*Reato – Circostanza – Offensività- Sequestro di persona a scopo di estorsione, bilanciamento delle circostanze e divieto di prevalenza delle attenuanti generiche sulla recidiva reiterata alla luce del principio di offensività e della funzione rieducativa della pena

*Reato – Circostanza – Offensività- Sequestro di persona a scopo di estorsione, bilanciamento delle circostanze e divieto di prevalenza delle attenuanti generiche sulla recidiva reiterata alla luce del principio di offensività e della funzione rieducativa della pena

1.- La Corte d’assise di Roma, sezione prima, solleva, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 25, secondo comma, e 27, commi primo e terzo, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui, con riferimento al reato di cui all’art. 630 cod. pen., vieta la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla recidiva reiterata.

2.- Il giudice a quo è chiamato a decidere sulle accuse mosse nei confronti di due soggetti, imputati di aver commesso – in concorso tra loro e con un terzo (separatamente giudicato), nonché in esecuzione di un medesimo disegno criminoso – i reati di sequestro di persona a scopo di estorsione, lesioni personali aggravate, rapina aggravata e indebito utilizzo di strumenti di pagamento diversi dai contanti.

In un contesto caratterizzato dall’assunzione di «cocaina-crack» da parte di tutti i protagonisti della vicenda, la persona offesa, dopo aver pattuito e poi consumato un rapporto sessuale a pagamento con uno degli imputati, avrebbe subito, tra l’altro, un sequestro a scopo di estorsione: alla vittima, privata della libertà personale per essere stata legata a una sedia e bendata, sarebbe stato richiesto, infatti, come prezzo per la sua liberazione, il pagamento della somma di euro 1.500, oltre a ulteriori importi, di euro 100 per acquistare altra sostanza stupefacente e di euro 250 come rimborso per la perdita di “ulteriori clienti”. Il sequestro sarebbe durato per quasi due giorni continuativi, durante i quali la persona offesa sarebbe stata a più riprese colpita con schiaffi, calci e pugni (anche con l’utilizzo di un asciugamano bagnato e di un mattarello), riportando ecchimosi e fratture. Ciò fino alla sua liberazione ad opera delle forze dell’ordine, che la vittima stessa sarebbe riuscita ad allertare, con l’aiuto dei vicini, approfittando della momentanea assenza degli imputati, che nel frattempo le avevano sottratto, con ulteriori violenze e minacce, il telefono cellulare e una carta di pagamento “postepay”, utilizzata per indebiti prelievi di ulteriori somme di denaro.

Per tutti i suddetti reati, a uno degli imputati è stata contestata «la recidiva specifica e reiterata».

3.- Le questioni superano il preventivo vaglio di ammissibilità, da compiere pur in assenza di eccezioni sollevate da altre parti, non costituitesi né intervenute in giudizio.

3.1.- In primo luogo, risulta condivisibile la riconduzione dei fatti contestati nell’alveo del sequestro estorsivo punito dall’art. 630, primo comma, cod. pen.

Il rimettente ha scrupolosamente adempiuto al dovere, rimarcato di recente da questa Corte, «di valutare con particolare attenzione se i fatti accertati siano effettivamente sussumibili nell’art. 630 cod. pen.» (sentenza n. 113 del 2025).

In quest’ottica, e con il supporto del richiamo a pertinente giurisprudenza di legittimità, il giudice a quo ha attribuito decisiva importanza: (a) al «tempo non irrilevante, pari a due intere giornate», della limitazione della libertà personale della vittima, lasciata prevalentemente legata a una sedia, in un appartamento chiuso a chiave; (b) alle minacce e alle violenze perpetrate, nel corso dell’intero lasso temporale indicato, dai tre imputati (nonché da altri soggetti, rimasti ignoti, fatti appositamente intervenire) e concretizzatesi in schiaffi, calci e pugni e in colpi inferti con un asciugamano bagnato e un mattarello, fino a cagionare ecchimosi e fratture; (c) alla strumentalità delle minacce e delle violenze – poste in essere «in forma violenta, dura, dileggiante e sarcastica» – rispetto alle richieste di denaro, progressivamente crescenti, come prezzo per la liberazione, violentemente preteso «persino dall’inerme madre della vittima».

Si tratta di motivazione che supera ampiamente il vaglio di non implausibilità.

3.2.- Risulta adeguata, al metro del criterio da ultimo indicato, anche la motivazione circa la sussistenza dei presupposti per applicare, a uno degli imputati, la recidiva aggravata specifica e reiterata ai sensi dell’art. 99, secondo e quarto comma, cod. pen.

Il giudice a quo è innanzitutto consapevole del carattere facoltativo dell’applicazione di questa aggravante, come ribadito anche dalla costante giurisprudenza costituzionale (tra le ultime, sentenza n. 230 del 2022), secondo cui essa «si giustifica solo in quanto il nuovo delitto, commesso da chi sia già stato condannato per precedenti delitti non colposi, risulti espressivo in concreto sia di una maggiore pericolosità criminale, sia di un maggior grado di colpevolezza, legato alla più elevata rimproverabilità della decisione di violare la legge penale nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle precedenti condanne» (sentenza n. 74 del 2025).

Proprio al lume di queste indicazioni, il rimettente enumera le plurime condanne (tutte passate in giudicato, e talune in epoca molto recente) già riportate dall’imputato e pronunciate per reati omogenei (rapina e lesioni, furto e ricettazione) a quelli per i quali si procede nel giudizio principale.

Ritiene, quindi, che tali precedenti – che disegnano «il quadro di una carriera criminale di durata ultradecennale connotata da reati gravi, contro la persona e il patrimonio» – siano «sintomatici di una crescente pericolosità sociale, non contenuta neppure dalle misure di cautela personale nel frattempo disposte e, a seguire, dai periodi di detenzione ripetutamente patiti: indubbio sintomo di maggiore colpevolezza e attitudine a delinquere».

Le condotte oggetto delle precedenti condanne sarebbero collegate a quelle contestate nel giudizio a quo e dimostrerebbero «l’incidenza dell’ultima ricaduta nel crimine nel contrassegnare l’ulteriore incremento dell’attitudine a delinquere» dell’imputato, peraltro già dichiarato recidivo reiterato in ben tre sentenze divenute irrevocabili in epoca anteriore alla commissione dei fatti per cui oggi si procede e in esecuzione delle quali sono stati già scontati periodi di detenzione.

Infine, in linea con la stessa giurisprudenza costituzionale (da ultimo, sentenza n. 141 del 2023), la Corte d’assise di Roma aggiunge, del tutto plausibilmente, che non è possibile escludere la recidiva, «non già perché non ve ne siano le condizioni applicative, quanto piuttosto per l’impatto sproporzionato che ne deriverebbe al trattamento sanzionatorio». Come già affermato da questa Corte, si tratterebbe di «un esercizio della discrezionalità del giudice per fini diversi da quelli propri dell’istituto» (sentenza n. 120 del 2023).

3.3.- Sempre rispetto al canone della non implausibilità, risulta altresì adeguatamente motivata la riconoscibilità all’imputato delle attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., peraltro «sollecitate dallo stesso pubblico ministero e dalle Difese».

Il rimettente considera rilevanti, a tal fine, i seguenti profili: (a) le concrete condizioni di vita dell’imputato, «soggetto tossicodipendente in difficoltà economiche, che ha intrapreso un percorso di transizione di genere, comprensivo di trattamenti di tipo farmacologico, organico e fisiologico, al fine di realizzare l’adeguamento tra identità fisica e identità psichica»; (b) il contesto generale della vicenda, caratterizzata dalla «degenerazione di un rapporto sinallagmatico trasmodato con modalità violente»; (c) la corretta e leale condotta processuale «assunta per l’intera durata del dibattimento cui il medesimo ha scelto di presenziare offrendo il proprio utile contributo ricostruttivo del fatto».

Orbene, è vero che l’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., nei casi di recidiva reiterata integrata dalla commissione di un reato che, come appunto il sequestro estorsivo, sia contemplato dall’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale e sia punito con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, ancora inibisce la possibilità di tenere conto, ai fini dell’applicazione delle attenuanti generiche, «dei criteri di cui all’articolo 133, primo comma, numero 3), e secondo comma» cod. pen. e, dunque, per quanto qui interessa, delle «condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo», prese invece espressamente in considerazione dall’odierno rimettente.

Tuttavia, rilievo centrale assume, nella motivazione del giudice a quo, la collaborazione prestata lealmente dall’imputato nel corso dell’intero giudizio, attraverso il contributo offerto alla ricostruzione dei fatti.

Si tratta di un profilo, di natura soggettiva, che può essere utilmente valorizzato dopo che questa Corte, con la sentenza n. 183 del 2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., proprio nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione delle attenuanti generiche, non si può tenere conto della «condotta del reo susseguente al reato» (di cui alla seconda parte dell’art. 133, secondo comma, numero 3, cod. pen.).

Il giudizio di non implausibilità della motivazione è confortato, del resto, dalla stessa giurisprudenza di legittimità, secondo cui «anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole […] può risultare all’uopo sufficiente» (tra le più recenti, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 maggio-9 luglio 2024, n. 27115) e, tra gli elementi positivi valutabili ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, rientra certamente «il corretto comportamento processuale» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 maggio-2 settembre 2009, n. 33690; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 21 luglio-4 settembre 2020, n. 25044, che fa riferimento al «contegno collaborativo assunto dall’imputato»).

3.4.- Infine, per i riflessi in ordine alle valutazioni da compiere non solo in punto di rilevanza, ma anche sul merito delle questioni sollevate, è importante precisare, sempre in via preliminare, che il rimettente offre adeguati argomenti a sostegno dell’insussistenza dei presupposti per riconoscere all’imputato altre attenuanti già sottratte da questa Corte – rispettivamente, con le sentenze n. 141 del 2023 e n. 143 del 2021 (quest’ultima proprio in relazione al sequestro estorsivo) – al divieto di prevalenza in esito al giudizio di bilanciamento con l’aggravante della recidiva reiterata.

3.4.1.- In primo luogo, il giudice a quo si sofferma sull’attenuante integrata dal fatto di «avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità», ai sensi dell’art. 62, numero 4), cod. pen.

Il rimettente richiama l’indirizzo prevalso, in tema di rapina, nella giurisprudenza di legittimità, per la quale è possibile riconoscere la suddetta attenuante solo nel caso in cui la valutazione di speciale tenuità investa sia i pregiudizi arrecati alla persona sia quelli prodotti al patrimonio (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 giugno-15 novembre 2024, n. 42124).

Ritenendo tali principi estensibili anche al sequestro di persona a scopo di estorsione, attesa l’analoga natura plurioffensiva del reato (confermata, tra le tante, da Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 9 marzo-24 maggio 2021, n. 20610), la Corte d’assise di Roma, ancora una volta non implausibilmente, conclude nel senso che «[l]e gravi lesioni fisiche refertate alla vittima a seguito del fatto, guarite in circa trenta giorni, valgono di per sé ad escludere un apprezzamento di speciale tenuità del danno complessivo subito, anche a prescindere dal profilo patrimoniale».

3.4.2.- Su altro versante, il rimettente esclude anche la possibilità di riconoscere l’attenuante del fatto di lieve entità, che questa Corte ha introdotto, con la sentenza n. 68 del 2012, proprio per il sequestro di persona a scopo di estorsione.

Richiamando recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’attenuante in parola postula una valutazione del fatto nel suo complesso (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 26 gennaio-7 marzo 2024, n. 9820), il giudice a quo esclude che, nella vicenda concreta sottoposta al suo esame, il fatto possa essere qualificato di lieve entità (per la durata del sequestro «pari a 48 ore», per l’entità del prezzo per la liberazione, preteso «coinvolgendo pure l’anziana genitrice» e per le modalità attuative, caratterizzate da «serie lesioni fisiche inflitte dai tre correi e da sconosciuti appositamente fatti intervenire», che hanno reso necessario «un ricovero per quattro giornate»).

Si tratta di una motivazione che descrive condotte certamente non sovrapponibili – per la loro indubbia maggiore gravità – a quelle che, in una recente occasione, questa Corte ha ritenuto di gravità comparabile a quella che connotava i fatti nel procedimento che ha dato luogo alla sentenza n. 68 del 2012 (sentenza n. 113 del 2025).

4.- Prima di passare al merito, è utile premettere una sintetica ricostruzione della ormai cospicua giurisprudenza costituzionale che ha affrontato questioni analoghe a quelle oggetto del presente giudizio.

5.- Come ricordato di recente, «[c]ostituisce affermazione risalente nella giurisprudenza di questa Corte quella che il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di valutare il fatto in tutta la sua ampiezza, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto solo di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono (sentenza n. 38 del 1985; da ultimo, sentenza n. 56 del 2025)» (sentenza n. 117 del 2025).

L’art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall’art. 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nel prevedere il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., introduce una deroga al regime ordinario del giudizio di bilanciamento tra circostanze.

Questa Corte ha affermato la «legittimità, in via generale, di trattamenti differenziati per il recidivo, ossia per “un soggetto che delinque volontariamente pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale” (sentenza n. 249 del 2010)» (sentenza n. 205 del 2017, che richiama, a sua volta, le sentenze n. 106 e n. 105 del 2014, e n. 251 del 2012).

Tuttavia, l’esercizio della discrezionalità legislativa non può spingersi fino a determinare «un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (ancora, da ultimo, sentenza n. 117 del 2025).

Quando ciò è accaduto, questa Corte è intervenuta per dichiarare l’illegittimità costituzionale del meccanismo introdotto dalla disposizione censurata, rilevando la lesione dei medesimi parametri oggi evocati, variamente combinati, in relazione ad attenuanti riconducibili essenzialmente a tre rationes: circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva (sentenze n. 117 del 2025, n. 188, n. 141 e n. 94 del 2023, n. 143 del 2021, n. 205 del 2017, n. 106 e n. 105 del 2014, n. 251 del 2012), circostanze espressive di un minor grado di rimproverabilità soggettiva (sentenze n. 55 del 2021 e n. 73 del 2020) e circostanze attinenti alla collaborazione del reo post delictum (sentenze n. 56 del 2025, n. 201 del 2023 e n. 74 del 2016).

5.1.- L’analisi degli argomenti, di volta in volta addotti nelle motivazioni delle sentenze ricordate, consente di ricostruire i contorni di un processo, al contempo, di assestamento e sviluppo della giurisprudenza costituzionale.

Nelle sue prime pronunce, questa Corte ha valutato la tenuta costituzionale del divieto di prevalenza in esame rispetto ad attenuanti ad effetto speciale, come tali espressive di una valutazione operata dallo stesso legislatore in termini di minore disvalore del fatto dal punto di vista dell’offensività, con conseguente riduzione di pena superiore ad un terzo (art. 63, terzo comma, ultimo periodo, cod. pen.).

In queste occasioni (sentenze n. 205 del 2017, n. 74 del 2016, n. 106 e n. 105 del 2014, n. 251 del 2012), si è dato essenzialmente rilievo alla particolare ampiezza della divaricazione tra la pena base prevista per il reato non circostanziato e quella risultante dall’applicazione dell’attenuante caso per caso considerata e si è affermato – a partire dalla pronuncia “capofila” (sentenza n. 251 del 2012) – che la disposizione qui nuovamente censurata imponeva di disconoscere la ridotta portata offensiva del fatto, indirizzando l’individuazione della pena concreta verso «un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato», fondamentalmente in lesione dei principi di proporzionalità e di finalizzazione della pena alla rieducazione del condannato (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.).

Investita successivamente di questioni analoghe, attinenti sempre a circostanze attenuanti connesse alla ridotta dimensione offensiva del fatto, ma questa volta ad effetto comune, questa Corte ha integrato la sua riflessione sul tema.

Da un lato, non ha certamente abbandonato il criterio della eccessiva divaricazione tra pena base e pena prevista per il reato circostanziato, venendo in rilievo, il più delle volte, reati connotati da una cornice edittale particolarmente severa nel minimo, con conseguente notevole abbattimento del quantum di risposta sanzionatoria anche in caso di riduzione «in misura non eccedente un terzo» (come recita l’art. 65, primo comma, numero 3, cod. pen.).

Dall’altro lato, ha cominciato ad attribuire rilievo crescente alla particolare ampiezza della fattispecie del reato non circostanziato, come tale idoneo a ricomprendere condotte marcatamente diverse, e che, per questo, necessitano di essere adeguatamente differenziate nella determinazione del trattamento sanzionatorio.

In quest’ottica, ad esempio, la sentenza n. 143 del 2021 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, introdotta dalla sentenza n. 68 del 2012 in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., rilevando una violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., anche sotto il profilo del principio di eguaglianza.

Più o meno contemporaneamente, si andava affermando un indirizzo incentrato su argomenti complementari rispetto a quelli fino ad allora privilegiati.

Con le sentenze n. 73 del 2020 e n. 55 del 2021, infatti, questa Corte ha neutralizzato il divieto di prevalenza rispetto ad attenuanti, sempre ad effetto comune, ma attinenti alla persona del colpevole e, dunque, espressive non già, sul piano oggettivo, di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore.

Il nucleo delle motivazioni spese in queste occasioni è rinvenibile nell’affermazione contenuta nella sentenza n. 73 del 2020, secondo cui il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige, in via generale, «che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto, “in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile ‘individualizzata’, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di ‘personalità’ della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost. (sentenza n. 222 del 2018)”».

La valorizzazione del principio di individualizzazione della pena ha poi trovato terreno fertile anche in occasione del sindacato sollecitato a questa Corte in ordine al divieto di prevalenza previsto dalla disposizione oggi censurata rispetto a circostanze attenuanti a effetto comune, non specificamente espressive di un minor grado di rimproverabilità soggettiva, ma di nuovo implicanti primariamente la valutazione della dimensione oggettiva dell’offesa al bene giuridico tutelato.

Così, con riferimento all’attenuante del fatto di lieve entità, introdotta con sentenza n. 86 del 2024 in relazione al delitto di rapina, la sentenza n. 117 del 2025 ha affermato che, a fronte di una fattispecie astratta «connotata da intrinseca variabilità nella manifestazione in concreto degli elementi costitutivi, l’impossibilità per il giudice di ritenere prevalente l’attenuante contraddice, inoltre, il principio di individualizzazione della pena (art. 27, primo comma, Cost.), che richiede di tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi». Un principio che, unitamente alla finalità rieducativa della pena, «deve orientare sia le scelte del legislatore nella individuazione del trattamento sanzionatorio, sia le decisioni dei giudici che determinano la pena da irrogare in concreto» (così, ancora, la sentenza n. 117 del 2025).

Tale approccio, del resto, era stato preannunciato già dalla sentenza n. 141 del 2023, con la quale – come ricordato in precedenza (al punto 3.4.) – è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza dell’attenuante, anch’essa attinente alla minore dimensione offensiva del fatto e a effetto comune, del danno di speciale tenuità prevista dall’art. 62, numero 4), cod. pen., applicabile ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio: in quella occasione, infatti, questa Corte, seguendo la traccia già lasciata dalla sentenza n. 94 del 2023 attraverso la ricostruzione di tutti i propri precedenti e delle relative rationes decidendi, ha enucleato «principi comuni», riconducibili «all’esigenza di mantenere un conveniente rapporto di equilibrio tra la gravità (oggettiva e soggettiva) del singolo fatto di reato e la severità della risposta sanzionatoria».

In definitiva, si tratta di riconoscere il ruolo cruciale del giudizio di bilanciamento tra circostanze, che già la sentenza n. 38 del 1985 aveva individuato nel «globale giudizio sia sul fatto di reato che sulla personalità del suo autore», ossia su «tutta la vicenda soggettiva ed oggettiva dell’illecito». A tal fine, il giudice deve essere posto nelle condizioni di attribuire il corretto peso a ciascun elemento della fattispecie concreta, senza essere costretto a sottovalutare necessariamente degli elementi pure ritenuti rilevanti.

6.- Ciò premesso, le odierne questioni chiamano in causa il trattamento sanzionatorio previsto per il sequestro estorsivo, di cui, come innanzi ricordato, questa Corte si è già più volte occupata, anche nell’affrontare la tematica delle deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze eterogenee.

La sentenza n. 143 del 2021, in particolare, ha ricostruito l’evoluzione storica della risposta sanzionatoria al delitto di cui all’art. 630 cod. pen., in origine punito con la pena della reclusione da otto a quindici anni, oltre che con la pena pecuniaria della multa.

L’allarmante incremento degli episodi delittuosi registratosi negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, posti in essere «da pericolose organizzazioni criminali, spesso con efferate modalità esecutive» e connotati «di norma dal rischio della perdita della vita per il sequestrato», determinò un continuo innalzamento delle pene edittali, con una normativa avente «i tratti tipici della legislazione “emergenziale”».

Oggi, il primo comma dell’art. 630 cod. pen. prevede la reclusione da venticinque a trenta anni, sicché il minimo della pena risulta essere «addirittura più elevato – e non di poco – di quello previsto per l’omicidio volontario (punito, nel minimo, con ventuno anni di reclusione: art. 575 cod. pen.)», mentre, nel massimo, la pena è stata fissata «al limite estremo» ammesso per quella detentiva (art. 78 cod. pen.), ben oltre il confine temporale che per quest’ultima, in via generale, l’art. 23, primo comma, cod. pen. stabilisce in ventiquattro anni.

In questo contesto, la più volte citata sentenza n. 68 del 2012 – introducendo anche per il delitto in esame l’attenuante del fatto di lieve entità, sulla falsariga di quella prevista dall’art. 311 cod. pen. – è già intervenuta per mitigare la rigidità della descritta risposta sanzionatoria, definita in quella pronuncia come di «eccezionale asprezza». In tal modo, è fin da allora possibile escludere che tale reazione punitiva si inneschi a fronte di «episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell’emergenza», come ad esempio al cospetto di condotte che, pur rientranti nel modello legale, non mettono in pericolo la vita della persona sequestrata e non si inseriscono in un contesto associativo criminale.

La pronuncia da ultimo citata, tuttavia, ha chiarito pure che l’attenuante della lieve entità del fatto, a effetto comune e indefinita, consente di mitigare la pena «in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo)».

7.- Tale ultimo profilo è colto in modo perspicuo dall’odierno rimettente.

In relazione al sequestro estorsivo, infatti, la Corte d’assise di Roma, nel reclamare la facoltà di compiere in pienezza il giudizio di bilanciamento per le attenuanti generiche, ravvisa la necessità che anche queste ultime, una volta sottratte al divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata, possano assolvere alla medesima funzione mitigatrice di una reazione punitiva estremamente severa, «ma per ragioni diverse» da quelle soltanto oggettive che caratterizzano la lieve entità del fatto.

8.- L’assunto del rimettente poggia dichiaratamente sulla giurisprudenza costituzionale innanzi illustrata (al punto 5.1.) e richiama la funzione che, in essa, è già stata riconosciuta alle attenuanti generiche.

Questa Corte ha chiarito, infatti, che tali circostanze «sono strumenti essenziali a disposizione del giudice» (sentenza n. 197 del 2023) e svolgono la «funzione “naturale” […] di adeguare la misura della pena alla sussistenza di speciali indicatori (oggettivi o soggettivi) di un minor disvalore del fatto concreto all’esame del giudice rispetto alla gravità ordinaria dei fatti riconducibili alla fattispecie base di reato» (sentenza n. 63 del 2022, richiamata dalla successiva sentenza n. 120 del 2023). In particolare, esse consentono non già di elargire una generica indulgenza, ma di attribuire rilevanza, nell’ambito di una precisa motivazione dedicata alla commisurazione della sanzione, «a specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato o del suo autore […] che connotano il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre» (sentenza n. 46 del 2024).

Si tratta di caratteristiche «non tipizzabili ex ante dal legislatore in ragione della loro estrema varietà, e diverse da quelle che già integrano ipotesi “nominate” di attenuazione della pena» (sentenza n. 197 del 2023). La medesima pronuncia da ultimo citata, per quanto qui rileva, ricollegandosi alla sentenza n. 183 del 2011, ha chiarito che l’art. 62-bis cod. pen. consente al giudice di valorizzare anche «le circostanze sopravvenute al fatto di reato, o comunque inerenti alla persona dell’autore, che siano indicative di una sua minore pericolosità, o che comunque la rendano meno meritevole e bisognosa di pena», come spesso accade proprio in presenza di una piena collaborazione processuale, ove il giudice la consideri – come avvenuto nella specie – indice di una positiva evoluzione in atto della personalità dell’imputato.

9.- In applicazione dei principi innanzi illustrati, le questioni sollevate dall’odierno rimettente sono fondate.

10.- Conformemente ai calcoli operati dal giudice a quo, sussiste indubbiamente un ampio scarto tra la pena base prevista per il reato non circostanziato (pari, nel minimo, a venticinque anni di reclusione) e quella risultante dall’applicazione delle attenuanti generiche (sedici anni e otto mesi di reclusione). E ciò già a causa della particolare severità della cornice edittale di partenza e, quindi, a prescindere dall’ulteriore effetto derivante dalla necessità di applicare l’aumento di pena nell’elevata misura prevista dall’art. 81, quarto comma, cod. pen., qualora, come accade nella specie, il sequestro estorsivo sia commesso dal recidivo reiterato in continuazione con altri reati.

Si è già chiarito, infatti, che «l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base […] ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno» (sentenza n. 73 del 2020, richiamata dalla sentenza n. 197 del 2023).

Il rimettente è ben consapevole che, finora, la giurisprudenza di legittimità ha più volte considerato manifestamente infondate analoghe questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento al divieto di prevalenza delle attenuanti generiche sulla recidiva reiterata, sebbene, a quanto consta, relativamente a reati diversi da quello oggi in esame (tra le tante, basti citare le più recenti pronunce della Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 9 gennaio-24 aprile 2025, n. 15889; sezione quarta penale, sentenza 21 giugno-10 ottobre 2024, n. 37215; n. 29723 del 2024).

Tuttavia, nel contesto della complessiva vicenda sottoposta al suo vaglio, ritiene necessario che gli sia restituita, nel giudizio di bilanciamento con la recidiva reiterata, la possibilità di fare applicazione, nella sua massima estensione, di un’ulteriore attenuante che, come appunto quella di cui all’art. 62-bis cod. pen., consenta di valorizzare profili anche diversi da quelli che possono fondare il riconoscimento della lieve entità del fatto, già sottratta alla sfera di operatività della disposizione censurata in relazione al sequestro estorsivo.

I principi costituzionali evocati richiedono che tale esigenza sia soddisfatta.

Questa Corte, infatti, ha affermato che l’eccezionale rigore della pena base del sequestro estorsivo «è solo parzialmente mitigato dalla possibilità di applicare […] la circostanza attenuante del fatto di lieve entità» (sentenza n. 113 del 2025) e che quest’ultima «non “assorbe”, in linea di principio, le attenuanti comuni […], che hanno propri e distinti presupposti di applicabilità. Considerazioni, queste, estensibili, mutatis mutandis, anche […] alle attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.)» (sentenza n. 68 del 2012).

Proprio le attenuanti generiche possono svolgere un ruolo essenziale rispetto a condotte astrattamente rientranti nell’ampio modello legale di cui all’art. 630 cod. pen., ma caratterizzate da un minor “bisogno di pena” per risvolti diversi da quelli oggettivi del fatto e attinenti, piuttosto, ad aspetti soggettivi dell’autore del reato o a caratteristiche “atipiche” di quest’ultimo. Si tratta di una funzione che può dispiegarsi in relazione a profili non solo precedenti o concomitanti rispetto alla commissione del reato, ma anche successivi (come la collaborazione processuale, non integrante le specifiche attenuanti tipizzate dal legislatore nei commi quarto e quinto dell’art. 630 cod. pen.).

La giurisprudenza costituzionale che ha scrutinato la disposizione censurata ha tradizionalmente inteso impedire – sin dalla sentenza n. 251 del 2012 – che una «abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva» andasse «a detrimento delle componenti oggettive del reato».

Ebbene, soprattutto a fronte di una risposta sanzionatoria di «eccezionale asprezza» (sentenza n. 68 del 2012), la medesima necessità si pone anche rispetto a caratteristiche peculiari attinenti al singolo fatto di reato o al suo autore e, dunque, alla vicenda delittuosa intesa nella sua globalità, che solo le attenuanti generiche sono in grado di intercettare.

Del resto, questa Corte ha già chiarito che il principio di proporzionalità «esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018)» (sentenza n. 73 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 197 e n. 94 del 2023 e n. 55 del 2021).

E proprio rispetto al reato in esame si è precisato che il medesimo principio «mira ad assicurare che la reazione sanzionatoria a un fatto di reato, pur offensivo del bene giuridico e colpevolmente realizzato, non risulti eccessiva rispetto alla concreta gravità oggettiva e soggettiva del fatto» (sentenza n. 113 del 2025).

La riscontrata sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle attenuanti generiche – anche negli angusti limiti ancora oggi segnati dal secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. – può appunto costituire espressione di ridotta gravità del reato, sul versante oggettivo o soggettivo.

Conseguentemente, nella commisurazione, in concreto, del trattamento sanzionatorio stabilito in astratto in misura estremamente severa, di tale profilo il giudice deve poter tenere conto «senza essere vincolato a ignorarlo in ragione soltanto della recidiva reiterata dell’imputato. Circostanza, quest’ultima, che nulla ha a che vedere con la gravità oggettiva e soggettiva del singolo fatto di reato, cui la pena – in un sistema orientato alla “colpevolezza per il fatto”, e non già alla “colpa d’autore”, o alla mera neutralizzazione della pericolosità individuale – è chiamata a fornire risposta» (sentenza n. 141 del 2023).

Il censurato divieto normativo, applicato al reato di cui all’art. 630 cod. pen, ridonda anzitutto in una violazione del canone della proporzionalità della pena presidiato dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Tale principio «si oppone a che siano comminate dal legislatore – e conseguentemente applicate dal giudice – pene manifestamente sproporzionate rispetto al disvalore oggettivo e soggettivo del reato» (sentenza n. 188 del 2023, che richiama la sentenza n. 141 del 2023), e impone, invece, di evitare una risposta punitiva che sarebbe immancabilmente avvertita come ingiusta dal condannato, in contrasto con la finalità rieducativa della stessa» (sentenza n. 56 del 2025).

Risulta leso, inoltre, il principio di individualizzazione della pena, che ammette esclusivamente una risposta sanzionatoria «il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost.» (sentenza n. 222 del 2018, richiamata dalla sentenza n. 73 del 2020).

È anche violato il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), perché sarebbe irragionevole applicare il medesimo severo trattamento sanzionatorio a due soggetti, entrambi recidivi reiterati e autori di un identico fatto di sequestro estorsivo, qualora a vantaggio di uno solo di essi ricorressero anche i presupposti per un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche rispetto all’aggravante di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Infine, il divieto di prevalenza delle attenuanti generiche sulla recidiva reiterata contrasta anche con il principio di offensività presidiato dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale «esige che la pena sia sempre essenzialmente concepita come risposta a un singolo “fatto” di reato, e non sia invece utilizzata come misura primariamente volta al controllo della pericolosità sociale del suo autore, rivelata dalle sue qualità personali» (sentenza n. 188 del 2023, che richiama, sul punto, le sentenze n. 205 del 2017, n. 105 del 2014 e n. 251 del 2012).

CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 16.10.2025 n. 151

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