (sentenza n. 223 del 2022)», così da non poter essere considerato, di per sé, «particolarmente rispondente alle finalità risocializzanti» della messa alla prova. Né possono ritenersi frustrate le «“finalità generali di deflazione giudiziaria per reati di contenuta gravità”, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’istituto persegue (ex multis, sentenza n. 139 del 2020)», in quanto non può certo ritenersi che il favoreggiamento reale configuri, come il piccolo spaccio, «un reato di minore gravità e di facile accertamento» (sentenza n. 90 del 2025).

La censura di violazione dell’art. 3 Cost. è, pertanto, non fondata.

5.– Anche la questione sollevata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost. non è fondata.

Ad avviso del rimettente, «l’impossibilità di addivenire alla sospensione del procedimento penale con messa alla prova» sarebbe «non razionalmente spiegabile e, dunque, idonea a comportare l’irrogazione di pene percepite come ingiuste».

In proposito, ribadisce questa Corte che l’esclusione del delitto di favoreggiamento reale dall’ambito di applicazione della messa alla prova non frustra la finalità specialpreventiva dell’istituto. Rispetto a tale delitto, che non può considerarsi «di limitata offensività e […] indice di una ridotta pericolosità», infatti, la messa alla prova non si presta «al conseguimento dello scopo – costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost. – della risocializzazione del soggetto» (sentenza n. 90 del 2025) in modo più efficace di altri istituti «parimenti ispirati ad evitare la condanna ad una pena che possa essere percepita come non proporzionata e quindi tale da non favorire la risocializzazione del condannato» (sentenza n. 146 del 2023).

6.– Per le ragioni sopra esposte, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto al delitto di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), va dichiarata inammissibile; le questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 168-bis, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai delitti di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis cod. pen.), e all’art. 27, terzo comma, Cost., vanno dichiarate non fondate.

Corte cost., sent., 30.10.2025, n. 157

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