1. Con ricorso proposto al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), l’odierna appellante, Stefania Turriziani, ha chiesto l’annullamento dell’ordinanza in epigrafe che la quale il Comune di Frosinone le ha ordinato la demolizione dell’opera – consistente in un portico con struttura portante in pilastri in calcestruzzo e legno – realizzata in zona “B” di P.R.G. in assenza del necessario titolo abilitativo.
1.1. La ricorrente ha ricordato che tale opera – da lei ridefinita come piccola tettoia sorretta da tre pilastri in appoggio alla parete perimetrale della propria unità immobiliare – era stata oggetto di una prima ordinanza di demolizione nel 1997, avverso la quale aveva proposto ricorso al Tribunale amministrativo; dato che, nelle more, era stata avanzata domanda di accertamento di conformità, ex art. 13 della l n. 47 del 1985, e il relativo giudizio si era concluso con statuizione di improcedibilità nell’attesa della definizione espressa da parte del Comune, il quale, dal canto suo, non si era mai pronunciato e, anzi, aveva adottato nel 2012 l’ordinanza impugnata.
1.2. In sintesi, la ricorrente in prime cure ha lamentato varie forme sintomatiche di eccesso di potere e la violazione del principio del giusto procedimento.
1.2.1. Il Comune sarebbe stato tenuto prima a definire il procedimento di sanatoria e solo dopo avrebbe potuto adottare nuova ordinanza di demolizione.
1.2.2. Né poteva rilevare il rigetto di altra istanza ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 presentata nel 2009, dato che doveva valutarsi comunque la domanda del 1997, presentata quando il Regolamento edilizio comunale non era ancora in vigore, a differenza della domanda del 2009, sicché, a dire dell’appellante, permaneva l’interesse a decidere il ricorso, anche per superare la motivazione sulla tardività dell’istanza del 2009 sollevata dal Comune a sostegno del diniego in quella sede opposto.
1.2.3. In secondo luogo, l’interessata ha osservato che la tettoia in questione aveva funzione di pertinenza ed era di dimensioni modeste, non necessitando pertanto del permesso di costruire, come da giurisprudenza che era richiamata.
1.2.4. Infine, per la peculiarità della fattispecie, era lamentata anche la violazione dell’art. 7 l. n. 241/90 e del principio di partecipazione procedimentale.
1.3. Si è costituito nel primo grado del giudizio il Comune di Frosinone, evidenziando di essersi, in realtà, pronunciato sulla domanda di condono presentata nel 1997, con la nota di diniego del 6 febbraio 2009, fermo restando che si era ad ogni modo formato un silenzio-diniego per la legislazione applicabile.
1.4. Con ulteriori motivi aggiunti, l’appellante Stefania Turriziani ha chiesto al Tribunale l’annullamento della nota di diniego del 6 febbraio 2009, mai notificata personalmente e conosciuta solo con la costituzione in giudizio del Comune, nonché di quella del 10 novembre 1999 e della intervenuta ordinanza del 3 ottobre 2013 di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere realizzare e non demolite.
1.5. In sintesi, la ricorrente in prime cure anche in questo caso ha lamentato varie forme sintomatiche di eccesso di potere, in quanto il richiamo al mancato rispetto della norma sui “distacchi” ai sensi dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, su cui si era basato il diniego di condono, non sarebbe stato conferente, in assenza dell’adozione di un piano particolareggiato per la zona “B” ove ricadeva l’immobile e precedentemente al regolamento edilizio vigente, adottato solo il 4 giugno 2003, fermo restando che tale norma si applicava alle sole “pareti finestrate” e non a tettoie o portici privi di pareti e finestre.
1.6. In secondo luogo, la ricorrente ha lamentato l’illegittimità derivata della nota di acquisizione gratuita impugnata nonché la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e degli art. 3 e 7 della l. n. 241 del 1990, oltre all’eccesso di potere, in quanto era assente l’indicazione dell’area che il Comune intendeva acquisire, anche mediante, necessario, previo frazionamento e perché comunque era stato violato nuovamente il suo diritto alla partecipazione procedimentale.
1.7. Inoltre, il richiamo nel provvedimento impugnato alla acquisizione ai soli fini della demolizione non appariva corretta applicazione della norma di cui all’art. 31 del citato d.P.R. n. 380 del 2001, palesandosi in tal modo meramente strumentale alla sola demolizione.
1.8. Il Comune di Frosinone, a sua volta, ha depositato una ulteriore memoria, in cui ha rimesso al Tribunale amministrativo la valutazione sulla tardività dell’impugnazione delle note del 2009 e ha confutato nel merito le doglianze della ricorrente.
1.9. All’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato dell’11 ottobre 2022, la causa è stata trattenuta in decisione dal primo giudice.
2. All’esito del giudizio, così incardinato, il Tribunale amministrativo ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti con la sentenza n. 859 del 26 ottobre 2022.
2.1. Avverso tale sentenza ha proposto appello Stefania Turriziani, articolando diversi motivi di censura che di seguito verranno esaminati, e ne ha chiesto la riforma, con il conseguente annullamento degli atti in prime cure gravati.
2.2. Si è costituito il Comune di Frosinone per chiedere la reiezione dell’appello.
2.3. Le parti hanno depositato le rispettive memorie in vista dell’udienza pubblica.
2.4. Nell’udienza pubblica del 9 settembre 2025 il Collegio, sentito il difensore dell’appellante, ha trattenuto la causa in decisione.
3. L’appello è infondato.
4. Con il primo motivo (pp. 3-8 del ricorso), anzitutto, l’odierna appellante lamenta che erroneamente il primo giudice avrebbe revocato l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in assenza dei presupposti previsti dall’art. 136, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002.
4.1. Il motivo deve essere respinto.
4.2. Sulla specifica questione, anzitutto, deve rilevarsi che non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo, come la costante giurisprudenza sia di questo Consiglio di Stato che della Cassazione riconosce (v., sul punto, Cons. St., Ad. plen., 6 maggio 2024, n. 10, in particolare §§ 5.8.-6, nonché, più di recente, Cass., Sez. Un., 1° giugno 2025, n. 14725, ord.), ma la mancata contestazione della giurisdizione, ai sensi dell’art. 9 c.p.a., preclude a questo giudice di potere d’ufficio, in grado di appello, rilevare la questione inerente al proprio difetto di giurisdizione.
4.3. Invero il primo giudice ha ritenuto, seppure con formula estremamente sintetica, che l’integrale soccombenza dell’odierna appellante comportasse la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, con ciò assumendo, all’evidenza, integrato il presupposto della manifesta infondatezza del ricorso ai sensi dell’art. 136, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002.
4.4. E tanto, come ora si dirà, il Tribunale ha fatto non erroneamente, in quanto, a tacer d’altro, l’originario ricorso proposto dall’odierna appellante era inammissibile, non risultando impugnato nei termini il provvedimento di diniego di “sanatoria”, su domanda del 14 gennaio 2009, opposto dal Comune in data 26 maggio 2011, provvedimento emerso nel corso del giudizio.
4.5. La giurisprudenza citata e depositata dall’appellante in ordine alla revoca dell’ammissione a patrocinio a spese dello Stato, a fronte di questo dirimente rilievo, risulta dunque inconferente rispetto al caso di specie.
4.6. Il motivo, pertanto, va respinto.
4.7. Va comunque precisato che la reiezione del motivo di impugnativa appena esaminato non comporta anche la revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio del grado di appello, ammessa in via anticipata e provvisoria dalla Commissione costituita presso questo Consiglio con decreto n. 90/2023.
5. Con il secondo motivo (pp. 8-10 del ricorso), ancora, l’appellante sostiene che il primo giudice avrebbe errato nella ricostruzione dell’intera vicenda, dichiarando inammissibile il ricorso, in quanto il fatto che fosse stata rigettata un’altra istanza di sanatoria, quella del 2009, e che il relativo diniego fosse definitivo per mancato gravame, nulla sposta né potrebbe rendere inammissibile il ricorso avverso la demolizione, fondato invece sul mancato esito dell’istanza del 1997.
5.1. Anche questo motivo, tuttavia, è infondato perché fermo restando che, in data 14 gennaio 2009, la ricorrente ha presentato per il medesimo abuso edilizio una nuova istanza di rilascio di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, identica a quella già avanzata nell’anno 1999 (onde quest’ultima può ritenersi assorbita e sostituita da quella successiva la quale, come risulta per tabulas, è stata respinta nel 2011 con provvedimento notificato a Stefania Turriziani e dalla stessa non impugnato), in ogni caso, come ha osservato la sentenza gravata, la ricorrente ha comunque potuto esercitare i propri diritti difensivi impugnando anche il provvedimento di rigetto dell’istanza di sanatoria del 1999 adottato dall’amministrazione, attraverso la proposizione di motivi aggiunti.
5.2. Il motivo dunque, anche ad ammetterne per ipotesi la fondatezza, è privo di decisività perché comunque il primo giudice ha affrontato, e respinto, le questioni inerenti al rigetto dell’istanza presentata nel 1997, anche laddove si dovesse ammettere che questa prima istanza non fosse stata “assorbita” dalla nuova istanza del 2009, che non si comprende, diversamente, per quale ragione l’odierna appellante avrebbe dovuto presentare, se realmente convinta della permanente efficacia di quella precedente, come sostiene invece in questa sede.
5.3. Il motivo, dunque, va respinto.
5.4. Nemmeno risultano fondate, si deve qui aggiungere, le censure dell’appellante (pp. 10-13 del ricorso) relative all’inesistenza e/o all’inopponibilità del provvedimento del 1999, depositato solo nel presente giudizio dal Comune, non essendo stato esso mai citato né prodotto dal Comune prima d’ora, nemmeno nel giudizio definito dalla sentenza n. 252 del 2009 del Tribunale, che considerò tamquam non esset l’ordinanza di demolizione adottata dal Comune nel 1997 proprio per mancanza di qualsiasi definizione dell’istanza di sanatoria del 1997.
5.5. Invero, la circostanza che detto provvedimento non sia stato depositato, per una svista, in quel giudizio, ma solo nel presente, nulla toglie al fatto che esso, una volta prodotto, dovesse comunque essere impugnato tempestivamente nel presente giudizio, come l’appellante ha del resto fatto con i motivi aggiunti, dato che la sentenza n. 252 del 2009 aveva dichiarato improcedibile il ricorso contro l’ordinanza di demolizione finché il Comune non avesse provveduto sull’istanza del 1997 sul presupposto, appunto, che esso non avesse provveduto, mentre è emerso nel presente giudizio che detto provvedimento esistesse già, per quanto notificato, ed è stato comunque ritualmente impugnato con motivi aggiunti dall’appellante, respinti dal Tribunale sulla base delle motivazioni che qui si passa ad esaminare.
6. Infatti e ancora, con un ulteriore motivo (pp. 13-16 del ricorso), l’odierna appellante assume comunque che avrebbe errato il primo giudice, esaminando nel merito il rigetto dell’istanza comunque presentata nel 1997, a ritenere che l’opera – una tettoia aperta su tre lati – necessitasse del permesso di costruire, sostenendo, al contrario, come alla tettoia edificata dall’odierna appellante si attaglino alla perfezione i requisiti e le peculiarità propri delle pertinenze, pur nella ristretta accezione utilizzata in urbanistica (rispetto a quella ordinaria da codice civile): essa, invero, senza essere parte costitutiva ed integrante dello stabile principale, ma essendo posta al servizio permanente della villetta, è di modeste dimensioni nonché di impatto minimo dal punto di vista dell’ ingombro e del carico edilizio-urbanistico.
6.1. Anche questo motivo, tuttavia, deve essere disatteso in quanto l’opera in discussione – consistente nella realizzazione di un portico con struttura portante in pilastri di calcestruzzo e copertura in legno con sovrastante manto di laterizi della superficie di mq. 24 – rappresenta, a dispetto della riduttiva prospettazione dell’appellante, un’indubbia trasformazione urbanistico-territoriale, con durevole e significativa modifica dello stato dei luoghi, in ragione delle dimensioni non modeste delle opere e delle loro caratteristiche strutturali, dovendosi ricordare che «il portico è costituito da uno spazio coperto che almeno da un lato è costituito da colonne e pilastri e, quindi, più esteso» rispetto, ad esempio, ad una ben più modesta veranda (v. Cons. St., sez. VI, 2 luglio 2018, n. 4001).
6.2. Né si può addurre la natura pertinenziale del manufatto abusivo, come la ricorrente sembra prospettare, peraltro senza offrire alcuna prova al riguardo.
6.3. In proposito, corre l’obbligo evidenziare che la nozione di pertinenza, in base alla definizione che ne fornisce l’art. 817 c.c. (per il quale sono pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa), presuppone l’esistenza di due beni distinti, dei quali l’uno è strumentale, subordinato e complementare rispetto ad un altro, conservando il primo una propria individualità ed autonomia rispetto al secondo cui è funzionalmente collegato.
6.4. Applicando tale definizione alle pertinenze urbanistiche, si ritiene che la pertinenzialità rispetto all’immobile principale debba essere oggettiva e non possa desumersi, a differenza di quanto consente la nozione civilistica di pertinenza, dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario.
6.5. In tale senso si è espressa la pressoché costante ed univoca giurisprudenza amministrativa e basti qui richiamare, tra le tante, la sentenza di codesto Consiglio di Stato, sez. II, 22 luglio 2019, n. 5130, che ritiene configurabile «la pertinenza urbanistico-edilizia solo quando sussiste un oggettivo nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso servente durevole e sussista una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa in cui esso inerisce, trattandosi quindi di “opere di modestissima entità e accessorie rispetto a un’opera principale».
6.5. È evidente come l’opera abusiva realizzata dalla odierna appellante non possa essere qualificata come pertinenza (invero neppure sotto il più ampio profilo civilistico) sia per il difetto di un nesso necessario e oggettivo di strumentalità rispetto ad altro edificio principale, sia per la sua consistenza che è tale da alterare significativamente l’assetto del territorio.
6.6. Il motivo, pertanto, va respinto.
7. Ancora, con un ulteriore motivo (pp. 16-18 del ricorso), l’appellante, lamentando la violazione della partecipazione procedimentale, deduce che se il Comune avesse assolto all’onere di comunicare l’avvio del procedimento, avrebbe potuto senz’altro acquisire elementi di giudizio in contraddittorio con l’interessata, utili alla migliore rappresentazione del fatto.
7.1. Anche questo motivo, tuttavia, è infondato perché, anche a prescindere, come si è detto, dalla considerazione per la quale l’appellante non ha impugnato il diniego del 2011, l’ordinanza di demolizione, per consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, ha natura vincolata, dovendosi qui rammentate che, in materia di abusi edilizi, quanto alla dedotta violazione delle garanzie procedimentali sancite dalla l. n. 241 del 1990, l’attività di repressione degli abusi edilizi attraverso l’ordinanza di demolizione, per la sua natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati e che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare ex art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, alcun esito diverso, sulla scorta dell’evidente rilievo che l’apporto partecipativo che il privato avrebbe potuto offrire non era comunque in grado di escludere l’abusività delle opere realizzate e, dunque, di condurre ad un diverso esito procedimentale (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 9 aprile 2024, n. 3228).
7.2. Anche sul punto pertanto la sentenza impugnata, nell’avere fatto buon governo di tali consolidati principi di diritto, merita conferma.
8. Ancora, con un ulteriore motivo (pp. 18-20 del ricorso), l’appellante deduce che, in assenza di piano particolareggiato e di regolamento edilizio, non sussistono limiti di distanze inter privatos diversi da quelli del codice civile, in quanto il D.M. n. 1444 del 1968 non ha portata precettiva verso i privati e, pertanto, avrebbe errato il Tribunale nel ritenere applicabile l’art. 9 di tale D.M. anche in assenza di paino particolareggiato per la zona “B” di P.R.G.
8.1. Anche questo motivo, però, è privo di fondamento solo che si consideri che, sempre per la consolidata giurisprudenza alla quale in questa sede deve essere data, come del resto ha fatto il primo giudice, ininterrotta continuità, l’ipotesi derogatoria contemplata del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, u.c., che consente ai Comuni di prescrivere distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale ove le costruzioni siano incluse nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione («Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»), riguarda soltanto le distanze tra costruzioni insistenti su fondi che siano inclusi tutti in un medesimo piano particolareggiato o per costruzioni entrambe facenti parte della medesima lottizzazione convenzionata (così Cass., Sez. Un., 18 febbraio 1987, n. 1486, seguita da tutta la successiva giurisprudenza), mentre, se le costruzioni non siano comprese nel medesimo piano particolareggiato o nella stessa lottizzazione, la disciplina sulle relative distanze non è, quindi, recata del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, u.c., bensì dal comma 1 dello stesso art. 9 («Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue: (…)»), quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva (Cass., sez. II, 7 novembre 2017, n. 26354).
8.2. Come più generalmente affermato dalla sentenza n. 8 del 23 gennaio 2013 della Corte costituzionale, del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, u.c., costituisce espressione di una “sintesi normativa”, consentendo che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, pur provvista di “efficacia precettiva e inderogabile”, solo nei limiti ivi indicati, ovvero a condizione che le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici siano »inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
8.3. Di qui l’infondatezza del motivo in esame, perché il comma primo dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, per quanto detto, ha appunto efficacia precettiva e inderogabile (cfr., sul punto, anche Cons. St., sez. VII, 12 dicembre 2024, n. 10029), diversamente da quanto sostiene l’appellante con argomenti superati o, comunque, confutati anche dalla giurisprudenza costituzionale in materia ora richiamata.
8.4. Il Tribunale ha correttamente respinto la doglianza concernente la presunta erronea applicazione dei limiti di distacco tra fabbricati ex art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, evidenziando, giustamente, che la norma invocata non si applica, come sostenuto dall’appellante, solo alle pareti finestrate, ma è applicabile anche tra una parete finestrata e una non finestrata, essendo rivolta non alla tutela del diritto alla “riservatezza”, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie (Cons. St., sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3094).
8.5. Anche questo motivo, pertanto, va respinto.
9. Con un ulteriore motivo (pp. 20-22 del ricorso), ancora, l’appellante deduce ancora, quanto all’ordinanza di acquisizione, che essa sarebbe illegittima per non essere stata esattamente individuata l’area di sedime, coincidendo il mappale n. 817 con l’intera proprietà dell’appellante, in contrasto con quanto prescrive l’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, sicché il Comune non potrebbe nemmeno, per ipotesi, trascrivere il provvedimento di acquisizione, mentre sulla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento l’appellante richiama le considerazioni svolte in ordine al contraddittorio procedimentale mancato anche per l’ordinanza di demolizione, già sopra disaminate.
9.1. Anche questo motivo, tuttavia, è infondato.
9.2. Bene ha infatti respinto la censura il primo giudice, con motivazione che va esente da censura, in quanto va ricordato che mentre l’acquisizione di aree ulteriori deve essere puntuale e giustificata dalla ricorrenza di una esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico-edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di terreno extra sedime, quanto all’area di sedime, diversamente, l’automatismo dell’effetto acquisitivo, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, rende superflua ogni motivazione sul punto e l’individuazione della stessa può evincersi anche dalla descrizione degli interventi sanzionati (Cons. St., sez. VI, 21 gennaio 2025, n. 403).
9.3. D’altro canto, come ha posto in rilievo la difesa del Comune, il provvedimento acquisitivo impugnato nel presente giudizio, contrariamente a quanto eccepito dall’appellante, è chiaro nell’individuare l’area oggetto di acquisizione gratuita dato che, come si legge nell’ultimo “considerato” del provvedimento, «dal sopralluogo sopra riportato [e, cioè, del 5 giugno 1997, n.d.r.] risulta che sono state accertate opere edilizie abusive per una consistenza planimetrica di mq. 24,00 circa sul terreno distinto in catasto al foglio 31 con il mappale n. 817, sarà acquisito il solo manufatto per poter espletare gara di appalto per procedere alla demolizione con addebito delle spese relative, senza poter procedere all’immissione in possesso e alla trascrizione nei registri immobiliari, in quanto il manufatto di cui trattasi non è autonomamente utilizzabile».
9.4. Quanto, poi, alla dedotta violazione delle garanzie procedimentali, pure va qui ribadito che essa è infondata, avuto riguardo al carattere automatico e vincolato del provvedimento acquisitivo, nel caso di specie – anche – in punto di perimetro dell’area di sedime ex art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 (v., sempre per analoga vicenda, Cons. St., sez. VI, 21 gennaio 2025, n. 403, già citata).
9.5. Anche questa censura, dunque, va respinta, in quanto il Tribunale amministrativo, nel disattendere il motivo, ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto consolidati in materia, sia quanto all’identificazione dell’area di sedime sia quanto alla non necessità della partecipazione procedimentale.
10. Infine, con un ultimo motivo (pp. 22-23) che l’appellante deduce non essere stato esaminato dal primo giudice, essa lamenta che l’ordinanza impugnata con motivi aggiunti disposto, espressamente, l’acquisizione «ai soli fini della demolizione, che avverrà a cura del Comune», facendo dunque un’applicazione distorta dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, che non sarebbe norma finalizzata alla demolizione, ma solo a sanzionare la mancata ottemperanza dell’ordine demolitorio, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza n. 345 del 2001.
10.1. Anche quest’ultimo motivo, però, va disatteso, in quanto, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sua consolidata giurisprudenza, l’acquisizione ex lege da parte del Comune integra «una sanzione in senso stretto, distinta dalla demolizione, che “rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla” (sentenza n. 345 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 427 del 1995 e ordinanza n. 82 del 1991; analogamente, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 26 gennaio 2006, n. 1693)” (sentenza n. 140 del 2018)» (Corte cost., 3 ottobre 2024, n. 160), rimanendo dunque irrilevante, ai fini della legittimità del provvedimento ex art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, che il Comune dichiari di voler acquisire l’area ai soli fini della demolizione, dato che l’acquisizione è effetto di diritto automatico, gratuito, a carattere sanzionatorio, dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, sulla quale il Comune non ha alcun potere di incidere, modulando gli effetti e le finalità di tale acquisto, anche solo per ribadire che acquisirà l’area anzitutto per demolire il manufatto abusivo.
10.2. La previsione dell’acquisizione “ai fini della demolizione” non incide, dunque, sulla legittimità dell’atto, che produce effetti reali ablatori nei confronti del bene abusivo, indipendentemente dalle future determinazioni comunali sul suo destino materiale
10.3. Anche questo motivo, dunque, va respinto.
11. In conclusione, per le ragioni tutte esposte, l’appello, infondato, va respinto, con la conseguente conferma della sentenza impugnata.
12. Per la complessità delle questioni esaminate nella presente sede sussistono le ragioni, ai sensi dell’art. 26 c.p.a., per compensare interamente tra le parti le spese di questo grado del giudizio.
CONSIGLIO DI STATO, VII – sentenza 02.10.2025 n. 7702