1. Il ricorso va accolto.
2. È fondata la censura che riguarda la corretta applicazione dell’art. 314, cod. proc. pen., e il percorso motivazionale seguito dai giudici territoriali a giustificazione della decisione.
3. Nel caso di specie, l’avvenuta restituzione dell’istante nel termine per appellare ha determinato il successivo superamento del primo giudicato e l’esito processuale confluito nella sentenza della Corte d’appello di declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione. Giova anche specificare, come si evince dalla stessa istanza di riparazione, che la restituzione degli atti al Tribunale, disposta dalla Corte di cassazione Sez. 3, 13874 del 2017, è stata dovuta alla rilevata nullità dell’elezione di domicilio, per insufficienza della formula utilizzata per avvisare del possibile avvio di un procedimento penale, nel verbale in cui l’imputato aveva effettuato l’elezione di domicilio.
4. Com’è noto, a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 310 del 1996, l’art. 314 cod. proc. pen. è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede(va) il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione e violazione dell’art. 5 della Convenzione E.D.U., che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta.
In quella sede, il giudice delle leggi era stato sollecitato a pronunciarsi sulla conformità a Costituzione di un’interpretazione della norma dalla quale restava escluso il caso di un ordine di esecuzione emesso sull’errato presupposto dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di condanna, a seguito del quale l’istante era stata detenuta.
I presupposti per il riconoscimento del diritto, comprensibilmente, non hanno formato oggetto della pronuncia di costituzionalità, in quanto la questione sollevata riguardava l’irragionevolezza della mancata previsione del diritto alla riparazione laddove la ingiusta restrizione della libertà derivi da vicende successive alla condanna, connesse alle modalità di esecuzione della pena, per cui il giudice delle leggi si è occupato di rimuovere la discriminazione ingiustificata. Vi è stato dunque un effetto estensivo dell’istituto disciplinato dall’art. 314 cod.proc. pen.
5. Nell’applicazione successiva della giurisprudenza di legittimità si è fatta plurima applicazione del testo così modificato della disposizione, sempre che la illegittima restrizione sia derivata da un errore dell’autorità che procede all’emissione dell’ordine di esecuzione al quale non abbia concorso un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato (sul punto, in motivazione, Sez. 4 n. 35333 del 5/7/2001, Sandbergh; sempre in motivazione, anche n. 8117 del 24/11/2005, Arsicato). La giurisprudenza ha elaborato e consolidato il principio secondo cui, la riparabilità delle detenzioni ingiuste si estende certamente anche ai casi di condanna, per vicende successive che riguardano l’esecuzione della pena, purché però sussista un errore dell’autorità procedente e non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato che sia stato concausa dell’errore o del ritardo nell’emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data del fine dell’espiazione della pena (in motivazione, sez. 4 n. 57203 del 21/9/2017, Paraschiva, Rv. 271689); n. 9721 del 2022 Rv. 282857 – 01, N. 25092 del 2021 Rv. 281735 – 01, N. 42632 del 2024 Rv. 287112 – 01.
6. Nel caso di specie, attesa la totale obliterazione dell’indagine sulla condotta sinergica dell’interessato nell’ordinanza impugnata, vanno riaffermati i principi espressi da S.U. n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, che, nell’ampia motivazione resa al fine di risolvere il conflitto sulla necessità o meno di accertare l’assenza della condotta sinergica nei casi di cd. ingiustizia formale, fornisce risolutive considerazioni, affermando, in sintesi, che:
– il diritto alla riparazione è definito, in via diretta ed espressa, solo nel primo comma dell’art. 314 cod.proc.pen., che parla di “diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora [il soggetto] non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”:
– nel secondo comma si dice che “lo stesso diritto spetta”, per cui è interpretazione del tutto fedele alla lettera della legge quella secondo cui il diritto oggetto del richiamo operato dal secondo comma sia inclusivo di entrambe le dette componenti;
– ciò anche in considerazione della ratio dell’istituto della riparazione, quale sì è espressa e consolidata nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, ampliato da vari interventi della Corte costituzionale, tra i quali proprio la sentenza 25 luglio 1996, n. 310 (richiamata poi dalla sentenza 10 luglio 2003, n. 284, relativa a esecuzione di pena già espiata all’estero), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione; per giustificare il suo reiterato orientamento ampliativo, la Consulta si richiama al fondamento squisitamente solidaristico dell’istituto in esame. Il concetto risulta espresso con particolare evidenza nella sentenza 16 dicembre 1997, n. 446, della Consulta (richiamata sovente negli interventi sopra citati), nella quale si precisa che “l’esborso a cui lo Stato è tenuto per ingiusta detenzione… si configura non come risarcimento del danno derivante da un fatto illecito ascrivibile ad alcuno a titolo di dolo o di colpa o anche subiettivamente non imputabile, ma come misura riparatoria e riequilibratrice, e in parte compensatrice della ineliminabile componente di alea per la persona, propria della giurisdizione penale cautelare. La riparazione dell’ingiusta detenzione è dunque dotata di un fondamento squisitamente solidaristico: in presenza di una lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta con accertamento ex post, la legge, in considerazione della qualità del bene offeso, ha riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa.”;
– segue tale linea la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla previsione dal secondo comma dell’art. 314 cod.proc.pen., includendo anche ipotesi in cui l’insussistenza delle condizioni per l’adozione o il mantenimento della misura custodiale sia stata accertata ex post e sulla base di elementi acquisiti posteriormente al momento della emissione del provvedimento cautelare e dello stesso svolgimento del procedimento cautelare (Sez. 4, 22 gennaio 2007, n. 8869, Rv. 240332, e Sez. 4, 5 giugno 2007, n. 36907, Rv. 237317, Sez. 4, 9 aprile 2008, n. 23896, Rv. 240333), in ossequio al principio solidaristico), ciò determina un evidente avvicinamento fra le ipotesi dì cui al primo e al secondo comma dell’art. 314 cod.proc.pen., sotto il profilo della possibile comune derivazione della ingiustizia della misura da elementi emersi successivamente al momento della sua applicazione;
– l’elemento della accertata ingiustizia della custodia patita, che caratterizza entrambe le ipotesi del diritto alla equa riparazione (diverse solo per le ragioni che integrano l’ingiustizia stessa) ne disvela il comune fondamento e ne impone una comune disciplina quanto alle condizioni che ne legittimano il riconoscimento; ciò implica in definitiva l’oggettiva inerenza al diritto in questione, in ogni sua estrinsecazione, del limite della non interferenza causale della condotta del soggetto passivo della custodia, valendo il principio, secondo cui il principio solidaristico sotteso all’istituto trova il suo naturale contemperamento nel dovere di responsabilità che incombe in capo a tutti i consociati, i quali evidentemente non possono invocare benefici tesi a ristorare pregiudizi da essi stessi colposamente o dolosamente cagionati;
– i casi in cui in effetti diviene ultronea l’indagine sulla condotta sinergica riguardano quelli in cui l’accertamento dell’ insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della restrizione in carcere avvenga (in qualunque fase del giudizio cautelare, oppure durante l’esecuzione data l’estensione della platea degli interessati) sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento restrittivo, e in ragione esclusivamente di una loro diversa valutazione. Ciò si verifica non per una diversa configurazione strutturale di tale diritto, sibbene in forza dello stesso meccanismo causale che governa l’operatività della condizione in parola. La rilevanza della condotta ostativa si misura infatti non sull’influenzabilità della persona del singolo giudice, bensì sull’idoneità a indurre in errore la struttura giudiziaria preposta alla trattazione del caso, complessivamente e oggettivamente intesa (Sez. U. D’ambrosio cit.; Sez. 4, 15 marzo 1995, Sorrentino).
6. In tempi più recenti (Sez. 4 n. 12186 del 2024), si è pure ricordato il percorso originato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (tra le altre, C.E.D.U., 24 marzo 2015, Messina c. Italia, n. 39824/07), secondo cui è ingiusta una detenzione che, per effetto della riconosciuta liberazione anticipata, sia rimasta sine titulo quando i giudici nazionali sono tenuti, in assenza di un qualsiasi potere discrezionale, ad applicare una tale misura a chiunque soddisfi le condizioni stabilite dalla legge per beneficiarne (Grava c. Italia, n. 43522/98, § 43, 10 luglio 2003, Pilla c. Italia, n. 64088/00, § 41, 2 marzo 2006, Sahin Karatas c. Turchia, n. 16110/03, § 35, 17 giugno 2008, e Del Rio Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, 21 ottobre 2013).
7. Si tratta di parte essenziale del giudizio sulla sussistenza del diritto alla riparazione, sul quale il giudice ha l’obbligo di pronunciarsi dopo aver apprezzato i fatti rilevanti allo scopo. Si tratta di appurare la condizione negativa all’insorgenza del diritto all’indennizzo dell’eventuale comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato, eziologicamente connesso alla detenzione ingiustamente subita in esecuzione di un ordine di esecuzione errato.
8. Il provvedimento censurato, trascurando del tutto tali aspetti essenziali del giudizio instaurato ex art. 314 cod.proc.pen, non ha fatto corretta applicazione di tali principi di diritto,
Consegue a quanto esposto l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato a diversa sezione della Corte d’appello di Roma, che dovrà procedere a nuovo esame alla luce dei principi sopra richiamati, oltre che provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. In ragione del sottostante titolo di reato occorre disporre l’oscuramento dei dati personali.
Cass. pen., IV, ud. dep. 10.10.2025, n. 33530