Il ricorso è infondato e, per alcuni profili, inammissibile.
1. Il primo motivo (sull’assenza del concorso nel delitto ex art. 615-ter cod. pen.) è infondato.
In tema di concorso di persone, la partecipazione psichica sotto forma di istigazione richiede la prova che il comportamento tenuto dal presunto concorrente morale abbia effettivamente fatto sorgere il proposito criminoso ovvero lo abbia anche soltanto rafforzato, esercitando un’apprezzabile sollecitazione idonea ad influenzare la volontà altrui (Sez. 3, n. 30035 del 16/03/2021, Rv. 281968-01; confronta, negli stessi termini: Sez. 1, n. 2260 del 26/03/2014, dep. 2015, Rv. 261893-01).
Come si legge nella motivazione del primo dei menzionati precedenti, «il contributo causale del concorrente morale può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso)». Dunque, anche la mera richiesta, ove pure (come reputa parte ricorrente) non ingannevole e non proveniente da parte di un superiore dell’agente, ha fatto certamente insorgere, istigando, nel senso detto, il proposito criminoso.
2. Quanto ai motivi secondo e terzo – inerenti al riconoscimento della provocazione quale scriminante della diffamazione e attenuante per i delitti di cui agli artt. 612 cod. pen. e 167, d.lgs. 196/2003, l’insussistenza di quest’ultimo delitto, essendo stata utilizzata una foto già “pubblica” e mancando la prova del “nocumento” e, infine, l’insussistenza della diffamazione, essendosi in presenza di mera ingiuria – gli stessi sono da disattendere per le ragioni di seguito specificate.
2.1 È infondata, anzitutto, la chiesta riqualificazione della diffamazione in termini di ingiuria.
Come già più volte chiarito, ai fini della configurabilità dell’ingiuria è necessario che tra l’offensore e l’offeso si instauri un rapporto diretto, reale o virtuale, che garantisca a quest’ultimo un contraddittorio immediato, attuato con modalità tali da assicurare una sostanziale “parità delle armi” (Sez. 5, n. 5982 del 10/11/2022, dep. 2023, Fedeli, Rv. 284220-01 in un caso in cui è stato ritenuto integrare diffamazione aggravata da mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, e non ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, la dichiarazione offensiva resa nel corso di un’intervista televisiva, alla quale il destinatario, non presente, abbia replicato parzialmente inviando un “sms” al conduttore). Dunque, la circostanza che sulla stessa piattaforma “social” vi sia un contraddittorio costante, ma pacificamente differito nel tempo, impedisce quella “parità delle armi” ovvero quella possibilità di immediata reazione da parte dell’offeso che giustifica la qualifica del fatto in termini meno gravi di ingiuria nei riguardi di soggetto presente, piuttosto che di diffamazione di chi non sia in condizione di difendersi immediatamente, ma solo in un secondo momento.
Dunque, deve ribadirsi il principio di diritto secondo cui integra il delitto di diffamazione, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, l’invio di messaggi contenenti espressioni offensive nei confronti della persona offesa su una “chat” condivisa anche da altri soggetti, nel caso in cui la prima non li abbia percepiti nell’immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito (Sez. 5, n. 28675 del 10/06/2022, Ciancio, Rv. 283541-01; confronta, tra le tante negli stessi termini, Sez. 5, n. 20392 del 1/42025, non massimata, secondo che, in una fattispecie identica alla presente, ha evidenziato che: «la pubblicazione di un post offensivo a mezzo (OMISSIS) può essere considerata ingiuria aggravata e non diffamazione solo ove la presenza della vittima risulti con certezza dalla sua contestuale reazione al post»; si veda anche Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Rv. 278742-01, che qualifica in termini di ingiuria l’offesa arrecata a chi sia collegato virtualmente in video-chat nel mentre la stessa viene proferita).
2.2. Pure infondato è il chiesto riconoscimento della provocazione, sia quale attenuante dei reati di minaccia e trattamento illecito di dati personali, che come scriminante della diffamazione.
Quanto alla prima, è stato chiarito da questa Corte che non può essere invocata l’attenuante della provocazione quando il fatto apparentemente ingiusto della vittima, cui l’agente abbia reagito, sia stato a sua volta determinato da un precedente comportamento ingiusto dello stesso agente o sia frutto di provocazioni reciproche (Sez. 1, n. 21899 del 27/02/2024, Alla, Rv. 286420-01, in un caso di omicidio in relazione al quale la Corte ha escluso l’attenuante della provocazione – sia “per accumulo” che “istantanea”- in virtù dei reiterati pregressi litigi con offese ed accuse reciproche tra l’agente e la vittima; confronta, negli stessi termini: Sez. 5, n. 27698 del 04/05/2018, Rv. 273556-01; Sez. 5, n. 42826 del 16/07/2014, Rv. 261037-01).
Analogo principio va ribadito in tema di diffamazione. Ed invero, come già altre volte rimarcato, «tanto la provocazione quanto la legittima difesa postulano il presupposto dell’offesa o del fatto ingiusto altrui, che non può certo desumersi dalla contemporaneità e reciprocità delle offese: in questa ipotesi, invero, ognuno dei contendenti versa in re illicita, per cui nessuno di essi può utilmente invocare le disposizioni in parola» (Sez. 5, n. 4965 del 06/12/2006, dep. 2007, Triolo, Rv. 236310-01, in motivazione).
Con ricostruzione fattuale neppure oggetto di censura, la Corte d’appello ha evidenziato come le condotte ipoteticamente provocatorie della persona offesa fossero, comunque, susseguenti a quelle ingiuriose e minatorie poste in essere in precedenza dallo stesso imputato: che, in definitiva, aveva causato le successive minacce e contumelie. Secondo la sentenza d’appello, infatti: «Gli screenshot prodotti dalla difesa dell’imputato vanno letti alla luce di quelli complessivamente acquisiti, dai quali si evince che era stato il G.C.M., ben prima del F.Q., ad inviare offese rivolte alla moglie di quest’ultimo (cfr., ad es., il messaggio del 06/02/2017, archiviato, evidentemente con riferimento alla data di pubblicazione, come 20170206 – 11-42-13 in cui G.C.M., con l’account aperto a nome “C. C.” scriveva “(OMISSIS)” […] Né erano mancati messaggi offensivi rivolti al F.Q., come quello inviato ii 16/02/2017 in cui scriveva “(OMISSIS)”» (pagine 21-22 sentenza d’appello).
Dunque, con accertamento fattuale privo di vizi motivazionali, il giudice d’appello ha acclarato che l’odierno ricorrente non si trovasse in una situazione di iniziale legittimità o, almeno, di non illiceità, avendo per primo ingiuriato e minacciato la persona offesa.
2.3. Quanto alla difesa secondo cui la foto del F.Q. con la figlia, pubblicata dal G.C.M., fosse stata usata come profilo dal F.Q. su (OMISSIS), e fosse, quindi, liberamente visibile da parte dei terzi, la stessa è radicalmente inammissibile, sollecitandosi, in questa sede, un nuovo giudizio fattuale, qui notoriamente precluso.
Infatti, con accertamento nuovamente privo di illogicità di sorta e di fatto non censurato da parte ricorrente, la Corte d’appello ha evidenziato che la foto in questione non risultava affatto fosse stata diffusa dalla persona offesa «su social network, essendo, invece, per quanto dedotto dalla medesima persona offesa e rilevabile dai messaggi, a suo tempo utilizzata come foto del proprio profilo sull’applicazione di messaggistica (OMISSIS), come tale accessibile solo ad una selezionata platea di contatti e comunque non certo da questi divulgabile» (p. 22 sentenza d’appello).
Dunque, il presupposto fattuale sulla cui base si dipana il ragionamento di parte ricorrente è del tutto inconsistente, trovando smentita nella sentenza d’appello, né è possibile, in questa sede (come detto), operarne uno difforme da quello non manifestamente illogico o altrimenti viziato del giudice del merito.
2.4. Neppure coglie nel segno la censura secondo cui, nel caso in questione, non vi sarebbe stato alcun nocumento, necessario al fine di integrare il delitto di trattamento illecito di dati personali di cui all’articolo 167 d.lgs. 196/2003.
Tale requisito, come già chiarito da questa Corte, si sostanzia anche dalla mera pubblicazione su una chat di un numero di telefono privato, in assenza del consenso dell’interessato, in quanto tale condotta arreca, di per sé, un nocumento a quest’ultimo, che ben può essere di natura non patrimoniale (Sez. 3, n. 46376 del 24/10/2019, Rv. 278276-01).
Al riguardo, il giudice d’appello ha, in modo logico, rimarcato che «sin troppo evidente è il nocumento arrecato con la pubblicazione della foto della figlia minorenne del F.Q., per giunta in un contesto denigratorio del nucleo familiare, atteso il tenore del messaggio a corredo della foto, in cui l’imputato giungeva a minacciare che, ove non avesse chiesto scusa per le offese, (OMISSIS) (p. 22 sentenza d’appello).
Con motivazione che certamente non può dirsi, anche in questo caso, affetta da manifesta illogicità, il giudice d’appello ha preso atto della grave offesa all’immagine della minore, vistasi accostata a quella del padre, nel mentre questi era, nel modo detto, minacciato e ingiuriato. Ancora una volta, dunque, parte ricorrente chiede, in sostanza, che si riveda un simile giudizio di fatto, privo di vizi motivazionali, in sede di legittimità: ciò che, come detto, è chiaramente inammissibile.
3. Il quarto motivo (con cui si contesta la sussistenza del delitto di minaccia continuata) è in parte inammissibile, laddove sollecita una nuova valutazione di circostanze fattuali già esaminate in sede di merito, in parte infondato, laddove invoca l’erronea applicazione di norme di diritto.
La valutazione delle espressioni utilizzate e della loro potenzialità intimidatoria, nonché il rilievo dato, in modo del tutto logico, alla qualifica di appartenente alla Polizia di Stato in capo al ricorrente, rientrano nei giudizi fattuali tipicamente riservati al giudice del merito, laddove congruamente motivati, come nelle specie.
Come rimarcato dal giudice d’appello, «la reciprocità delle offese e, in generale, delle espressioni disdicevoli adoperate da entrambi non elide affatto il carattere minaccioso delle frasi pubblicate dal G.C.M. nei confronti del F.Q., consistite nel prospettare, peraltro a corredo della foto in cui compariva la sua figlia minore, l’ulteriore pubblicazione di “(OMISSIS)” sulla moglie e sullo stesso F.Q., di cui l’imputato affermava di conoscere “(OMISSIS)”, fino a prospettare aggressioni fisiche e inquietanti allusioni a pratiche mafiose (OMISSIS). I termini adoperati, nella loro triviale eloquenza, per giunta da persona che non aveva mancato di sottolineare, in più occasioni, la propria appartenenza alla Polizia di Sato, non alludevano certo all’intento del G.C.M. di tutelare le proprie ragioni per vie legali» (p. 24 sentenza d’appello).
Infondato in diritto, per contro, è l’assunto secondo cui le risposte sulla medesima chat da parte della persona offesa denotavano l’assenza di timore la stessa e, dunque, l’inidoneità della condotta ad integrare il delitto di minaccia contestato.
In realtà, ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 612 cod. pen., che costituisce reato di pericolo, la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicché non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima, il cui eventuale atteggiamento minaccioso o provocatorio non influisce sulla sussistenza del reato, potendo eventualmente sostanziare una circostanza che ne diminuisca la gravità, come tale esterna alla fattispecie (Sez. 2, n. 21684 del 12/02/2019, Bernasconi, Rv. 275819-02; confronta, negli stessi termini: Sez. 5, n. 6756 del 11/10/2019, dep. 2020, Rv. 278740-01 e Sez. 1, n. 44128 del 03/05/2016, Rv. 268289-01).
Nella specie, come detto, la Corte d’appello ha ritenuto – per la gravità e reiterazione delle minacce, coinvolgenti anche l’ambito familiare e non solo il F.Q., per l’appartenenza del ricorrente alla Polizia di Stato e per i suoi, evidentemente correlati, ripetuti riferimenti alla possibile conoscenza di dettagli della vita privata dello stesso F.Q. tali da potergli che cagionare del male – che detta capacità intimidatoria fosse sussistente nei fatti oggetto di contestazione: valutazione che risulta conforme a diritto, per quanto detto, oltre che non ulteriormente censurabile in sede di legittimità.
5. Quanto alle richieste inerenti il trattamento sanzionatorio, le stesse sono del tutto inammissibili, non essendo stato articolato alcun motivo di censura, ai sensi degli artt. 581, comma 1, lettera d) e 591, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.: essendosi omessa l’enunciazione specifica dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto, a sostegno della richiesta.
Circa, infine, la chiesta declaratoria di prescrizione dei reati, è appena il caso di evidenziare come anche tale istanza sia manifestamente infondata, ove si considerino i 343 giorni di sospensione della prescrizione, ex art. 159, comma 1, n. 3, cod. pen., per i rinvii delle udienze su congiunta richiesta delle parti dal 24/11/2020 al 11/05/2021 e dal 16/11/2021 al 10/05/2022.
3. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di rigetto segue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
La materia trattata, inerente anche minori, impone di disporre che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, ex art. 52, comma 5, d.lgs.196/2003, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Cass. pen., V, ud. dep. 25.08.2025, n. 29683