1. Con provvedimento 11 giugno 2024, n.-OMISSIS- (notificato all’interessato il 14 giugno), il Questore di Lucca faceva divieto al ricorrente, ai sensi dell’art. 13-bis del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, conv. in l. 18 aprile 2017, n. 48, di accedere per un anno al pubblico esercizio denominato “-OMISSIS-” sito in Forte dei Marmi (LU), in -OMISSIS-, nonché di “stazionare nelle immediate vicinanze dello stesso, significando che si intende essere autorizzato il solo transito in detta area, senza sosta, a bordo di mezzi pubblici o privati”.
Il provvedimento sopra descritto (cd. DACUR o DASPO urbano) traeva origine dall’episodio verificatosi il -OMISSIS- all’esterno del ristorante “-OMISSIS-” di Forte dei Marmi che aveva portato al deferimento del ricorrente all’Autorità giudiziaria per i reati di cui agli art. 610 e 582 e 61, n. 2 c.p. per aver impedito alla persona offesa dal reato di raggiungere altra persona che lo aveva precedentemente colpito, colpendolo, a sua volta, con un pugno all’altezza dell’orecchio sinistro che gli cagionava una malattia giudicata guaribile in due giorni; in funzione rafforzativa dell’applicazione del DACUR erano poi citati due precedenti segnalazioni intervenute nei confronti del ricorrente per guida in stato di ebbrezza e violazione della normativa in materia di contrasto al COVID-19.
Il provvedimento e gli atti presupposti erano impugnati dal ricorrente che articolava censure di: 1) violazione e/o erronea applicazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 della l. n. 241/1990, eccesso di potere per violazione del giusto procedimento amministrativo, difetto assoluto di istruttoria e di motivazione; 2) violazione e/o erronea applicazione dell’art. 13-bis del d.l. n. 14/2017, eccesso di potere per difetto dei presupposti, eccesso di potere per manifesta irragionevolezza e illogicità e per difetto assoluto di motivazione.
Si costituivano in giudizio le Amministrazioni intimate, controdeducendo sul merito del ricorso.
Alla camera di consiglio del 10 ottobre 2024, parte ricorrente rinunciava alla decisione dell’istanza cautelare proposta con il ricorso, in considerazione della fissazione dell’udienza per la decisione del merito del ricorso alla pubblica udienza 27 febbraio 2025; con ordinanza 28 febbraio 2025, n. 320, la Sezione ordinava alle Amministrazione resistenti di esibire in giudizio “tutti gli atti del procedimento, comprese la comunicazione di notizia di reato relativa all’evento del -OMISSIS- ..(e le) dichiarazioni della persona offesa e dei soggetti informati dei fatti presenti agli atti del procedimento, previo ottenimento, ove dovesse trattarsi di atti ancora soggetti a segreto penale, dell’autorizzazione del Pubblico Ministero da acquisirsi con apposita richiesta ex art. 329, 2° comma c.p.p. (motivata sulla base della necessità di dover fornire una risposta …(all’)istruttoria)”.
Dopo il deposito in giudizio della documentazione richiesta con l’ordinanza istruttoria, il ricorso era quindi trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 23 settembre 2025.
2. In via preliminare, la Sezione deve rilevare come, pur essendo ormai scaduto il termine di un anno di efficacia del provvedimento (decorrente dalla notifica effettuata il -OMISSIS-), sussista ancora l’interesse alla decisione del ricorso, in considerazione dei possibili effetti negativi che lo stesso potrebbe avere ai fini della futura emanazione di provvedimenti preventivi di analoga natura.
Nel merito, il ricorso è poi infondato e deve pertanto essere respinto.
Partendo dall’esame del secondo motivo di ricorso (relativo alla presunta mancanza dei requisiti necessari per procedere all’applicazione del provvedimento di cui all’art. 13-bis del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14 conv. in l. 18 aprile 2017, n. 48) la Sezione non può che richiamare la stabilizzata giurisprudenza di questo T.A.R. (richiamata dallo stesso ricorrente) che ha correttamente individuato la diversa struttura dei due presupposti necessari per l’applicazione del cd. DACUR (spesso denominato anche DASPO urbano): “con particolare riferimento al cd. DASPO urbano, l’art. 13-bis, comma 1, del DL n. 14/2017 (convertito in legge n. 42/2017, nel testo sostituito ad opera dell’art. 11, co. 1, lett. b), n. 1, d.l. n. 130/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 173/2020), dispone che “fuori dei casi di cui all’articolo 13, nei confronti delle persone denunciate, negli ultimi tre anni, per reati commessi in occasione di gravi disordini avvenuti in pubblici esercizi o in locali di pubblico trattenimento ovvero nelle immediate vicinanze degli stessi, o per delitti non colposi contro la persona o il patrimonio ovvero aggravati ai sensi dell’articolo 604-ter del codice penale, qualora dalla condotta possa derivare un pericolo per la sicurezza, il Questore può disporre il divieto di accesso a pubblici esercizi o locali di pubblico trattenimento specificamente individuati in ragione dei luoghi in cui sono stati commessi i predetti reati ovvero delle persone con le quali l’interessato si associa, specificamente indicati. Il Questore può altresì disporre, per motivi di sicurezza, la misura di cui al presente comma anche nei confronti dei soggetti condannati, anche con sentenza non definitiva, per taluno dei predetti reati”.
….La norma pone quindi due condizioni per l’adozione della misura:
a) la denuncia del destinatario, “negli ultimi tre anni, per reati commessi in occasione di gravi disordini avvenuti in pubblici esercizi o in locali di pubblico trattenimento ovvero nelle immediate vicinanze degli stessi, o per delitti non colposi contro la persona o il patrimonio ovvero aggravati ai sensi dell’articolo 604-ter del codice penale”. Secondo un primo filone giurisprudenziale condiviso da questo Tribunale, il rapporto tra le figure delittuose isolate dalla norma è di alternatività, assumendo rilievo tanto una qualsiasi fattispecie criminosa che risulti però commessa “in occasione di gravi disordini avvenuti in pubblici esercizi o in locali di pubblico trattenimento ovvero nelle immediate vicinanze degli stessi” quanto i reati specificamente individuati in relazione al bene giuridico tutelato (contro la persona o il patrimonio) ovvero in considerazione della contestazione dell’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso ex art. 604-ter c.p., purché in relazione a questa seconda categoria si tratti di delitti non colposi. È stato pertanto statuito che “Il divieto di accesso impugnato trova fondamento sufficiente sulla sola denuncia per disordini in aree limitrofe a locali pubblici situati in aree urbane” ed altresì che “il provvedimento impugnato risulta legittimato dal presupposto della pendenza di un procedimento penale per uno dei fatti previsti dall’art. 13 bis citato” (TAR Lazio, sez. I ter, 21 ottobre 2021, n. 5755);
b) la valutazione che “dalla condotta possa derivare un pericolo per la sicurezza”.
Il primo requisito ha natura oggettiva in quanto si limita a rilevare il fatto storico della “denuncia”, negli ultimi tre anni, per uno dei reati indicati.
Il secondo presupposto invece afferisce a “una valutazione ‘dinamica’ di natura prognostica, risultando subordinata l’adozione della misura, integrante una speciale forma di DASPO, al rischio che “dalla condotta possa derivare un pericolo per la sicurezza”. E’ il tenore letterale dell’inciso a rendere manifesta la volontà legislativa di ancorare l’adozione del provvedimento, incidente sulla libertà di circolazione, alla sussistenza di un pericolo necessariamente ‘attuale’ – in coerenza d’altro canto con le finalità precauzionali e preventive della misura –, posto che, ove al contrario la condizione si fosse voluta collegare temporalmente ai soli accadimenti, la formulazione della norma sarebbe stata evidentemente diversa, declinandosi la relazione con i fatti al tempo passato (… qualora dalla condotta sia derivato un pericolo per la sicurezza…), con ascrizione all’istituto di una funzione tipicamente sanzionatoria, da ritenersi invece del tutto estranea” (TAR Calabria, 7/01/2022, sent. n. 21)” (T.A.R. Toscana, sez. II, 28 luglio 2023, n. 796).
Del resto, si tratta di ricostruzione pienamente condivisa dalla giurisprudenza successiva (T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 13 ottobre 2023, n. 5612; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. IV, 15 gennaio 2025, n. 95) e che oggi non registra sostanziali contestazioni giurisprudenziali.
Nel caso di specie, la presenza del requisito oggettivo relativo alla “denuncia del destinatario, negli ultimi tre anni, per reati commessi in occasione di gravi disordini avvenuti in pubblici esercizi o in locali di pubblico intrattenimento ovvero nelle immediate vicinanze degli stessi, o per delitti non colposi contro la persona o il patrimonio” (T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 13 ottobre 2023, n. 5612) risulta saldamente radicata sul procedimento penale pendente nei confronti del ricorrente per il reato di cui all’art. 582 c.p. e 61, n. 2 c.p. (ovvero per un delitto “non colpos(o) contro la persona”) per i fatti avvenuti all’esterno del locale “-OMISSIS-” di Forte dei Marmi (rilevazione che rende del tutto irrilevante la contestazione finale del ricorrente in ordine all’impossibilità di riportare l’altra imputazione penale per il reato di cui all’art. 610 c.p. al novero dei reati giustificativi dell’applicazione del DASPO urbano).
Anche il requisito soggettivo-prognostico relativo alla pericolosità sociale del destinatario del provvedimento risulta poi di immediata evidenza; pur in mancanza di una specifica considerazione nell’atto impugnato, la stessa ricostruzione dei fatti operata dall’Autorità di polizia evidenzia, infatti, la sicura identificazione del ricorrente come “secondo aggressore” della persona offesa dal reato e la necessità di attribuirgli la responsabilità del “secondo pugno” che ha raggiunto l’aggredito, con la funzione evidente di impedirgli di raggiungere l’autore della prima aggressione (si veda, al proposito, la documentazione depositata in giudizio in esecuzione dell’istruttoria disposta dalla Sezione).
Risulta pertanto del tutto smentita la ricostruzione proposta con la memoria procedimentale, con il ricorso e con la memoria depositata nel procedimento penale (doc. n. 8 del deposito del ricorrente) in termini di “inspiegabile aggressione” da parte di tre sconosciuti, risultando, al contrario, evidentemente come il ricorrente sia intervenuto in un contesto già caratterizzato da manifestazioni di violenza, con l’intento di proteggere il primo aggressore, aggredendo ulteriormente la persona offesa.
Siamo pertanto in presenza di una corretta identificazione del ricorrente secondo il criterio del “più probabile che non” applicabile anche alle misure di prevenzione come il DACUR (T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. IV, 15 gennaio 2025, n. 95) che non risulta essere smentita dalla “ricostruzione alternativa” proposta dal ricorrente (che, del resto, risulta evidentemente “confusa” e poco credibile).
Del resto, lo stesso ricorrente ha, in qualche modo, rettificato la propria impostazione difensiva con la memoria conclusionale del 22 luglio 2025, optando per una generica contestazione dell’attendibilità degli autori dell’identificazione che risulterebbero essere “persone amiche o conoscenti della persona offesa” (obiezione che, in realtà, “prova troppo” e potrebbe essere estesa anche alle autodichiarazioni di amici e conoscenti del ricorrente poste a base della prima originaria contestazione) ed una ricostruzione dell’accaduto nei termini innovativi di un tentativo di “bloccare una potenziale rissa tra altri due soggetti – uno dei quali… già colpito da un altro soggetto”; ricostruzione alternativa e tardiva che ovviamente non può giustificare il “secondo pugno” che ha raggiunto la persona offesa e la violenza indubbiamente posta in atto dal ricorrente.
2.1. Alla luce della ricostruzione dei fatti sopra richiamata non può poi trovare accoglimento neanche la prima censura articolata da parte ricorrente; se si può, infatti stigmatizzare il fatto che lo stesso sia stato costretto ad articolare la propria memoria procedimentale “al buio” (risultando ben possibile un diverso riscontro dell’istanza di accesso presentata dall’interessato, secondo il meccanismo autorizzatorio di cui all’art. 329, 2° comma c.p.p. già richiamato dall’ordinanza 28 febbraio 2025, n. 320 della Sezione), la ricostruzione dei fatti sopra operata porta a concludere per l’impossibilità di ricostruire diversamente una vicenda indubbiamente caratterizzata dalla sussistenza di tutti i presupposti per l’applicazione del DASPO urbano.
Nella logica di cui all’art. 21-octies, 2° comma della l. 7 agosto 1990, n. 241, la dimostrazione “che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” porta quindi a concludere per il carattere esclusivamente formale della censura relativa alla violazione del principio di partecipazione e per l’impossibilità di accogliere il relativo motivo di ricorso.
3. In definitiva, il ricorso deve pertanto essere respinto; le spese seguono la soccombenza e devono essere liquidate, come da dispositivo.
TAR TOSCANA, IV – sentenza 29.09.2025 n. 1515