Processo – Giurisdizione – Competenza – Giudizio di legittimità e giudizio risarcitorio, oggetto ed elementi distintivi

Processo – Giurisdizione – Competenza – Giudizio di legittimità e giudizio risarcitorio, oggetto ed elementi distintivi

1. Con ricorso notificato il 5 giugno 2024 e depositato il 19 giugno 2024, la Albani Service s.r.l. (in appresso, A. S.) agiva per la condanna del Comune di Nocera Superiore al risarcimento per equivalente monetario dei danni derivanti dall’illegittima revoca parziale dell’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008, disposta dal Responsabile dello Sportello Unico per le Attività Produttive (SUAP) con provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523, nonché quantificati nella misura complessiva di € 413.321,00, di cui € 336.000,00 per lucro cessante, € 50.000,00 per danno all’immagine ed € 27.321,00 per danno emergente, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

2. Alla stregua delle allegazioni di causa, la vicenda controversa è, in sintesi, la seguente.

2.1. La A. S. è proprietaria della struttura turistico-ricettiva denominata “Hotel Villa Albani”, munita di autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008, ubicata in Nocera Superiore, via Pecorari n. 65/67, censita in catasto al foglio 16, particelle 140, 194, 376, 379, 381, 383, costituita da quattro corpi di fabbrica, di cui due destinati all’attività alberghiera, uno adibito a bar ed uno destinato a cucina/ristorante/sala ricevimenti.

2.2. Il permesso di costruire n. 114 del 26 agosto 2004, rilasciato in favore della A. S. per l’ampliamento della struttura turistico-ricettiva in parola mediante realizzazione di una c.d. dependance destinata a cucina/ristorante/sala ricevimenti, era stato annullato dal TAR Campania, Salerno, sez. II, con sentenza n. 10166 dell’8 luglio 2010, confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. IV, con sentenza n. 2107 del 5 aprile 2018.

2.3. A seguito del pronunciato annullamento giurisdizionale del permesso di costruire n. 114 del 26 agosto 2004, la A. S. richiedeva, ai sensi dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001, la fiscalizzazione dell’opera abusiva, che, però, veniva denegata dall’interpellato Comune di Nocera Superiore con provvedimento del 12 giugno 2015, prot. n. 13550.

L’impugnazione di tale determinazione, proposta dalla A. S. parallelamente a quella dell’ordinanza di demolizione n. 367 del 16 giugno 2015, era accolta dall’adito TAR Campania, Salerno, sez. I, con sentenza n. 1790 del 29 luglio 2016 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. IV, con la menzionata sentenza n. 2107 del 5 aprile 2018), con la precisazione che, in chiave conformativa, l’amministrazione comunale avrebbe dovuto riattivare il procedimento di fiscalizzazione.

2.4. In sede di riedizione del potere, il Comune di Nocera Superiore, con provvedimento n. 28 del 14 dicembre 2018 (prot. n. 35709) denegava nuovamente la richiesta fiscalizzazione, reiterando la misura demolitoria (ordinanza n. 3 del 3 aprile 2019, prot. n. 10239).

La nuova determinazione declinatoria dell’applicazione della sanzione pecuniaria alternativa a quella demolitoria era impugnata dinanzi al TAR Campania, Salerno, sez. II, che, con sentenza n. 893 del 15 luglio 2020 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 3333 del 26 aprile 2021), la dichiarava nulla per elusione del giudicato di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2107 del 5 aprile 2018.

2.5. In pendenza di quest’ultimo giudizio, il Responsabile del SUAP del Comune di Nocera Superiore, con provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523, revocava l’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008, nella parte concernente la dependance assentita con l’annullato permesso di costruire n. 114 del 26 agosto 2004.

2.6. La disposta revoca parziale del menzionato titolo annonario era annullata dall’adito TAR Campania, Salerno, sez. II, con sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020, resistita all’appello dichiarato improcedibile dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 2918 del 27 marzo 2024.

2.7. Frattanto, il Comune di Nocera Superiore, con provvedimento del 5 gennaio 2023, prot. n. 469, applicava nei confronti della A. S. la sanzione pecuniaria alternativa a quella demolitoria ai sensi dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001.

3. Di qui, poi, la domanda risarcitoria proposta col ricorso in epigrafe, ricollegata alla condotta illegittima (così come acclarata, in primo grado, con la sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020 e, in secondo grado, con la sentenza n. 2918 del 27 marzo 2024) del Comune di Nocera Superiore, in quanto nuovamente oppostosi alla richiesta fiscalizzazione dell’opera rimasta sine titulo e non conformatosi al dictum giurisdizionale di cui alla sentenza di primo grado n. 1790 del 29 luglio 2016 ed alla sentenza di secondo grado n. 2107 del 5 aprile 2018), fino a indursi alla revoca parziale dell’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008. Condotta, a dire della ricorrente, colposamente illegittima che avrebbe impedito l’erogazione dei servizi di ristorazione presso la dependance de qua e, con esso, dei servizi alberghieri presso l’intera struttura nel periodo intercorso tra l’adozione del provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523, ed il suo annullamento giurisdizionale, pronunciato in primo grado con sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020, nonché nel successivo periodo di 12 mesi, a causa della mancata prenotazione di ricevimenti; e che avrebbe cagionato il connesso danno patrimoniale, quantificato nella somma corrispondente al lucro cessante, commisurato alla mancata percezione del canone mensile di locazione convenuto con la ex conduttrice dell’Hotel Villa Albani (Country Club Catering s.r.l.), pari a € (16.000,00 x 15 =) 240.000,00, durante il periodo di inattività (7 maggio 2019 – 6 agosto 2020), e del 50% del medesimo canone mensile di locazione, pari a € (16.000,00 x 50% = 8.000,00 x 12 =) 96.000,00, durante il successivo periodo di 12 mesi, al danno all’immagine, quantificato in via equitativa in € 50.000,00, ed al danno emergente, individuato nelle spese legali sostenute nei giudizi instaurati avverso gli atti amministrativi illegittimi adottati nei confronti della A. S., nonché quantificato in complessivi € 27.321,00, il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria.

4. Costituitosi l’intimato Comune di Nocera Superiore, eccepiva l’irricevibilità e l’infondatezza della domanda risarcitoria proposta ex adverso.

5. All’udienza pubblica del 22 luglio 2025, la causa era trattenuta in decisione.

6. Venendo ora a scrutinare il ricorso, va disattesa, in rito, l’eccezione di tardività sollevata dall’amministrazione resistente.

Il dies a quo per il decorso del termine decadenziale di 120 giorni, previsto dall’art. 30, comma 5, cod. proc. amm. («Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza») ai fini della tempestiva proposizione dell’azione risarcitoria, non è, infatti, identificabile nel passaggio in giudicato della sentenza del TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 893 del 15 luglio 2020, una volta confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 3333 del 26 aprile 2021.

In particolare, con tale pronuncia è stato dichiarato nullo il provvedimento n. 28 del 14 dicembre 2018 (prot. n. 35709), recante il diniego di fiscalizzazione della dependance rimasta sine titulo, ed è stata annullata la susseguente ordinanza di demolizione n. 3 del 3 aprile 2019, prot. n. 10239.

Ora, il lamentato danno ingiusto, ossia la lesione patrimoniale determinata dall’illegittima paralisi dell’attività turistico-ricettiva esercitata presso l’Hotel Villa Albani, non è da reputarsi essersi immediatamente verificato in capo alla A. S. con l’adozione di tali atti, bensì soltanto, a valle di essi, con la revoca parziale dell’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008, che ha impedito la prosecuzione dell’attività anzidetta. Con la conseguenza che il suindicato dies a quo per l’esperimento della tutela risarcitoria avrebbe dovuto individuarsi soltanto nel passaggio in giudicato della sentenza del TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 1005 del 6 agosto 2020 (una volta resistita all’appello dichiarato improcedibile dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 2918 del 27 marzo 2024), la quale ha, appunto, annullato provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523; e che, quindi, il presente giudizio è da intendersi tempestivamente instaurato ai sensi del citato art. 30, comma 5, cod. proc. amm.

7. Nel merito, il ricorso in epigrafe si rivela fondato nei sensi e nei limiti indicati in appresso.

8. Con riguardo all’‘an’ dell’invocato danno risarcibile, è appena il caso di rammentare che, per ius receptum, il riconoscimento di quest’ultimo non si configura come una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo (indicativa della sola ingiustizia del danno), richiedendosi anche la dimostrazione probatoria e la positiva verifica sia della lesione del bene della vita, sia del nesso causale tra l’illecito e quest’ultima sia della sussistenza della colpevolezza dell’amministrazione (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2016, n. 4266; sez. III, 3 dicembre 2018, n. 6833; 4 marzo 2019, n. 1500; sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217; sez. VI, 24 ottobre 2022, n. 9039; sez. IV, 17 luglio 2023, n. 6958; sez. V, 5 gennaio 2024, n. 219; sez. II, 28 gennaio 2025, n. 659; TAR Lazio, Roma, sez. III, 17 marzo 2023, n. 4680).

9. Tanto premesso, sussiste innegabilmente, nella specie, l’illegittimità dell’attività provvedimentale posta in essere dal resistente Comune di Nocera Superiore.

Ed invero, a valle del duplice accertamento giurisdizionale dell’illegittimità del diniego di fiscalizzazione, la disposta revoca parziale dell’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008 si è rivelata, a sua volta, illegittima ed è stata, quindi, annullata dal TAR Campania, Salerno, sez. II, con sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020, resistita all’appello dichiarato improcedibile dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 2918 del 27 marzo 2024.

10. Come accennato retro, sub n. 8, secondo l’arresto nomofilattico sancito da Cons. Stato, ad. plen., n. 13/2008, l’imputazione soggettiva della responsabilità della pubblica amministrazione non può, comunque, avvenire sulla base del mero dato oggettivo dell’illegittimità dell’azione amministrativa, poiché ciò si risolverebbe in un’inammissibile presunzione di colpa ‘iuris et de iure’, ma impone, invece, l’accertamento in concreto della colpa, configurabile allorquando l’adozione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell’azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, sia dai principi generali dell’ordinamento in punto di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza (cfr., in tal senso, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 4266/2016; sez. V, n. 1087/2024; sez. IV, n. 7529/2024; sez. II, n. 659/2025; TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 5634/2024).

L’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce, dunque, solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della situazione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’amministrazione, sicché la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduce al riconoscimento dell’errore scusabile per l’esistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 5 maggio 2020, n. 2848; sez. III, 18 giugno 2020, n. 3903).

Se è vero, cioè, che, sulla base dell’orientamento prevalente, in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare l’illegittimità dell’atto quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell’amministrazione l’onere di dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2019, n. 1815), è altrettanto vero che – come dianzi enunciato – la presunzione di colpa dell’amministrazione può essere riconosciuta solo nelle ipotesi di violazioni commesse in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento, giuridico e fattuale, tale da palesarne la negligenza e l’imperizia, cioè l’aver agito intenzionalmente o in spregio alle regole di correttezza, imparzialità e buona fede nell’assunzione del provvedimento viziato (cfr. Cons. Stato, sez. III, 11 marzo 2015, n. 1272; 14 maggio 2015, n. 2464; sez. V, 2 febbraio 2024, n. 1087).

Al riguardo, soccorrono i parametri o indici sintomatico-presuntivi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. C. giust. CE, 5 marzo 1996, C-46/96 e C-48/93; 23 maggio 1996, C-5/94) – che ha, tra l’altro, reputato incompatibile con l’ordinamento europeo la normativa riversante sul privato l’onere della prova dell’elemento soggettivo della responsabilità dell’amministrazione (cfr. C. giust. CE, 14 ottobre 2004, n. C-275/03; cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 2751/2008) – e recepiti da quella nazionale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5012/2004; sez. V, n. 32/2005; sez. IV, n. 478/2005; sez. V, n. 1346/2007) ai fini dell’accertamento della colpa dell’amministrazione; parametri o indici sintomatico-presuntivi ex art. 2727 cod. civ., sintetizzabili nella gravità della violazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3169/2001; sez. V, n. 32/2005; n. 3162/2012; sez. IV, n. 4452/2013; sez. III, n. 1357/2014) e nell’assenza di errore scusabile, dovuto, ad es., all’incertezza del quadro normativo di riferimento (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 4189/2013; sez. VI, n. 4310/2013; sez. IV, n. 4439/2013; sez. VI, n. 5935/2013; sez. V, n. 1644/2014), all’ampiezza del potere discrezionale attribuito all’autorità (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3162/2012; sez. IV, n. 5458/2013; n. 5551/2013), alla sussistenza di contrasti giurisprudenziali (cfr. Cons. giust. amm. sic., sez. giur., n. 717/2007; Cons. Stato, sez. V, n. 3162/2012; sez. VI, n. 1669/2013; sez. III, n. 2452/2013; sez. V, n. 4189/2013; sez. IV, n. 4439/2013; n. 5624/2013; sez. V, n. 63/2014; n. 1644/2014), alla novità o complessità della questione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 1669/2013; sez. V, n. 1773/2013; n. 4189/2013; sez. VI, n. 5935/2013; n. 852/2014; sez. V, n. 1644/2014), al concreto atteggiarsi della vicenda procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3162/2012; sez. IV, n. 5458/2013; sez. VI, n. 674/2014).

In definitiva, «ai fini dell’accertamento della responsabilità, perché si configuri la colpa dell’amministrazione, occorre avere riguardo al carattere ed al contenuto della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, in caso di sua violazione, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico. Al contrario, se il canone della condotta amministrativa è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’autorità pubblica un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà sussistere solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle menzionate regole di imparzialità, correttezza e buona fede, proporzionalità e ragionevolezza, con la conseguenza che ogni altra violazione del diritto oggettivo resta assorbita nel perimetro dell’errore scusabile, ai sensi dell’art. 5 cod. pen.» (Cons. Stato, sez. V, 21 aprile 2023, n. 4050; cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11 settembre 2024, n. 7529; sez. III, 7 febbraio 2025, n. 1003).

Come enunciato da Cons. Stato, sez. III, 7 febbraio 2025, n. 1003, «a differenza che nel giudizio di legittimità, in cui l’oggetto del sindacato è il provvedimento amministrativo e la sua coerenza con il quadro fattuale e giuridico esistente al momento della sua adozione, correttamente ricostruito (il primo) ed esattamente interpretato (il secondo), nel giudizio risarcitorio oggetto di valutazione è la complessiva condotta dell’amministrazione, di cui il provvedimento costituisce solo un elemento, dovendo verificarsi se, nell’esercizio del suo compito di perseguimento primario dell’interesse pubblico, essa non abbia travalicato i limiti basilari entro i quali l’azione autoritativa deve essere contenuta e che fungono da cornice “esterna” della discrezionalità amministrativa, superati i quali essa cessa di essere riconoscibile come tale ed assume i connotati di una mera attività materiale lesiva degli interessi giuridici dei cittadini (della cui violazione l’amministrazione è quindi chiamata a rispondere sul piano risarcitorio).

Il discrimine tra l’azione amministrativa illegittima e quella illecita è appunto segnato (anche) dall’elemento soggettivo, la cui sussistenza si desume dalla violazione delle regole – di diligenza, buona fede ed imparzialità – cui l’apparato pubblico deve uniformare la sua condotta, tenuto conto del contesto complessivo in cui l’amministrazione esercita la sua funzione.

La diversa natura del giudizio risarcitorio rispetto a quello di legittimità comporta che le qualificazioni (del provvedimento impugnato) sancite dalla sentenza conclusiva del secondo non condizionano in modo automatico l’accertamento della fattispecie risarcitoria, diverso essendo l’oggetto dei due giudizi ed i parametri cui deve ispirarsi il loro svolgimento.

Inoltre, proprio perché l’elemento soggettivo costituisce uno dei tasselli della fattispecie risarcitoria, il giudice, ai fini della sua ricostruzione, è chiamato a prendere in considerazione tutte le circostanze, di fatto e di diritto, caratterizzanti la concreta situazione devoluta alla sua cognizione, così come emergenti dal materiale processuale ed anche laddove non abbiano costituito oggetto di rituale eccezione ad opera della parte interessata».

11. Tali essendo le coordinate ermeneutiche in subiecta materia, sono ravvisabili, nel caso in esame, gli estremi dell’elemento psicologico della responsabilità aquiliana del Comune di Nocera Superiore per l’adozione dell’illegittimo provvedimento di revoca parziale dell’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008.

In particolare, ogni incertezza e/o difficoltà ermeneutico-applicativa in ordine alla sussistenza o meno dei presupposti per l’irrogazione della sanzione pecuniaria alternativa a quella demolitoria è stata fugata nei termini seguenti dal TAR Campania, Salerno, sez. I, nella sentenza n. 1790 del 29 luglio 2016 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. IV, con la menzionata sentenza n. 2107 del 5 aprile 2018):

«Giova riportare il tratto testuale dell’art. 38 del d.p.r. n. 380/2001, invocato da parte ricorrente: “1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa. 2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36”. Dalla formulazione della norma, secondo la lettura alla quale accede la più recente giurisprudenza, è dato inferire che se l’annullamento giurisdizionale del PdC, con sentenza passata in giudicato, rende abusive le opere edilizie realizzate in base a quest’ultimo, il Comune non deve necessariamente disporre la sola riduzione in pristino potendo assumere “una gamma articolata di possibili soluzioni, della valutazione delle quali l’atto conclusivo del nuovo procedimento dovrà ovviamente dare conto” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 15 giugno 2016, n. 2631) e ciò sia in presenza di vizi formali che sostanziali, con la sola esclusione dei vizi inemendabili a causa della inedificabilità dell’area (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10 settembre 2015, n. 4221). Si aggiunge in sede pretoria (TAR Ancona, sez. I, 09 ottobre 2015, n. 703) che il concetto di possibilità di ripristino non è inteso come “possibilità tecnica”, occorrendo comunque valutare l’opportunità di ricorrere alla demolizione, dovendosi comparare l’interesse pubblico al recupero dello status quo ante con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato incolpevole che aveva confidato nell’esercizio legittimo del potere amministrativo. La norma oggetto di indagine, quindi, consente di configurare l’esercizio del potere sanzionatorio, in casi siffatti, in termini discrezionali, ponendosi al cospetto dell’Amministrazione plurime alternative al fine di ripristinare la legalità violata. Orbene, parte ricorrente ha documentato che, in data 22 gennaio 2014, nelle more del giudizio di appello avverso la sentenza di questo TAR n. 10166/2010, che annullava il titolo edilizio n. 114/2004, ha chiesto la applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione, ai sensi dell’art. 38 d.p.r. n. 380/2001, e che stessa veniva riscontrata favorevolmente dall’amministrazione comunale in data 5 febbraio 2014. Con tale atto, l’amministrazione verificava la non fattibilità della “demolizione della parte delle sole opere autorizzate con il permesso di costruire n. 114/2004 successivamente annullato…. che danneggerebbe anche quelle regolarmente autorizzate e, quindi, renderebbe completamente inagibile l’intero corpo di fabbrica, sia quello esistente che la parte di ampliamento autorizzata unitamente al danneggiamento di tutti gli impianti sia elettrici che di condizionamento realizzati”. Tale relazione del Responsabile dell’Area Assetto del Territorio … segue alla richiesta di sanatoria, ai sensi del citato art. 38, avanzata dalla società ricorrente e ricevuta dall’ente in data 23 gennaio 2014 prot. n. 1409, come espressamente rammentato nel corpo della relazione medesima e pertanto si colloca esattamente nell’iter procedimentale innescato da detta domanda. Risulta quindi fondata la censura, articolata in entrambi i gravami in esame, con la quale si denuncia la omessa considerazione di tale contributo istruttorio ancorché potenzialmente decisivo ai fini della determinazione sull’istanza della ricorrente. Tanto più che, come detto, la vicenda si colloca in un contesto normativo che impone all’amministrazione la scelta tra plurime alternative, cosicché la sanzione demolitoria non costituisce atto normativamente dovuto al fine di conformarsi alla pronuncia annullatoria, peraltro nel caso di specie non ancora passata in giudicato».

Allorquando il Comune di Nocera Superiore ha omesso di conformarsi a tale regola di giudizio, da un lato, reiterando il diniego di fiscalizzazione (provvedimento n. 28 del 14 dicembre 2018, prot. n. 35709) e, d’altro lato, parzialmente revocando l’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008 (provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523), il suo operato amministrativo, acclarato come illegittimo, rispettivamente, dal TAR Campania, Salerno, sez. II, con sentenza n. 893 del 15 luglio 2020 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 3333 del 26 aprile 2021) e con sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020 (confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 2918 del 27 marzo 2024), si è inconfutabilmente configurato in termini di colpevolezza inescusabile.

Come enunciato nella sentenza n. n. 893 del 15 luglio 2020, «l’autorità comunale avrebbe dovuto valutare la sussistenza di entrambi i requisiti della “rimozione dei vizi delle procedure amministrative” e dell’impossibilità della “restituzione in pristino”, alla stregua del § 3.4 della sentenza del Consiglio di Stato n. 2107/2018 che: – sul primo requisito, ha confermato la statuizione di prime cure, nella parte in cui è stato stabilito l’obbligo per la p.a. di considerare “l’effettiva efficacia, sussistenza, ampiezza e incidenza rispetto all’opera realizzata del vincolo connesso alla destinazione di zona a ‘verde pubblico’”; – sul secondo requisito, ha dato atto della «contestata possibilità di riduzione in pristino, con demolizione della parte costruita in ampliamento senza pregiudizio della parte conforme”. Ciò nondimeno, il provvedimento di rigetto dell’istanza d’applicazione di sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione nulla dice riguardo al secondo requisito, mentre reca una motivazione tautologica sul primo, mediante il semplice richiamo alla sentenza n. 2107/2018».

E, come ulteriormente enunciato dal TAR Campania, Salerno, sez. II, nella sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020, «l’intervenuta declaratoria di nullità del provvedimento n. 28 del 14dicembre 2018 e l’intervenuto annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 3 del 3 aprile 2019, vale a dire dei provvedimenti, posti dal Comune di Nocera Superiore» a fondamento della revoca dell’autorizzazione commerciale n. 1 del 31 gennaio 2008, disposta col provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523, «non può non importare, con ogni evidenza, altro che il venir meno dei presupposti giustificativi del medesimo, con conseguente accoglimento del gravame, per tale dirimente ed assorbente motivo. Tanto, conformemente alla – pienamente condivisibile – deduzione difensiva di parte ricorrente, secondo la quale: “L’illegittimità del diniego di applicazione della sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione … si riflette in termini invalidanti anche sul provvedimento n. 13523/2019, di revoca parziale del titolo commerciale, che è fondato unicamente sul diniego dell’art. 38 d.p.r. 380/2001”».

12. Sempre sul piano dell’‘an’, del lamentato danno risarcibile, sussiste pure la lesione del bene della vita ambito in conseguenza dell’accertata illegittimità dell’agere amministrativo, ossia il rapporto di causalità tra quest’ultimo e il pregiudizio denunciato, tenuto conto che la caducata rimozione parziale in autotutela del titolo annonario ex ante rilasciato ha impedito alla A. S. la piena utilizzazione della struttura turistico-ricettiva in sua titolarità.

Rammenta, però, al riguardo, il Collegio che, affinché una condotta illecita sia da considerarsi eziologicamente suscettibile di arrecare un danno risarcibile, occorre anche verificare se quest’ultimo non si sarebbe evitato adottando tutti gli accorgimenti imposti dalla legge secondo un canone di ordinaria diligenza, poiché, in caso contrario, l’inerzia dell’amministrazione resistente non sarebbe causativa del predetto danno-conseguenza.

Sotto questo profilo, non basta vagliare il comportamento tenuto dall’amministrazione, ma occorre aver riguardo alla vicenda nel suo complesso, onde accertare l’eventuale concorso di altri fattori causali o concausali che possano aver influito, in maniera più o meno determinante, sulla produzione del danno-conseguenza.

Ebbene, tra i fattori concausali da prendere in considerazione non può trascurarsi il rilievo del concorso del comportamento dello stesso danneggiato in quanto rilevante ai sensi dell’art. 1227, comma 2, cod. civ.

A tenore di tale disposizione, «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza».

Nello stesso senso, l’art. 30, comma 3, cod. proc. amm., stabilisce che, «nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti».

Come osservato da Cons. Stato, ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3, la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento – oggi sancita dall’art. 30, comma 3, cod. proc. amm. – deve ritenersi ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’interpretazione evolutiva dell’art. 1227, comma 2, cod. civ.

In particolare, l’obbligo di cooperazione ex art. 1227, comma 2, cod. civ. trova fondamento nel canone di buona fede ex art. 1175 cod. civ. e, quindi, nel principio costituzionale di solidarietà: da ciò deriva che anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire comportamenti valutabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno.

La disciplina recata nel comb. disp. artt. art. 30, comma 3, cod. proc. amm. e 1227, comma 2, cod. civ. dimostra, così, di apprezzare la rilevanza eziologica anche dell’omessa reazione processuale all’inerzia dell’amministrazione, al fine di stabilire la sussistenza e la consistenza del danno risarcibile, ossia di escludere la ristorabilità del danno che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, avrebbe potuto presumibilmente evitarsi mediante gli anzidetti rimedi giudiziali e stragiudiziali.

In tale prospettiva, il Collegio deve ritenersi chiamato a verificare se nel novero dei comportamenti esigibili dal soggetto leso dall’illegittimo operato dell’amministrazione resistente sia sussumibile anche il tempestivo esperimento di rimedi giurisdizionali sospensivi, propulsivi o reintegrativi, nella misura in cui esso sarebbe stato idoneo a scongiurare, in tutto o in parte, il nocumento, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, il cui nesso qualificante può rimanere spezzato dalla condotta processuale dell’interessato, integrante violazione dell’obbligo di cooperazione.

Ebbene, nella specie, la A. S., onde scongiurare il verificarsi o l’aggravarsi del danno irreparabile potenzialmente derivante dal provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523, non risulta aver coltivato, nel giudizio instaurato avverso quest’ultimo, iscritto a r.g. n. 1045/2019 e definito dall’adito TAR Campania, Salerno, sez. II, con sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020, la proposta istanza cautelare, avendovi rinunciato all’udienza camerale fissata all’11 settembre 2019 (ed essendosi limitata a presentare, nella successiva data del 13 settembre 2019, istanza di prelievo ai meri fini della trattazione congiunta col ricorso iscritto a r.g. n. 522/2019).

Siffatta condotta omissiva, se, da un lato, non elide in radice l’acclarata illiceità di quella del Comune di Nocera Superiore, costituisce, d’altro lato, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile ai fini della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza.

Tanto giustifica, dunque, la riduzione equitativa, nella misura del 40%, del danno risarcibile, in rapporto al denunciato protrarsi della condotta illegittima nel periodo (11 mesi) di abbandono attoreo della tutela interninale, intercorso tra la menzionata udienza camerale del’11 settembre 2019 e la pronuncia della sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020.

Donde la limitazione del danno inevitabile all’ammontare di € 413.321,00 – (413.321,00 x 50% =) 165.328,40 = 247.992,60, di cui di cui € 336.000,00 – (336.000,00 x 50% =) 134.400,00 = 201.600,00 a titolo di lucro cessante, € 50.000,00 – (50.000 x 40% =) 20.000,00 = 30.000,00 a titolo di danno all’immagine, € 27.321,00 – (27.321,00 x 50% =) 10.928,40 = 16.392,60.

13. Venendo ora al ‘quantum’ del lamentato pregiudizio patrimoniale, deve ricordarsi che il danno risarcibile non può dirsi esistente soltanto perché sia stato vulnerato un diritto o un interesse legittimo. La lesione del diritto o dell’interesse legittimo è, cioè, il presupposto del danno, non il danno. Quest’ultimo vi sarà soltanto se dalla lesione del diritto o dell’interesse legittimo sia altresì derivata una perdita, patrimoniale o non patrimoniale (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 18494/2015).

In particolare, la prova dell’esistenza del danno da provvedimento illegittimo interviene in base ad una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua “certezza”, la quale presuppone non solo l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale della quale possa assumersi essere intervenuta una lesione (e laddove vi è esercizio di potere, tale posizione sostanziale è l’interesse legittimo), ma anche l’esistenza di una lesione, che è configurabile sia laddove questa possa essere a tutta evidenza e concretamente riscontrata, sia laddove vi sia “una rilevante probabilità del risultato utile” frustrata dall’agire illegittimo dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 131/2015).

Pertanto, in mancanza dell’allegazione di un “danno-conseguenza”, e cioè in mancanza della prova dell’effettiva lesione della propria sfera patrimoniale a seguito della condotta amministrativa asseritamente illecita, la domanda di liquidazione del danno non può trovare accoglimento (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 9 marzo 2020, n. 210; n. 608/2020).

Giova, altresì, rammentare che l’azione risarcitoria deve ispirarsi rigorosamente al principio dispositivo, sicché, in assenza di un’adeguata prova da parte ricorrente circa la consistenza del danno di cui è richiesto il ristoro, non può essere il giudice amministrativo a quantificarlo in via suppletiva sulla base di criteri esclusivamente equitativi (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 775/2011; TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 8984/2012; TAR Sardegna, Cagliari, sez. II, n. 440/2017).

Ed invero, la riconduzione dell’illecito provvedimentale allo schema della responsabilità extracontrattuale implica che incombe sulla parte danneggiata, che agisce per il risarcimento, l’onere di dimostrare, oltre all’esistenza di un pregiudizio e alla sua riconducibilità eziologica all’adozione del provvedimento illegittimo, anche la misura del danno asseritamente sofferto. Si tratta, cioè, di applicare al giudizio risarcitorio, proposto dinanzi al giudice amministrativo mediante l’esperimento di un’azione di accertamento e di condanna, il principio generale sulla distribuzione dell’onere della prova, sancito dall’art. 2697 cod. civ., secondo cui chi agisce in giudizio deve dimostrare i fatti costitutivi della pretesa vantata.

D’altronde, l’art. 64, comma 1, cod. proc. amm. stabilisce che spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità e riguardanti i fatti posti a fondamento di domande e di eccezioni, ma il riferimento ad “elementi di prova” non vale a rendere applicabile nel giudizio risarcitorio il principio dispositivo con metodo acquisitivo, caratteristico del processo impugnatorio, perché rispetto alla domanda risarcitoria i mezzi di prova sono nell’immediata disponibilità di colui che ha subito il danno, sicché sarebbe priva di giustificazione l’applicazione del criterio caratteristico del giudizio di annullamento. Ne consegue, da un lato, che il danneggiato, ai fini della quantificazione del pregiudizio lamentato, non può limitarsi ad allegare un principio di prova, ma deve assolvere in pieno l’onere della prova (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. III, n. 2681/2013; TAR Emilia Romagna, Parma, n. 92/2014; n. 13/2015), e, d’altro lato, che non è consentito al giudice amministrativo sostituirglisi mediante l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ovvero – come accennato – accogliere la domanda di liquidazione in via equitativa del danno, pur trattandosi di elementi di prova nella disponibilità attorea (cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. II, n. 384/2013; TAR Campania, Salerno, sez. I, n. 1819/2013; n. 100/2015). Se, infatti, la limitazione dell’onere ex art. 2697 cod. civ. gravante sulla parte che agisce in giudizio, che caratterizza il processo amministrativo, si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti, che connota abitualmente il rapporto amministrativo intercorrente tra la il privato e la pubblica amministrazione, detta ineguaglianza e la connessa esigenza di attenuazione dell’onere probatorio a carico della parte ricorrente vengono meno con riguardo alla dimostrazione dell’an e del quantum dei danni azionati in via risarcitoria, inerendo in tali ipotesi i fatti oggetto di prova alla sfera soggettiva della parte che si assume lesa e trovandosi le relative fonti di reperimento normalmente nella disponibilità della stessa (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 1301/2015; TAR Campania, Napoli, sez. V, n. 3426/2016).

14. Se così è, la A. S. risulta aver provato solo in parte la sussistenza e l’ammontare delle voci di danno ricollegate alla condotta illegittima dell’amministrazione resistente.

15. Sul lucro cessante.

La ricorrente lamenta la mancata percezione dei profitti rivenienti dall’attività turistico-ricettiva presso l’Hotel Villa Albani, in sua titolarità, commisurandoli canone mensile di locazione convenuto con la ex conduttrice dell’Hotel Villa Albani (Country Club Catering s.r.l.), pari a € (16.000,00 x 15 =) 240.000,00, durante il periodo di inattività (7 maggio 2019 – 6 agosto 2020), e del 50% del medesimo canone mensile di locazione, pari a € (16.000,00 x 50% = 8.000,00 x 12 =) 96.000,00, durante il successivo periodo di 12 mesi.

15.1. La prospettazione attorea sconta, innanzitutto, l’obiezione – condivisibilmente formulata da parte resistente – secondo cui la rimozione del titolo annonario limitatamente all’operatività di una porzione immobiliare (dependance adibita a cucina/ristorante/sala ricevimenti) avente una superficie pari a soli mq 350,92, a fronte della complessiva superficie assentita della struttura alberghiera, pari a mq 4.518, ossia ragguagliante soltanto l’8% di quest’ultima, possa aver paralizzato totalmente l’attività turistico-ricettiva insediata presso l’Hotel Villa Albani.

Ed invero, la ricorrente si è limitata ad affermare apoditticamente che «la mancanza del servizio di ristorazione, che comprende anche la prima colazione, ha comportato che anche l’attività alberghiera non si è potuta più svolgere, essendo venuto a mancare uno standard essenziale per essere competitivi nel mercato di riferimento». Ciò, senza dimostrare che le attività di prima colazione e/o di ristorazione non potessero essere temporaneamente trasferite in altro settore della struttura in sua titolarità o, comunque, riorganizzate (anche mediante outsourcing), in modo da assicurare la pienezza e la continuità del servizio alberghiero. E, per di più, infrangendosi contro rilievo – contenuto nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2107 del 5 aprile 2028 – a tenore del quale l’ampliamento assentito con l’annullato permesso di costruire n. 114 del 26 agosto 2004 costituisce «intervento edilizio relativo ad ampliamento di “sala ricevimenti”, difettando quindi una destinazione di stretta e esclusiva pertinenzialità funzionale con l’esercizio dell’attività alberghiera, come viceversa nel caso di ristorante riservato ai soli clienti dell’albergo».

15.2 La quantificazione operata dalla A. S. risulta, altresì, obliterare, sul piano della dimostrazione in concreto del mancato guadagno, la circostanza oggettiva e rilevante, che il lamentato periodo di interruzione e contrazione dell’attività turistico-ricettiva dell’Hotel Villa Albani (intercorso tra l’adozione del provvedimento del 7 maggio 2019, prot. n. 13523, ed il suo annullamento giurisdizionale, pronunciato in primo grado con sentenza n. 1005 del 6 agosto 2020, nonché protrattosi nei successivi 12 mesi) abbia in parte coinciso col periodo di ‘lockdown’ decretato all’indomani dell’esplosione dell’evento pandemico da Covid-19, in cui le più severe restrizioni hanno colpito proprio i servizi di ristorazione.

15.3. Si rivela, infine, eccessiva la stima attorea del periodo (12 mesi) di ulteriore contrazione dell’attività turistico-ricettiva, asseritamente protrattasi anche all’indomani della rimozione giurisdizionale del provvedimento ostativo del 7 maggio 2019, prot. n. 13523, non potendosi escludere a priori la programmabilità di eventi anche a breve termine ed essendo, comunque, immediatamente ripristinabili i servizi quotidiani di ristorazione presso l’ex ante interdetta dependance a beneficio della clientela sia interna sia esterna alla struttura alberghiera.

15.4. Alla luce delle superiori considerazioni in punto di inesatta quantificazione del lucro cessante, l’ammontare di quest’ultimo, già ridotto retro, sub n. 11, nella misura di € 201.600,00, deve essere ulteriormente decurtato in via equitativa del 70%, fino a ragguagliare l’importo di € 60.480,00.

16. Sul danno all’immagine.

Esso è prefigurato in termini del tutto generici ed ellittici dalla ricorrente, nonché determinato in € 50.000,00 senza alcuna giustificazione di un simile ammontare e, pertanto, non può essere riconosciuto.

17. Sul danno emergente.

La A. S. riconduce tale voce di danno alle spese legali sostenute nei vari giudizi relativi alla vicenda controversa. Ma, in questo modo, finisce per traslare sul piano risarcitorio la regolamentazione delle spese di lite, che è stata compiuta nelle singole pronunce di primo e secondo grado, emesse a definizione dei giudizi in parola (ivi compreso quello di cui alla sentenza del TAR Campania, Salerno, sez. II, n. 1005 del 6 agosto 2020, resistita all’appello dichiarato improcedibile dal Consiglio di Stato, sez. VI, con sentenza n. 2918 del 27 marzo 2024, dal quale è scaturita la proposizione del ricorso in epigrafe).

18. In conclusione, stante la sua ravvisata fondatezza nei sensi e nei limiti dianzi illustrati, il ricorso in epigrafe va accolto in parte qua, con conseguente condanna del Comune di Nocera Superiore al risarcimento dei danni per equivalente monetario, in favore della A. S., da liquidarsi nella misura complessiva di € 60.480,00, oltre interessi legali a decorrere dalla proposizione della domanda, eventualmente incrementati del maggior importo spettante a titolo di rivalutazione monetaria.

19. Quanto alle spese di lite, i profili di reciproca soccombenza ne giustificano l’integrale compensazione tra le parti.

TAR CAMPANIA – SALERNO, III – sentenza 22.08.2025 n. 1409

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