Con ricorso depositato in data 28 maggio 2024, il ricorrente in epigrafe esponeva di essere stato assunto il 22.09.21 dalla (omissis) con contratto di lavoro part time a tempo determinato, convertito dal 01.07.23 a tempo indeterminato, con mansioni di addetto alle pulizie da svolgersi presso l’esercizio commerciale con insegna (omissis); che svolgeva attività lavorativa: a) tutti i giorni della settimana – salvo giovedì e venerdì – dalle h 10:00 e alle h 12:00 e dalle h 17:00 alle h 23:00; b) ogni venerdì: dalle h 17:00 alle h 23:00; c) ogni giorno della settimana – salvo il venerdì – dalle h 02:00 am alle h 08:00 am (dunque ore 5 in lavoro notturno). Esponeva che, in data 22.02.24, a seguito di un diverbio, veniva invitato a lasciare il posto di lavoro e a non tornarvi; di essere stato licenziato per giusta causa, per assenza ingiustificata, con nota del 21.03.24.
Chiedeva di accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento orale del 22.02.24 e del licenziamento comunicato con nota del 25.03.24 e, per l’effetto, di ordinare alla C1 di reintegrare il ricorrente, di corrispondergli l’indennità prevista dall’art. 3 comma 2 D.Lgs. n. 23 del 2015 dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal recesso e di pagare le differenze retributive a decorrere dal 22.09.21 fino alla data della reintegrazione. Con vittoria di spese.
Si costituiva la (omissis) eccependo la nullità del ricorso nella parte in cui vengono chieste le differenze retributive e argomentando variamente circa la legittimità del licenziamento irrogato, con vittoria di spese.
La causa, istruita mediante prove orali e disposta la trattazione scritta ai sensi e per gli effetti dell’art. 127 ter c.p.c., è stata decisa in data odierna, a seguito del deposito delle note scritte.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
Parte ricorrente ha chiesto, in prima battuta, di accertare l’illegittimità del licenziamento orale asseritamente irrogato.
Orbene, allorquando il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, la prova gravante sul lavoratore è di regola limitata alla sua estromissione dal rapporto (Cass. sent. n. 4760/2000 e nn. 6132/01 e 21684/11), estromissione che, però, non consiste nella “semplice constatazione della cessazione di fatto dell’attuazione del rapporto di lavoro”, bensì nella dimostrazione di “uno specifico comportamento del datore di lavoro che a un certo punto abbia rifiutato le prestazioni offerte dal lavoratore” (Cass. sent. n. 6727/01, nonché Cass. sent. nn. 12520/00 e 7614/05), esonerandosi altrimenti il lavoratore dall’onere della prova della effettiva sussistenza di un licenziamento.
Quindi, chi impugna UN LICENZIAMENTO DEDUCENDO CHE ESSO SI È REALIZZATO SENZA IL RISPETTO della forma prescritta ha l’onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti. Tale identificazione del fatto costitutivo della domanda del lavoratore prescinde dalle difese del convenuto datore di lavoro, anche perché questi può risultare contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla base del fondamentale canone dettato dall’art. 2697, co. 1, c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Anche la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 16013 del 18.05.2022, afferma che il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione.
Inoltre, qualora l’estinzione del rapporto per licenziamento sia circostanza incontroversa tra le parti, rimanendo dubbie le modalità dello stesso, si verifica un’inversione dell’onere probatorio, sicché e il datore di lavoro a dover dimostrare la sussistenza di tutti i requisiti formali e di efficacia del recesso, che afferma di avere ritualmente intimato, e, non adempiendovi, il licenziamento rimane illegittimo.
Invero, il licenziamento, in quanto atto recettizio a forma scritta ad substantiam, deve essere comunicato per iscritto al prestatore di lavoro, dispiegando i suoi effetti dal momento in cui viene a conoscenza dello stesso.
Ed infatti, l’art. 2 della L. n. 604 del 1966 – secondo cui l’imprenditore deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro – esige che lo scritto, da utilizzare come strumento di comunicazione, non solo sia espressamente diretto all’interessato, ma sia anche a lui consegnato.
Nel caso di specie, le parti non concordano sulla natura dell’atto interruttivo del rapporto di lavoro, sostenendo parte ricorrente che trattasi di licenziamento orale e parte datoriale di recesso per giusta causa.
In primo luogo, come detto, spettava al ricorrente fornire la prova rigorosa circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Orbene, può ritenersi acquisita nel presente giudizio la prova dell’esistenza del rapporto che, da un lato, parte resistente non ha contestato, dall’altro risulta suffragato sia dalle prove per testi che dalla produzione documentale.
Tuttavia, dall’escussione testimoniale non è emersa la circostanza dedotta da parte ricorrente circa l’interruzione illegittima del rapporto di lavoro che, come detto, era suo onere fornire.
Invero, (omissis), dipendente di (omissis), ha riferito i contorni della vicenda che hanno portato all’iniziale allontanamento del ricorrente “c’era una collega in sala che si chiama (omissis) e le ha delegato di pulire il posacenere, lui stava facendo altro e lui con tono scontroso diceva che l’avrebbe fatto dopo, dopo vari tentativi l’ha fatto però visto il tono (omissis) è venuta da me e mi ha raccontato l’accaduto, poi è venuto lui, forse non gli è piaciuta questa situazione, ha alzato il tono, io cercavo di capire e gli ho detto “basta vai a casa”. Ho chiamato il direttore per capire cosa dovevo fare, ha alzato la voca anche davanti ai clienti dicendo qualcosa in arabo che penso fossero parolacce. Anzi preciso, non l’ho subito mandato a casa, gli ho detto di mettersi di lato, ho chiamato il direttore (omissis) che mi ha detto di mandarlo a casa perché così davanti ai clienti non si poteva comportare. Intendevamo di andare a casa per oggi. Poi ho saputo che lui e altri colleghi non hanno lavorato pili con noi, non ricordo ma se l’ho visto nei giorni dopo, ho sentito che non si voleva presentare al locale, forse in forma di protesta non so”. Ha poi riferito di non ricordare se il 16 marzo fosse tornato.
Pertanto, si deve desumere che l’intimazione “basta vai a casa” sia stata interpretata in maniera differente dai due interlocutori: il (omissis) voleva creare uno spazio deliberandi al fine di calmare le acque; il ricorrente, ha interpretato l’imperativo come un’intimazione di licenziamento.
Anche il teste (omissis), dipendente della (omissis), supervisore di Palermo, ha confermato tale ricostruzione “un anno fa io non c’era ci ha chiamato il direttore di (omissis) dicendo che c’era stato un problema col manager, dopo ho chiamato lui per sentire spiegazioni e mi ha detto che il manager aveva alzato la voce vicino ai clienti. Il direttore (omissis) mi ha chiamato, mi ha detto quello che era successo e poi ha chiamato il ricorrente e gli ha detto di andare a casa. Non so in che termini gli abbia detto di andare a casa, ina poi lui non ha più lavorato.
Non so se nei giorni dopo ci è andato. Io non potevo dirgli di tornare al lavoro, era un problema che aveva con la (omissis).
Pertanto, parte ricorrente non ha fornito prova del fatto che l’interruzione del rapporto sia da attribuire alla volontà datoriale, anche perché l’ordine di allontanarsi è stato intimato dal manager del locale e non dal datore di lavoro dello stesso; quanto emerso fa, invece, desumere che si sia trattato di un’incomprensione. Certo è che ad esito differente si sarebbe pervenuti ove il ricorrente, ripresentatosi all’indomani, fosse stato cacciato nuovamente. Giova, inoltre, passare in rassegna anche lo scambio di interlocuzioni prodotte in giudizio.
Il diverbio tra colleghi – in cui sarebbe stato intimato al ricorrente il licenziamento orale – sarebbe avvenuto il 22 febbraio 2024, seguito il 27 febbraio da una nota disciplinare in merito al comportamento adottato: orbene, in tale nota si sanziona il dipendente per i toni usati, presupponendo la stessa la vigenza del rapporto.
Nonostante siano stati indicati in 5 i giorni entro i quali fornire giustificazione, il ricorrente ha contestato il 1° marzo 2024 l’asserito licenziamento orale (cfr. all. n. 2 al ricorso) ed il 5 marzo ha inviato una nota in cui ha sostenuto di non avere avuto alcun comportamento contrario ai dettami del CCNL; sempre in tale data è stata comminata a suo carico la sanzione disciplinare della multa.
Ciò conferma il fatto che il datore di lavoro abbia valutato l’episodio in sé avvenuto il 22 febbraio come meritevole di una sanzione blanda, quale è la multa, e non legittimante un licenziamento in tronco del dipendente.
A questo punto, non potendosi ritenere che sia stato comminato un licenziamento orale, occorre vagliare la domanda volta a dichiarare illegittimo il licenziamento poi effettivamente irrogato per assenza ingiustificata.
Giova sul punto ricordare che, in caso di assenza ingiustificata, sul datore di lavoro grava l’onere di provare la condotta che ha determinato l’irrogazione della sanzione disciplinare e, quindi, di provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare gli elementi che possano giustificarlo (cfr. Cass. sent. n. 16597/2018).
Ed ecco che, ricostruendo i fatti causa, con nota del 5 marzo 2024, il datore di lavoro ha contestato al ricorrente l’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro dal 23.02.24 fino alla data della missiva, assegnandogli termine di cinque giorni per presentare delle giustificazioni; tali giustificazioni sono state fornite solo in data 15.03.24 in cui il ricorrente ha ribadito come l’assenza fosse da addebitare al licenziamento verbale e che l’indomani si sarebbe presentato sul luogo di lavoro.
Posto, dunque, che è non contestato – ma anzi, confermato – che il ricorrente si è assentato, occorre valutare se l’assenza è da ritenersi giustificata.
Tale non può ritenersi, considerato, in primis, il ritardo con cui ha fornito giustificazione ed ha presentato offerta di prestazione lavorativa.
Invero, sul punto, si ritiene raggiunta la prova circa il fatto che il ricorrente si sia recato in sede.
Infatti (omissis) amico del ricorrente, ha confermato di averlo accompagnato sui luoghi ma di essere rimasto fuori e che poi gli ha raccontato che “aspettavano la conferma della ditta per farlo rientrare”.
Nonostante, invece, il dipendente (omissis) abbia riferito di non ricordare se il ricorrente sia o meno tornato sul posto di lavoro per offrire la propria prestazione, tale ultima deposizione desta non poche perplessità, essendo difficile da comprendere come non si possa ricordare di avere visto un lavoratore tornare ad offrire la propria prestazione lavorativa.
Tuttavia, l’effettività dell’offerta della prestazione non trova ragione d’indagine ulteriore stante che non è stato provato l’avvenuto licenziamento orale; d’altro canto, l’atto di impugnazione di licenziamento non deve contenere alcuna offerta di fare.
Essa può soltanto essere valutata al fine di ricostruire l’andamento della vicenda: e sul punto non si può non notare come, a fronte di un asserito licenziamento avvenuto in data 22 febbraio e di una nota che ha contestato l’assenza ingiustificata in data 5 marzo, il ricorrente abbia presentato osservazioni il 15 marzo, senza ottemperare ai cinque giorni indicati.
Né può sposarsi la tesi di parte ricorrente che asserisce di avere ricevuto la predetta contestazione solo in data 15 marzo; invero, parte datoriale ha depositato prova dell’avviso di ricevimento che reca la data del 6 marzo 2024.
Dunque, se il ricorrente effettivamente avesse voluto offrire la propria prestazione lavorativa, avrebbe potuto farlo in tempi ragionevoli, giustificando la propria assenza tempestivamente.
Ad ogni modo, l’assenza è ingiustificata poiché – anche a voler ritenere, come effettivamente si ritiene, che alla base vi sia stata una incomprensione -, una volta irrogata la sanzione disciplinare della multa il ricorrente era tenuto a ripresentarsi in servizio.
Pertanto, alla luce di quanto esposto, deve ritenersi giustificato il licenziamento intimato.
Quanto, invece, alla richiesta di pagamento di differenze retributive, va preliminarmente rigettata l’eccezione di nullità del ricorso sollevata, poiché nel rito del lavoro, la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione delle ragioni, di fatto e di diritto, sulle quali essa si fonda ricorre allorché sia assolutamente impossibile l’individuazione dell’uno o dell’altro elemento attraverso l’esame complessivo dell’atto, perché in tal caso il convenuto non e posto in condizione di predisporre la propria difesa né il giudice di conoscere l’esatto oggetto del giudizio (cfr. Cass. Ord. n. 19009 del 17/07/2018).
Parte ricorrente, invece, ha dettagliato in ricorso gli orari aggiuntivi svolti, allegando altresì una quantificazione delle pretese.
Orbene, il lavoratore è stato assunto con orario part time di 24 ore settimanali ed ha allegato di avere svolto gli orari che si descrivono: a) tutti i giorni della settimana – salvo giovedì e venerdì – dalle h 10:00 e alle h 12:00 e dalle h 17:00 alle h 23:00; b) ogni venerdì: dalle h 17:00 alle h 23:00; c) ogni giorno della settimana – salvo il venerdì – dalle h 02:00 am alle h 08:00 am (dunque ore 5 in lavoro notturno).
Sul punto, il teste (omissis) ha riferito che lo stesso era “senza orario”, che “ogni volta che andavamo a mangiare o non c’era o di fretta doveva andare, andava alle 11 di sera e smontava alle 8 del mattino e poi lo richiamavano. Ha avuto sua moglie all’ospedale e nemmeno riusciva a starle dietro, quando ha partorito sua moglie lui non c’era”.
È stata poi sentita la moglie del ricorrente, (omissis), che ha riferito “Di solito tutto il giorno, ma lunedì, mercoledì e sabato veniva il camion per scaricare la mattina dalle 8 alle 12.00/13.00, poi tornava a casa per mangiare e alle 17.00 usciva di nuovo fino alle 23.00, poi tornava là e lavorava tutta la notte. Martedì e giovedì tornava dalla notte o alle 9 o alle 8 e poi ci riandava alle 17.00 e poi la stessa cosa, di notte non c’era mai mio marito. Ogni giorno anche sabato e domenica, prima non c’era giorno libero, ora quest’ anno danno un giorno. Lo so perché la notte prima che dormivamo ci faceva la videochiamata e vedevo che era là. Andava al lavoro in autonomia perché il lavoro era vicino casa. Anche adesso che ha un giorno libero, è sempre stanco”.
Tali deposizioni risultano lacunose, difettando – quelle di (omissis) – del requisito della specificità, non avendo il teste precisato gli orari svolti ed i giorni interessati; entrambe, poi, sono state rese da soggetti estranei all’ambito lavorativo del ricorrente, che non hanno potuto riferire circa l’effettiva presenza sul posto di lavoro dello stesso, negli orari e giorni indicati.
Per tale ragione, anche la domanda afferente il pagamento delle differenze retributive non può trovare accoglimento.
Le spese si compensano stante la complessità della vicenda trattata.
Trib. Agrigento, sent., 03.07.2025, n. 1060