1. Con la sentenza appellata è stato respinto il ricorso proposto per l’annullamento della determinazione dirigenziale con cui, in data -OMISSIS-, Roma Capitale ha ingiunto la demolizione di opere abusivamente realizzate in via -OMISSIS-.
La ricorrente esponeva:
– di essere proprietaria di un complesso immobiliare in via -OMISSIS-, composto da due immobili ad uso residenziale, costituenti l’abitazione della predetta e di sua figlia (titolare di una società operante nel settore della fabbricazione, distribuzione e conservazione di prodotti sanitari e presidi medico – chirurgici), con annessa corte di pertinenza e manufatti accessori (giusto atto di divisione rep. -OMISSIS-del -OMISSIS-);
– tale complesso è stato oggetto di domanda di condono edilizio ex lege n. 47 del 1985 per la “sanatoria di interventi di ristrutturazione edilizia e di mutamento di destinazione d’uso da agricolo a residenziale dei fabbricati principali”, assentita con concessione n. -OMISSIS- del -OMISSIS-;
– come rivela l’atto di divisione, prodotto agli atti, “tra i manufatti pertinenziali” del compendio figura “un magazzino in tufo (ripostiglio) di circa mq. 24,00”, la cui preesistenza è ulteriormente comprovata da aerofotografia della -OMISSIS-del-OMISSIS-;
– negli scorsi anni tale magazzino è stato ampliato, con utilizzo di materiali diversi, “per consentirne la riconversione da ricovero per gli attrezzi agricoli a deposito per i presidi medico – chirurgici ed elettromedicali” della società della figlia, sempre nell’ambito della medesima categoria generale di destinazione d’uso (art. 6 NTA PRG “depositi e magazzini”);
– in esito a sopralluogo della Polizia Municipale del -OMISSIS-tali opere sono state considerate “abusive”, sicché l’Amministrazione ha dapprima disposto la sospensione dei lavori e, nonostante le osservazioni presentate, ha in seguito adottato la determinazione di demolizione impugnata, riclassificando l’abuso “come violazione dell’art. 16 l. reg. n. 15/08.
La ricorrente impugnava l’ordine di demolizione, proponendo le seguenti censure:
– è stato realizzato un mero ampliamento che “conserva parzialmente la struttura preesistente”; – il locale post – operam “conserva il carattere di pertinenzialità” rispetto al compendio immobiliare (risultando il volume del magazzino pari al 14,4% del fabbricato residenziale principale);
– gli interventi sono stati necessari per adeguare il locale alle prescrizioni contenute nella Circolare Min. Sanità 30.04.93 n. 15 in materia di “Caratteristiche minime dei locali adibiti al deposito e alla vendita di presidi sanitari”;
– pur volendo ipotizzare un mutamento di destinazione d’uso, la stessa sarebbe irrilevante in ragione dell’invarianza della categoria generale della destinazione d’uso produttiva (art. 6 NTA PRG – destinazione produttiva); – l’intervento rientra negli interventi “pertinenziali di modesta entità”, soggetti a scia ex art. 19 l. n. 241 del 1990, connotati dalla carenza di un autonomo valore di mercato.
La ricorrente produceva copia della sentenza n. -OMISSIS-, con cui è stata assolta dal Tribunale Penale di Roma perché “il fatto non sussiste” in relazione al reato di cui all’art. 44 lett. b del D.P.R. n. 380 del 2001 (in ragione della configurazione dell’intervento edilizio “come una semplice ristrutturazione edilizia di un manufatto pertinenziale privo di destinazione residenziale, con ampliamento del volume ma in misura non superiore alle percentuali previste dalla legge e dal P.R.G.”).
Il Tar ha evidenziato che le opere abusive consistono in:
“manufatto in blocchetti di poroton di mq. 70 circa x mt. da 3,00 a 3,60 coperto a due falde spioventi in legno e guaina con apposizione della grondaia, dotato di aperture per finestre e portefinestre prive di telaio, internamente predisposizione dell’impianto idro-termo-elettrico, tramezzato x h mt. 2,00 circa ed intonacato con apposizione di circa n. 5 lucernai sul tetto, esternamente sbruffato in calce”.
Il Tar ha ritenuto che la modifica della sagoma, dell’altezza, dei prospetti e del volume dell’originaria costruzione non consentono di ritenere un intervento come ristrutturazione edilizia ordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001; tali interventi infatti rientrano nella categoria della ristrutturazione edilizia “pesante”, contemplata dall’art. 10 t.u.ed., norma che sostanzialmente assimila l’intervento di ristrutturazione edilizia caratterizzato da incrementi volumetrici ovvero di sagoma e prospetti a quello di una nuova costruzione, quantomeno per le porzioni che costituiscono un novum rispetto alla preesistenza, subordinandone la realizzazione al previo rilascio del permesso di costruire.
Il Tar ha poi escluso il carattere pertinenziale del manufatto.
Ha ricordato che:
– la natura pertinenziale di un manufatto va intesa in senso restrittivo e ritenuta sussistente nei soli casi in cui la portata esigua e la scarsa consistenza dimensionale dell’opera fanno sì che questa non sia idonea a mutare, in maniera consistente, l’assetto del territorio e non presenti un rilevante impatto urbanistico;
– in termini generali, il carattere pertinenziale di un’opera deve sussistere rispetto ad un ulteriore edificio, definito principale, nel rispetto, peraltro, di determinati valori dimensionali nonché dell’utilizzazione che connota quest’ultimo (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. VI, 27 settembre 2016, n. 3977).
Il Tar ha osservato che nel caso di specie le condizioni per convenire in ordine alla natura pertinenziale del manufatto contestato si palesano carenti, atteso che:
– il riferimento all’attività economica della figlia già vale – di per sé – a configurare una funzione autonoma dell’opera rispetto all’edificio principale, destinato ad abitazione o comunque ad escludere la sussistenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale.
Del resto, il Tar ha sottolineato, che, in materia urbanistico-edilizia, la nozione di pertinenza è più ristretta rispetto all’accezione propria dettata dal codice civile e si caratterizza per tratti suoi propri (C.d.S., Sez. VI, 26 aprile 2021, n. 3318), nel senso che un manufatto può essere considerato una “pertinenza” quando non solo è preordinato a un’oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul carico urbanistico mediante la creazione di un nuovo volume (C.d.S., Sez. VI, 11 gennaio 2023, n. 385).
Il Tar ha ritento infondata la censura secondo cui la destinazione d’uso dell’immobile non sarebbe variata o, ancora, che si tratterebbe di un “mutamento giuridicamente irrilevante, atteso che resta invariata la categoria generale di destinazione d’uso produttiva”.
Trattasi infatti di diversa destinazione, atta a determinare un mutamento di sicura rilevanza giuridica sotto il profilo urbanistico-edilizio.
2. Parte appellante ritiene che la qualificazione dell’intervento fornita dal TAR sarebbe erronea.
Il Tar non avrebbe adeguatamente valutato la natura pertinenziale del manufatto e la reale, irrilevante consistenza dimensionale dell’intervento, evidenziata nella relazione tecnica in atti dell’Ing. -OMISSIS-, richiamata e valorizzata negli scritti difensivi di primo grado, ove si precisa quanto segue:
“le opere contestate consistono nell’ampliamento di un piccolo manufatto, costituente pertinenza dell’edificio principale, di proprietà della Sig.ra -OMISSIS-”;
“il volume utile complessivo del manufatto, post ampliamento, risulta pari a 231 mc dei quali 51 mc circa relativi al manufatto legittimo preesistente”;
“il volume post-operam del manufatto pertinenziale non risultando maggiore del 20% della cubatura sviluppata dall’abitazione principale, e trattandosi di ampliamento di pertinenza già esistente, non può configurarsi come nuova costruzione (art. 3 comma 1 lett. e6 del DPR n. 380/2001 Testo Unico Edilizia)”. Risulterebbe pertanto ampiamente rispettato il limite volumetrico del 20% del manufatto pertinenziale rispetto alla cubatura dell’abitazione principale.
Parte appellante fa riferimento al T.U. Edilizia, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, che suddivideva infatti le pertinenze in tre categorie:
a) “interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici … qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale” (art. 3 lett. e.6 T.U.). Tali pertinenze erano (e sono) soggette a permesso di costruire ex art. 10 T.U.;
b) interventi pertinenziali minori, che per la loro rilevanza del tutto marginale rientrano nella c.d. attività edilizia libera, ed erano realizzabili senza alcun titolo abilitativo, previa comunicazione all’A.C. dell’inizio lavori (art. 6 co. 2 T.U.);
c) interventi pertinenziali di modesta entità, che non rientrano tra quelli indicati sub a) e sub b. Nel regime attuale, gli stessi sarebbero soggetti a Scia ai sensi dell’art. 19 della legge n° 241/90.
L’intervento in esame rientrerebbe in quest’ultima categoria, posto che il volume del manufatto pertinenziale è inferiore al 20% del volume dell’edificio principale.
Parte appellante evidenzia quanto segue:
– il locale, costituito da ripostiglio e ricovero attrezzi, sarebbe indicato nell’atto notarile di divisione come struttura insistente sull’area annessa all’immobile attribuito all’appellante, e dunque di natura pertinenziale;
– detto manufatto ha formato oggetto della domanda di condono;
– la concessione in sanatoria n. -OMISSIS- del -OMISSIS- autorizzerebbe anche destinazioni d’uso non residenziali per mq. 107,80.
Secondo parte appellante il rispetto dei limiti dimensionali fissati dal T.U. Ed. confermerebbe il carattere pertinenziale del manufatto post ampliamento, escludendo che l’intervento possa alterare in modo significativo l’assetto territoriale o incidere sul carico urbanistico.
Parte appellante evidenzia altresì che:
– il locale ripostiglio “incriminato” costituisce pertinenza dell’immobile di -OMISSIS- (edificio principale) attribuito alla Appellante in sede di divisione);
– detto immobile, oltre a costituire l’abitazione della Sig.ra -OMISSIS-, ospita anche la sede secondaria della ricordata -OMISSIS-, come risulta dalla visura camerale della Società, sicché sussisterebbe un nesso funzionale tra la cosa accessoria e quella principale.
Parte appellante contesta l’affermazione, contenuta nella sentenza appellata, secondo cui la struttura ha “assunto una propria diversa destinazione, atta a determinare un mutamento di sicura rilevanza giuridica sotto il profilo urbanistico-edilizio.
Parte appellante osserva che la natura pertinenziale del manufatto non è mutata in virtù del contenuto ampliamento dello stesso.
Secondo parte appellante le opere in contestazione non avrebbero comportato alcun mutamento di destinazione d’uso dell’immobile, che avrebbe mantenuto la sua concreta utilizzazione a deposito, in quanto il cambiamento riguarda solo il tipo di materiali che avrebbero dovuto essere ivi conservati (non più attrezzi agricoli, ma presidi medico – chirurgici ed elettromedicali).
L’immobile della appellante funge anche da sede secondaria della Società -OMISSIS-s.r.l., di cui è amministratrice la Sig.ra -OMISSIS-, figlia della ricorrente e residente nel complesso immobiliare di via -OMISSIS-; detta Società svolge attività di distribuzione, commercio e deposito di prodotti sanitari, presidi medico – chirurgici e apparecchiature sanitarie.
L’intervento sarebbe stato realizzato al solo scopo di adeguare il locale alle prescrizioni contenute nella Circolare Min. Sanità 30.04.93 n. 15 in materia di “caratteristiche minime di sicurezza dei locali adibiti al deposito e alla vendita di presidi sanitari”.
In subordine parte appellante fa presente che, quand’anche si volesse ipotizzare un mutamento della destinazione d’uso del manufatto in oggetto conseguente alla diversa tipologia di prodotti ivi immagazzinati, si tratterebbe di un mutamento giuridicamente irrilevante, atteso che resterebbe invariata la categoria generale di destinazione d’uso produttiva.
Parte appellante richiama il d. m. n° 1444/68 e l’art. 23 ter co. 1 T.U. Edilizia, secondo cui costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso l’assegnazione dell’immobile “ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale”.
Il terzo comma afferma poi che “il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.
Richiama altresì l’art. 6 NTA PRG che ricomprende nella destinazione produttiva “artigianato produttivo, industria, commercio all’ingrosso, depositi e magazzini”.
Gli interventi eseguiti non sarebbero quindi subordinati al previo rilascio del permesso di costruire.
Parte appellante lamenta altresì violazione dell’art. 654 del cod. di proc. pen perché il TAR non avrebbe considerato la sentenza del Tribunale Penale di Roma -OMISSIS-, irrevocabile, con cui la Sig.ra -OMISSIS-, in relazione ai medesimi fatti contestati in sede amministrativa con la D.D. impugnata, è stata assolta dal reato a lei ascritto (art. 44 lett. “B” del D.P.R. n. 380/2001) perché “il fatto non sussiste”.
3. L’appello è infondato.
Il Tar ha correttamente richiamato l’art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui “costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire:
a) gli interventi di nuova costruzione;
b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica;
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso.
Così, sono subordinati a previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, D.P.R. n. 380 del 2001gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici.
Nel caso di specie la modifica della sagoma, dell’altezza, dei prospetti e del volume dell’originaria costruzione e la modifica della destinazione d’uso non consentono di ritenere un intervento come ristrutturazione edilizia ordinaria, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 380 del 2001; tali interventi infatti rientrano nella categoria della ristrutturazione edilizia “pesante”, contemplata dall’art. 10 t.u.ed., norma che sostanzialmente assimila l’intervento di ristrutturazione edilizia caratterizzato da incrementi volumetrici ovvero di sagoma e prospetti a quello di una nuova costruzione, subordinandone la realizzazione al previo rilascio del permesso di costruire.
L’intervento ha modificato una costruzione, indicata quale mero “accessorio del fabbricato”, costituita da un “ricovero attrezzi” e da un “ripostiglio”, di mq. 24.
Le opere contestate consistono in un manufatto di mq. 70 circa con altezza da metri 3,00 a 3,60”, dotato di finestre e portefinestre, con predisposizione dell’impianto idro-termo-elettrico.
Il collegio osserva che parte appellante non ha smentito i fatti accertati da Roma Capitale.
Così nella relazione tecnica depositata nel giudizio di primo grado dalla parte ricorrente (documento n° 16) si legge quanto segue:
“l’originario manufatto, realizzato con blocchetti di tufo, sviluppava una superficie lorda di circa mq 31,65, con tetto ad una falda;
il volume interno veniva utilizzato come ricovero attrezzi di macchinari agricoli e come ripostiglio per utensili da giardinaggio;
la copertura, ad una falda inclinata, aveva da un lato altezza di mt. 2,60 e dall’altro di mt. 1,60;
l’ampliamento per il quale è stata ingiunta la demolizione conserva parzialmente la struttura preesistente, estendendosi rispetto alla sagoma originale, da un lato, per circa mt. 3,40 e dall’altro per circa mt. 5,20, con una cubatura aggiuntiva di mt. 51,60;
le modifiche apportate sono dovute ad una diversa tipologia dei materiali ed attrezzi ivi ricoverati: da alloggiamento per macchinari agricoli a deposito per presidi medico-chirurgici ed elettromedicali;
le opere hanno comportato maggiore volumetria ed altezza, la messa in opera di lucernari, la creazione di finestrature più ampie ed un impianto idro-termo-elettrico.”
Pertanto il preesistente ripostiglio non è stato oggetto di una semplice ristrutturazione ma di una rilevante trasformazione, che ne ha comportato un considerevole accrescimento volumetrico, nonché un cambio di destinazione d’uso (da ricovero attrezzi di macchinari agricoli e ripostiglio per utensili da giardinaggio a deposito per presidi medico chirurgici ed elettromedicali).
Ne consegue l’obbligo del previo rilascio del permesso di costruire.
4. E’ infondata la censura che fa riferimento al carattere pertinenziale del manufatto.
Il collegio ricorda che il concetto di pertinenza urbanistica è più ristretto rispetto di quello civilistico ed è applicabile solo ad opere di modesta entità che risultino accessorie rispetto ad un’opera principale e non a quelle che, da un punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all’opera principale e non siano coessenziali alla stessa (così Consiglio di Stato VII n° 5605 del 25 giugno 2024).
Come correttamente osservato dal Tar, le caratteristiche delle opere escludono il carattere pertinenziale.
Infatti il riferimento all’attività economica della figlia ossia deposito e vendita di presidi sanitari, come evidenziato dalla stessa ricorrente configura una funzione autonoma dell’opera rispetto all’edificio principale, destinato ad abitazione ed esclude la sussistenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale.
5. E’ infondata la censura secondo cui la destinazione d’uso dell’immobile non sarebbe variata o, ancora, che si tratterebbe di un “mutamento giuridicamente irrilevante, atteso che resta invariata la categoria generale di destinazione d’uso produttiva”.
Infatti il fabbricato ha natura residenziale.
Anche la concessione in sanatoria rilasciata in data -OMISSIS-, depositata in giudizio dalla ricorrente nel giudizio di primo grado, fa riferimento alla destinazione residenziale come anche da relazione tecnica in data-OMISSIS-a firma del tecnico incaricato dalla proprietà che qualifica i locali a deposito come accessori esterni all’abitazione.
L’attività svolta ossia deposito e vendita di presidi sanitari deve essere raffrontata con la tipologia d’uso residenziale cui è all’evidenza estranea con conseguente diversa incidenza sul carico urbanistico.
6. E’ infondata la censura con cui parte appellante lamenta violazione dell’art. 654 del cod. pen. perché il TAR non avrebbe considerato la sentenza del Tribunale Penale di Roma -OMISSIS-, irrevocabile, con cui la Sig.ra -OMISSIS-, in relazione ai medesimi fatti contestati in sede amministrativa con la D.D. impugnata, è stata assolta dal reato a lei ascritto (art. 44 lett. “B” del D.P.R. n. 380/2001) perché “il fatto non sussiste”.
A prescindere dal fatto che la censura è inammissibile perché l’invocato necessario rispetto della sentenza penale richiamata da parte appellante non è stato oggetto del ricorso o di motivi aggiunti ritualmente proposti, tale censura è comunque infondata.
Il collegio ribadisce che il carattere vincolante, nei riguardi del giudizio amministrativo, dell’accertamento compiuto dal giudice penale è subordinato alla ricorrenza di presupposti rigorosi:
– sotto il profilo soggettivo, il giudicato è vincolante solo nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale; non, quindi, nei confronti di altri soggetti che siano rimasti a esso estranei, pur essendo in qualche misura collegati alla vicenda penale;
– sotto il profilo oggettivo, il vincolo copre solo l’accertamento dei “fatti materiali” e non anche la loro qualificazione o valutazione giuridica, che rimane circoscritta al processo penale e non può condizionare l’autonoma valutazione da parte del giudice amministrativo o civile o dell’amministrazione (così Consiglio di Stato VI n° 9665 del 10 novembre 2023).
Il presente giudizio amministrativo ha ad oggetto la legittimità dell’ordine di ripristino, estraneo al giudizio penale che ha invece avuto riguardo all’accertamento di reato che comporta la valutazione dei profili soggettivi estranei al giudizio amministrativo.
L’appello deve pertanto essere respinto.
La condanna alle spese dell’appello segue la soccombenza nella misura di Euro 4.000.
CONSIGLIO DI STATO, VII – sentenza 03.10.2025 n. 7758