Processo – Danno – Giudizio d’appello e applicazione delle Tabelle di Milano

Processo – Danno – Giudizio d’appello e applicazione delle Tabelle di Milano

con il primo motivo, la ricorrente si duole della nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043,2056,2059 c.c., degli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 118, co. 1, disp.att. c.p.c., degli artt. 88,101,157 co. 2, 189,190,191 e 195c.p.c. e dell’art. 111 Cost., nonché per omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazione all’art. 360 nn. 4 e 5 c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente trascurato quanto rilevato dall’odierna ricorrente in sede conclusionale di primo grado circa la tardività e la conseguente inammissibilità delle censure avanzate dalla controparte nei confronti della seconda relazione peritale svolta in primo grado:

censure che, in quanto tardive, non avrebbero potuto essere considerate in sede decisionale d’appello;

il motivo è inammissibile;

fermo il rilievo concernente la totale inosservanza, da parte della ricorrente, degli oneri di allegazione imposti dall’art. 366 n. 6 c.p.c. (con particolare riguardo alla riproduzione diretta o indiretta di quanto indicato a fondamento della censura in esame), osserva il Collegio come l’odierna istante, dopo essersi doluta dell’avvenuta considerazione, da parte del giudice d’appello, di (asserite) osservazioni critiche alla seconda consulenza d’ufficio tardivamente avanzate in primo grado dalla controparte, abbia del tutto trascurato di argomentare alcunché in ordine al contenuto di tali osservazioni critiche (e, di conseguenza, in ordine al contenuto degli atti processuali attestanti le circostanze dedotte), con la conseguente impossibilità, per il giudice di legittimità, di verificare, non solo il contenuto, quanto (e soprattutto) l’eventuale fondatezza di quanto asserito;

parimenti inammissibile deve ritenersi la deduzione avanzata dall’odierna istante in relazione al preteso omesso esame, da parte del giudice d’appello, di fatti decisivi controversi, trattandosi piuttosto della denuncia di un vizio in tesi consistito nella (pretesa) violazione di norme del procedimento;

in tal caso, peraltro, a fronte di ciò che avrebbe integrato la violazione di una preclusione allo svolgimento di rilievi alla c.t.u. mediante la comparsa conclusionale (con la deduzione di tali rilievi come fondamento dell’appello), parte ricorrente, nel costituirsi in appello, avrebbe dovuto eccepire (non avendolo potuto fare in primo grado) la pretesa violazione delle ridette preclusioni e, quindi, sostenere l’inammissibilità dell’appello in parte qua: argomentazioni,

queste ultime, inammissibilmente trascurate nel contenuto dell’odierno ricorso;

con il secondo motivo, la ricorrente si duole della nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043,2056,2059 c.c., degli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 118, co. 1, disp. att. c.p.c., e dell’art. 111 Cost., nonché per omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazione all’art. 360 nn. 4 e 5 c.p.c.), per avere la corte territoriale immotivatamente trascurato l’esame delle eccezioni di merito sollevate dall’odierna ricorrente in appello in relazione alla circostanza per cui la seconda consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado aveva assunto i caratteri di un ‘rinnovo’ della prima consulenza tecnica d’ufficio, e non già di una ‘perizia suppletiva’, finendo erroneamente col sommare le risultanze della prima consulenza con quelle della seconda, senza articolare alcuna argomentazione critica in ordine alle scelte tecniche compiute dal giudice di primo grado, e senza addurre alcuna considerazione critica a sostegno delle proprie scelte;

il motivo è inammissibile;

osserva il Collegio come, attraverso la proposizione della doglianza in esame, la ricorrente dimostri di non aver còlto con esattezza la ratio della decisione impugnata;

al riguardo, varrà sottolineare come il giudice d’appello abbia rilevato l’avvenuta erronea sommatoria, da parte del secondo consulente d’ufficio, delle percentuali di invalidità stimate con riguardo a distretti corporei diversi da quelli considerati dal primo consulente, con le percentuali di invalidità indicate nella consulenza tecnica di parte (e non già con le percentuali già accertate dal primo consulente tecnico d’ufficio);

ciò posto, evidenziato tale errore (anche in considerazione della mancata giustificazione, da parte del primo giudice, della scelta – ove consapevole – delle percentuali stimate dal consulente di parte, rispetto a quelle accertate dal consulente dell’ufficio), e rimarcata la piena condivisibilità (siccome immune da vizi) di quanto accertato dal primo consulente tecnico d’ufficio, il giudice d’appello si è limitato ad operare la somma corretta (ossia la somma delle percentuali di invalidità stimate da ciascuno dei due consulenti tecnici d’ufficio), pervenendo alla determinazione dell’effettiva invalidità complessiva rinvenuta a carico dell’originaria attrice;

la censura in esame – nella misura in cui muove dall’indimostrato presupposto per cui la seconda consulenza tecnica sarebbe stata una ‘rinnovazione’ della prima consulenza, e non già una ‘perizia suppletiva’ rispetto a quella precedentemente svolta (senza tuttavia fornire alcuna spiegazione di tale asserzione, e senza neppure confrontarsi con quanto diversamente affermato dal giudice di appello, secondo cui la seconda consulenza d’ufficio era stata disposta in relazione alla «necessità di accertare eventuali danni permanenti di altra natura»: (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata) – mostra di non aver compreso le ragioni della decisione assunta dal giudice d’appello, senza neppure indicare gli eventuali fatti decisivi che sarebbero stati omessi dalla considerazione dei due consulenti d’ufficio al fine di conferire rilevanza alla pretesa insufficienza della motivazione del giudice d’appello resa in termini adesivi rispetto ai contenuti delle consulenze d’ufficio;

in breve, il giudice d’appello ha espressamente spiegato le ragioni dell’avvenuta sommatoria delle percentuali di invalidità calcolate dal primo consulente d’ufficio a quelle calcolate dal secondo consulente d’ufficio (essendosi i due consulenti occupati di distretti corporei diversi), e ha altresì spiegato perché ha ritenuto che il secondo consulente d’ufficio fosse incorso in errore associando, alle percentuali di invalidità stimate in relazione al distretto corporeo dallo stesso considerato, le percentuali di invalidità stimate dal consulente di parte dell’attrice (poiché se avesse realmente voluto associare, alle percentuali dallo stesso stimate, quelle del consulente di parte in relazione ai diversi distretti corporei, avrebbe certamente fornito una ragione della preferenza accordata a tale stima rispetto a quella del primo consulente d’ufficio in relazione ai distretti corporei da quest’ultimo specificamente considerati): di tali spiegazioni l’odierna ricorrente non si è fatta carico, limitandosi a dedurre unicamente un preteso carattere immotivato delle ragioni poste dal giudice d’appello a fondamento della propria decisione;

varrà in ogni caso considerare come, attraverso la proposizione della censura in esame, l’odierna ricorrente sia nuovamente incorsa nella violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. con specifico riguardo ai contenuti della c.t.u. e alla sua integrazione;

peraltro, ove apprezzata secondo la prospettiva dell’eventuale violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c., la doglianza in esame incorrerebbe nell’illegittima deduzione di tale vizio, avendo fondato le proprie argomentazioni critiche – contro i principi ribaditi da Cass., Sez., Un. nn. 8053 e 8054 del 2014 – sulla base del confronto del testo motivazionale con elementi tratti aliunde rispetto ai soli contenuti di tale testo; viceversa, ove apprezzata secondo la prospettiva dell’eventuale vizio di cui all’art. 360, n. 5 c.p.c., l’inammissibilità della censura discenderebbe dall’avvenuta mancata individuazione di pretesi fatti omessi dall’esame del giudice di merito, essendosi la stessa unicamente limitata a prospettare un’erronea valutazione delle consulenze tecniche d’ufficio svolte nel corso del giudizio;

con il terzo motivo, la ricorrente si duole della nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., dell’art. 112 c.p.c., nonché per omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazione all’art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c.), per avere il giudice d’appello erroneamente applicato, nella liquidazione del risarcimento del danno spettante all’originaria attrice, le c.d. tabelle di OMISSIS del 2011 già applicate dal primo giudice, e non già le medesime tabelle aggiornate all’epoca della liquidazione in appello, muovendo dall’irrilevante presupposto secondo cui nessuna delle parti avesse invocato l’applicazione delle tabelle più aggiornate;

con il quarto motivo, la ricorrente si duole della nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1226,2056,2059 c.c., degli artt. 132 n. 4 c.p.c. e 118, co. 1, disp. att. c.p.c., e dell’art. 11 Cost., nonché per omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazione all’art. 360 nn. 4 e 5 c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente disatteso il primo motivo di appello incidentale proposto dall’odierna ricorrente in relazione al punto concernente la personalizzazione del danno biologico, nella specie liquidata dal giudice d’appello nella misura del 15% anziché nella più corretta percentuale del 25% prevista, nel minimo, dalle tabelle di OMISSIS emesse nel 2018;

entrambi i motivi – congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione – sono fondati;

osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando, all’esito del giudizio di primo grado, l’ammontare del  danno  alla  persona  sia  stato  determinato  secondo il sistema ‘tabellare’, la sopravvenuta variazione, nelle more del giudizio di appello, delle tabelle utilizzate legittima il soggetto danneggiato a proporre impugnazione, per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, allorquando le nuove tabelle prevedano l’applicazione di differenti criteri di liquidazione o una rideterminazione del valore del ‘punto-base’ in conseguenza di una ulteriore rilevazione statistica dei dati sull’ammontare dei risarcimenti liquidati negli uffici giudiziari, atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c. (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 22265 del 13/9/2018, Rv. 650595 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 25485 del 13/12/2016, Rv. 642330 – 01);

varrà sul punto sottolineare come la variazione tabellare non incida sull’accertamento (an) dell’eventus damni (ossia sul diritto al risarcimento) ma soltanto su criteri logici orientativi ed esplicativi del potere discrezionale di liquidazione equitativa, venendo a costituire un superamento della valutazione-tipo e della tecnica liquidatoria precedente, e dunque immediatamente applicabile in quanto ritenuta ‘allo stato dell’arte’ maggiormente adeguata a garantire l’effettivo ristoro del danno patito;

riguardata sotto tale aspetto, la variazione tabellare può ritenersi immanente all’esercizio del potere equitativo ex art. 1226 e 2056 c.c., che rimane pertanto sindacabile, sotto il profilo della violazione di legge, per incongruità o lacune nella scelta degli indici sintomatici, delle condizioni personali, e delle particolari ‘circostanze del caso’ assunte a base della determinazione del quantum, laddove il giudice di merito si discosti – senza plausibile ragione – dai nuovi criteri tabellari limitandosi ad applicare i precedenti criteri divenuti obsoleti, venendo in tal modo a porsi in contrasto con l’interpretazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., fornita da questa Corte, intesa come compensazione ‘equa’ – secondo ciò che la comunità sociale, in un determinato contesto storico, ritiene satisfattivo del pregiudizio non patrimoniale subito – e, tendenzialmente, ‘integrale’, dovendosi riparare un danno per lesione di un interesse della persona di per sé insuscettibile di valutazione economica e quindi difficile prova quanto al preciso ammontare dell’equivalente monetario (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 4447 del 25/02/2014);

converrà osservare in  proposito  che, non essendo riconducibili le c.d. tabelle tra le fonti dell’ordinamento, e non rivestendo natura normativa neppure come elementi richiamati ab externo ad integrare la fattispecie normativa che regola l’esercizio del potere equitativo del giudice di merito, non essendo ad esse fatto alcun espresso rinvio dagli artt. 2056 e 1226 c.c., e pertanto, pur dovendo escludersi (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 9367 del 10/5/2016) che la modifica delle stesse nel corso del giudizio possa operare come jus superveniens che il giudice è obbligato ad applicare anche quando il nuovo diritto sia sopravvenuto nelle more tra la camera di consiglio e la pubblicazione della sentenza (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 14357 del 21/12/1999; Sez. 1, Sentenza n. 26066 del 10/12/2014), occorre considerare – alla stregua della giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata – che le tabelle costituiscono, come è stato rilevato, un utile parametro di verifica della legittimità dell’attività di giudizio, in quanto consentono – avuto riguardo alle caratteristiche di omogeneità ed uniformità di trattamento di situazioni tipo che i criteri tabellari esprimono – di valutare detta attività sotto il profilo della congruità e rispondenza – della liquidazione equitativa – al principio generale per cui al soggetto leso deve attribuirsi l’integrale ristoro del danno, assumendo a riferimento indici standard correlati a qualità e condizioni soggettive ed oggettive delle persone lese (intendendosi tali quegli elementi di valutazione che sono ritenuti socialmente rilevanti per giungere ad un ristoro del danno – non altrimenti dimostrabile con esatta precisione nel quantum – da intendersi come ‘giusto’ secondo il comune apprezzamento che emerge dal contesto storico-sociale nel quale tali criteri di liquidazione sono chiamati ad operare), rispetto ai quali una deviazione non motivata appare sintomatica del vizio di legittimità di violazione dell’art. 1226 c.c.;

è stato infatti posto in rilievo da questa Corte che l’adattamento dell’ordinamento al caso concreto, attraverso la creazione di una regola ad hoc in difetto della quale pretese meritevoli di tutela resterebbero insoddisfatte (com’è per gli artt. 1226,1374 e 2056 cod. civ.), non esaurisce il senso e il contenuto della nozione di equità. Essa – ed è la caratteristica che viene qui specificamente in rilievo – ha anche la funzione di garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale, o viceversa: sotto questo profilo l’equità vale ad eliminare le disparità di trattamento e le ingiustizie. Alla nozione di equità è quindi consustanziale non solo l’idea di adeguatezza, ma anche quella di proporzione (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, in motivazione);

ne segue che il giudice che non si sia attenuto ai criteri tabellari, qualora non fornisca una motivata giustificazione di tale scelta in relazione al caso concreto, non assolve all’obbligo che gli è richiesto di ristorare integralmente il danno non patrimoniale, al quale viene meno

– avuto riguardo al principio di immanenza del criterio estimativo comunemente ritenuto più adeguato qualora, investito della questione in grado di appello, non ritenga di applicare  i  nuovi criteri liquidatori previsti dalla variazione tabellare in base al semplice rilievo

della correttezza della liquidazione operata dal giudice di prime cure, in quanto conforme ai criteri tabellari ‘vigenti’ in primo grado: ed infatti, come si è rilevato, non trova applicazione con riferimento alla variazione tabellare la regola tempus regit actum, dato che le tabelle non disciplinano i requisiti di validità di una fattispecie quanto alla fase genetica o alla produzione di effetti giuridici, ma operano esclusivamente sul piano dell’esercizio del potere discrezionale riservato al giudice nella liquidazione equitativa del danno, e dunque sul piano della risposta che il giudice è tenuto a dare rispetto alla domanda risarcitoria proposta dal danneggiato, avente titolo in un rapporto giuridico che, finchè pende il giudizio, non può ritenersi esaurito e che non ha ‘ancora’ trovato il dovuto integrale ristoro nella liquidazione in via equitativa effettuata alla stregua di criteri (vigenti al momento della pronuncia di prime cure ma) divenuti obsoleti nelle more del giudizio di merito (cfr. Sentenza n. 25485 del 13/12/2016, cit., in motivazione);

al riguardo, varrà altresì considerare quanto ritenuto, in una fattispecie consimile, dalla giurisprudenza di questa Corte, là dove si è affermato come, in tema di applicazione delle c.d. tabelle milanesi di liquidazione del danno, qualora dopo la deliberazione della decisione e prima della sua pubblicazione, sia intervenuta una loro variazione, deve escludersi che l’organo deliberante abbia l’obbligo di riconvocarsi e di procedere ad una nuova operazione di liquidazione del danno in base alle nuove tabelle, la cui modifica non integra uno jus superveniens, né in via diretta né in quanto possano assumere rilievo, ai sensi dell’art. 1226 c.c., come parametri doverosi per la valutazione equitativa del danno non patrimoniale alla persona (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 9367 del 10/05/2016, Rv. 639902 – 01);

tali considerazioni (già frutto del patrimonio argomentativo acquisito dalla giurisprudenza di questa Corte) appaiono ulteriormente integrabili attraverso l’affermazione del principio secondo cui, una volta che il giudice d’appello abbia ritenuto (come nella specie) di applicare un determinato criterio di liquidazione equitativa del danno (come, ad es., la c.d. ‘tabella di OMISSIS’), deve escludersi la necessità di una specifica richiesta della parte vòlta all’applicazione della tabella più aggiornata, poiché la manifestata intenzione di adottare un determinato criterio equitativo (nella specie, la ‘tabella milanese’: cfr. pag. 4 della sentenza impugnata) impone già di per sé l’obbligo (pena la violazione dell’art. 1226 c.c.) di applicare tale tabella nella sua versione più aggiornata al momento della liquidazione del danno;

nel caso di specie (ferma l’avvenuta dimostrazione, da parte della ricorrente, che l’applicazione della tabella più aggiornata avrebbe comportato una liquidazione più favorevole del risarcimento rivendicato), l’affermazione del giudice d’appello, secondo cui non si sarebbero potute applicare le tabelle milanesi più aggiornate – dovendosi invece applicare le medesime tabelle milanesi nella formulazione vigente all’epoca della liquidazione operata dal giudice di primo grado, poiché nessuna delle parti ne aveva fatto richiesta – deve ritenersi erronea, siccome in contrasto con l’art. 1226 c.c., con la conseguente cassazione sul punto della sentenza impugnata;

dev’essere dunque affermato il principio di diritto secondo cui:

«allorquando il giudice di appello eserciti il suo ministero riprovvedendo alla liquidazione del danno già liquidato dal primo giudice secondo una tabella risalente ad una certa data, egli, dovendo applicare l’art. 1226 c.c. ha il dovere di applicare la tabella aggiornata eventualmente sopravvenuta e non può, per applicarla, esigere l’istanza di parte, giacché il potere ex art. 1226 c.c. (ormai cristallizzatosi in appello nel senso dell’applicazione del relativo sistema tabellare) è potere esercitabile d’ufficio e l’applicazione dell’aggiornamento fa parte del suo contenuto»;

con il quinto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. (in relazione all’art. 360 nn. 4 e 5 c.p.c.), per avere il giudice d’appello erroneamente determinato l’entità del risarcimento del danno spettante all’odierna ricorrente al lordo delle somme dalla stessa già percepite in sede stragiudiziale, contraddicendosi, rispetto a quanto indicato nelle premesse della sentenza impugnata, e senza tener conto che il giudice di primo grado avesse già liquidato il risarcimento del danno al netto di tali somme;

l’accoglimento del terzo e del quarto motivo – in quanto destinato a condurre a una nuova determinazione dell’entità del risarcimento del danno spettante all’odierna istante – vale ad assorbire la rilevanza della censura in esame;

sulla base di tali premesse, rilevata la fondatezza del terzo e del quarto motivo (inammissibili i primi due ed assorbito il quinto), dev’essere disposta la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione, cui è altresì rimesso di provvedere alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità;

Cass. civ., III, ord., 01.08.2025, n. 22183

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